giuliano

martedì 25 gennaio 2022

IL PROCESSO, ovvero: SCRIVERE LA STORIA (15)

 





























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Circa la Storia... (14)


Prosegue con il...:


Capitolo completo


& un Giubileo alla Natura  (17/8)







Incontrovertibilmente vero, che si prova sereno saggio benefico clima alla sua illuminata vista, concetto questo, che ci fa dimenticare la stessa Geografia al pericolo in cui esposta, e facendoci dimenticare coordinate rette e confini ove talvolta - smarriti - ci troviamo ad ammirare simmetrici panorami, perdendo il senso materiale della Storia nell’intento della Universale Conoscenza a cui l’Anima così come lo Spirito, si eleva all’Infinito.

 

Dacché traduciamo che i principi, anche se esplicitati entro la gravità geografica in cui dedotti o costretti, nella uguale specifica della materia in cui nati, Infiniti nel rispetto alla elevata Natura chi li ha ispirati, aliena alla Geografia così come al limite del materiale Dogma di questa ed ogni altra Scienza, e eternamente al di fuori e simmetrica ad ogni diversa Geografia spirituale che li ha elevati e ispirati. Se questa una condizione a sua volta assoggettata al Dogma della dottrina, sia essa psicologica filosofica teologica e scientifica, noi risolviamo la questione in conformità al principio dell’unione, ovvero non sussiste contrasto, così come fuoco o ghiaccio, negli Elementi così tradotti ed interpretati, ma semmai simmetrici al concetto che da essi nasce e per sempre nascerà per volontà divina, in quanto negli opposti riconosciamo la vita.




Con questo Principio ogni volta ove l’uomo ha modificato il proprio ‘paesaggio’ nell’intento di subordinarlo e dominarlo, noi lo edifichiamo di nuovo, riconoscendo nell’umiltà di un Dio la capacità non più del perdono, in quanto non scorgiamo peccato, semmai la capacità di comprensione nel vedere lo Spirito nel tentativo della Conoscenza, sia questa un atto gnostico che ortodosso; non rileviamo, simmetricamente come evoluto ogni panorama della Terra, divergenza fra il fuoco e il ghiaccio, neppure il principio fisico e bio-chimico che li caratterizza nella differenza, in quanto sappiamo che gli opposti climi e le condizioni in cui nati (anche se protratti da uno all’altro polo che li differenzia fra caldo e freddo) evolveranno secondo l’accordo del riconosciuto beneficio cui la Natura tende a migliorare, e di conseguenza, migliorare le condizioni necessarie al conseguimento oltre che dell’avversa sopravvivenza, anche dell’esistenza.

 

Leggere negli anelli dell’Albero con tutte le vicissitudini a cui il clima ed a cui alla sua vista l’occhio estasiato ed in qual tempo ispirato ne ha goduto (e gode ancora) i benefici frutti, oltre la bellezza e l’ombra da cui più sereno pensiero e respiro, è una Scienza molto più profonda se oltremodo adottata nei simmetrici principi formali della sua nuova dimensione in cui tale ricerca ci illumina.




Ovvero simmetricamente ‘rileviamo e riveliamo’ alterne condizioni cui l’Albero, così come le rocce su cui le radici, non meno del terreno, esposti ad una determinate Geografia - o meglio ancora Ecosistema -, ne hanno modificato il profilo della comune crescita (a cui anche la materia inanimata soggetta), e con ciò siamo in grado di decifrare una invisibile scrittura ben più vasta e profonda circa i muti silenziosi comuni Geni, che la roccia l’albero, ed ogni essere inanimato ed animato, con noi, hanno e condividono ancora; nelle mutevoli condizioni in cui esposti, irrimediabilmente dipendenti l’uno dell’altro, connessi e stabilmente in costante reciproco seppur mutevole rapporto, ma al fine del beneficio, in cui leggiamo l’altrettanta condizione della incorrotta Natura, la quale tende al miglioramento nel dovuto adattamento mantenendo integra la Forma riflessa nella costante Crescita, quasi un costante rapporto fra forma e adattamento, in cui invariata la Spirale in cui leggiamo la Vita. 

 

Solo l’estinzione interrompe in maniera irreversibile cotal evoluzione in seno al costante concetto della Vita,  e dell’invisibile Pensiero che l’ha originata.




Per cui con questa Scienza, deduciamo, rimpiangendo l’Albero, gli strati in cui leggere la sua lenta inesorabile crescita al fine della Vita, e la nostra volontà risiede nel creare un Bosco, una Selva, al fine di migliorare l’esistenza, giacché sappiamo anche che il polmone ove si svolge un determinato principio, ci impone alla sua tutela. Certo l’Albero nella sua sacra simbologia, rappresenta un simbolo, oltre un aspetto ben determinato e specificato, e non solo genealogico di una razza o stirpe sacra che questa sia. Mentre il concetto che alla sua vista ci ispira dispiega una più vasta e connessa genealogia.

 

È altrettanto certo anche, che con la legna non meno del calore che da questo deriva, l’umano ingegno nei secoli si è servito e serve ancora, un vasto principio a cui  contrastare il ghiaccio quale avverso elemento, così simmetricamente per ogni animale più o meno allevato o addomesticato, qual altrettanto fine nel nutrimento della carne. È vero anche che le risorse rivolte alla sua tutela superano i benefici del rogo stagionale, così come oltremodo vero che l’animale ogni animale della selva rischia la prematura estinzione al fuoco da cui l’albero ci dispensa il suo nutrimento. A dispetto della vera sana incorrotta bellezza.




Procedendo su questo, non più immateriale Sentiero, nella volontà di volermi coniugare al Dio che così benefica ha creato a sua immagine Madonna Beatrice Natura, divengo immediatamente eretico. Ed altresì avversato da chi dello Spirito fa e promuove le alterne ragioni o stagioni della propria dottrina. Invece sappiamo bene che la Verità supera le materiali Ragioni a cui il rogo della dogmatica dottrina, impongono determinate scelte, trascurando più profonde e benefiche Verità.

 

La concretezza di una determinata Scienza rivolta alla comprensione del comune passato rivolto al beneficio del futuro, ci porta alle trascurate simmetriche Ragioni dell’Infinito, non certo Infinite le Stagioni della Vita con cui leggere gli anelli della Storia, semmai simmetriche alla condizione in cui ciò che deduciamo o interpretiamo come un soggetto senza Anima Pensiero e moto, diverso da un animale, nella differente caratteristica data dal movimento, e nella classificazione puramente materiale di una o più scienza, le quali classificano studiano ed interpretano, lo precludono ad un essere vivo, pur principio primo e fondamentale da cui e per cui la Vita.




Ma oltre modo preclusa nella capacità di una determinata Logica, più o meno posta nella paradossale illogicità dell’incomprensione così come scientifica dottrinale, la quale classificando e procedendo ad un comune divergente simbolo interpretativo, che la presunta Conoscenza ispira per ogni anello del reciso tronco, da cui ogni cosa o elemento classificato si presuppone conosciuto in quanto entro la materia in cui svolge la funzione, sia come vegetale (alieno al Pensiero quindi ad ogni principio di Conoscenza) o come albero abdicato alla dottrina d’una comune Via; quantunque incapace di riconoscere gli stadi evolutivi da cui transita l’elevato Pensiero, ovvero come un Dio pensa crea e dispensa  a sua immagine, un universale Beneficio (al di fuori dalla Dottrina).

 

Nel compiuto illimitato limite della dotta Conoscenza abbiamo posto una severa Geografia, in cui una determinata Natura specificata ma non del tutto dedotta o compresa nella verità a cui per sua Infinita caratteristica appartiene nella differenza, e cui invisibile espleta ed assolve superiore funzione ( o capacità posta in ugual differenza) ad ogni pensiero parola o scrittura nell’insieme dell’umano da cui, come poco fa detto circa la suddetta classificazione entro la materia divide e differenzia, in quanto come tale tramite di un più elevato Principio e Pensiero e oserei dire, Verbo, circa la Creazione cui destinato non più l’uomo, nell’elevato concetto classificatorio dedotto, ora più limite che oggetto illimitato della propria materia, ed a cui detto limite subordinato, nell’Infinita per quanto possa esserlo principio da cui la Vita, o il conseguimento in cui posta l’Anima e lo Spirito a lei subordinato.    




Dacché ne deduciamo ancora l’‘oggetto-soggetto’ cogitato sia filosoficamente che scientificamente e teologicamente e come altresì rapportato nella sua ed altrui funzione ‘classificatoria’ posta nel Dogma, non ben compreso nei processi del proprio ed altrui (inarticolato seppur Infinito= Dio, ovvero assente all’atto distintivo da cui l’umana prerogativa e classificazione di cui l’umano posto in Cima alla piramide della specie) Pensiero, giacché la Vita (con il suo vero principio) perisce in ciò di cui, per opposto modus operandi, subordinata al Dominio della morte, con la pretesa di riconciliarla, o peggio, addomesticarla quindi subordinarla a chi per ultimo ne classifica il principio sottratto all’atto Creativo, senza il Superiore atto cogitato di cui l’uomo si assume l’esclusiva comprensione nella dinamica evolutiva il quale lo differenzia, sia nel Dominio stesso, sia nella comprensione circa la presunta Intelligenza al Dio che l’ha posto al vertice qual ultimo elemento della catena evolutiva.

 

Da ciò non ne ricaviamo un miglioramento come lo è per chi ha compiuto l’atto evolutivo (ovvero la Natura), ma al contrario, in questo specchio, decifriamo la morte qual ultimo intento apocalittico rivolta all’involuzione, di un intento nato e rivolto alla costante da cui leggere  decifrare e risalire la Spirale della (morta) Vita, per volontà umana!




La Vita come tale accresce il proprio tronco negli anelli di cui la radice ben cinta entro la Terra per il dovuto necessario duplice nutrimento, e renderlo poi al concetto dell’accrescimento sino alla foglia del più elevato Ramo, d’un Pensiero articolato nei vasti Rami sino alle alterne Stagioni di cui il frutto accrescerà la dovuta necessaria Comprensione rivolta all’ispirata evoluta Conoscenza; ma l’uomo nel gesto del secolare simmetrico accrescimento rivolta all’opposto Dogma del Dominio, reciderà tronco arbusto e l’intera Selva con la pretesa scritta nell’impropria Geografia del Dogma, di cui confini ed improprie Cime, eleveranno la ciclicità anch’essa scritta in simmetrici anelli di dominio, i quali rimembriamo conserviamo e osserviamo, come atti disgiunti e congiunti d’una medesima ciclica Storia compiere medesima opera; seppur ammirata nelle impareggiabili opere comunque sempre disgiunta dalla simmetrica evoluzione di cui la Natura subordinata ad una prospettiva aliena alla figura rappresentata in primo piano, sia questa una icona regale qual volto umano, sia questa una icona dottrinale rappresentare santi aneddoti, sia questa una semplice o composta scena seppur inerente alla vita, la Natura domina se rappresentata, al di fuori quale fosco panorama subordinato al Dominio umano, da cui l’umano ricaverà ogni abominio per la propria aliena impropria concezione di Vita, quindi dell’atto cogitato di un più probabile Dio Straniero. 




Dicevamo l’Albero sarà sradicato, e noi leggeremo con ampio sforzo, grazie alla nuova Scienza da cui una più profonda comprensione posta fra la crescita forma e tutti i fattori fra loro connessi quali Elementi, i quali hanno determinato oltre la dovuta crescita, anche le ricavate dedotte condizione ambientali cui l’Albero come un essere vivo nella propria genetica, simmetrica al contesto della vita, ha conservato e abdicato alla conoscenza dell’uomo; seppur lo stesso nelle proprie Memorie ha lasciato ampio testimonianza delle proprie o improprie stagioni della Vita, mai potremmo comprendere dall’eterno processo della Storia, quanto appartiene alla vera sua (malefica) natura inerente alla materia, e all’opposto concetto di simmetrico Infinito dato - seppur nell’apparente limitatezza di ugual materia (come potrebbe esserla un albero) - posta nello specchio del Tempo, rivolta alla maggiore finitezza e compiuta evoluzione confacente con il miglioramento delle condizioni di Vita.




L’Albero in ciò può dirsi maestro, e prendendo spunto da questo illuminato esempio, ci sia concesso di apostrofare la frammentata scomposta ciclica storia dell’uomo sempre disgiunta dalla sua innaturale natura seppur ricca di opera e pensiero assente dallo stesso nella summa data dalla reale Storia, la quale come sempre, e non solo nel caso di Pavel, abbatte il tronco, la Selva, l’intero Bosco, da cui ogni sano duraturo accrescimento nell’estesa ugual Geografia dell’intera Sfera, non apporterà quel Beneficio di cui il sano frutto appagherà l’evoluzione della Vita, e con essa il Sentiero in questa intrapreso, verso la Cima non più della conquista, ma della dovuta Conoscenza e della comprensione di come cogita accresce e crea (per suo tramite) alla sua ombra un Dio. 

(Giuliano)


(Prosegue con il capitolo completo)






sabato 22 gennaio 2022

L'INFINITO DIO DEL 'NULLA' (13)

 


















Precedenti capitoli:


L'Infinito Dio del 'nulla'  (12) &  [11]


Per chi 'nulla' avesse compreso


Prosegue con:


Il processo, ovvero, 


scrivere la Storia (14/5)









Nel XV secolo infatti, questi ultimi erano matematici dilettanti; Leonardo da Vinci scrisse una guida al disegno prospettico, e in un aforisma confluito nel Trattato della pittura ammoniva: ‘Non mi legga chi non è matematico nelli mia princìpi’. Questi matematici-artisti perfezionarono la tecnica della prospettiva e acquisirono in breve la capacità di rappresentare in tre dimensioni qualunque oggetto; con loro le arti non sarebbero più state vincolate a raffigurazioni prive di profondità.

 

Lo zero aveva rivoluzionato il campo artistico. 

(C. Seife, Zero)




Adopero ‘ortodossa icona’ - alla luce di un duplice e divino intento così come fu all’occhio di Cecco - qual simbolo per enunciare un probabile pittogramma… Per esplicitare, cioè, un concetto riflesso nello specchio della Memoria e ricavarne deduzione logica nell’estensiva ragione e regione ove confinato circoscritto e costretto l’‘irrazionale’ e con lui un più certo e degno concetto simmetrico ed equivalente al divino da ognuno cercato se pur con il microscopio o binocolo della propria micro e macra scienza, in quanto ben disse un fisico di cui la Poesia circa la vita e Dio condensata nella Rima ‘neutra’ d’una infinita vita - Frammento, di una, se pur piccola stella della galassia - tomo e pensiero - ove splende ben più luminosa ‘materia’ brillare al firmamento di una diversa ricchezza e preghiera nell’Opera scorta…

 

Edificare gravità – dal cielo al nucleo della sfera - di cui l’Universale Memoria da quando il Tempo nato conservato e custodito celato o costretto… misurato e razionalizzato…




(“l’occhio dell’uomo è una semplice macchiolina solare sulla terra, e dell’intero cielo non vede altro che puntini luminosi. Il desiderio dell’uomo di sapere qualcosa di più del cielo, quaggiù non si esaudisce. Egli inventa il telescopio e ingrandisce così la superficie la portata del suo occhio; invano, le stelle restano puntini. Allora egli pensa di raggiungere nell’aldilà quel che quaggiù non può ottenere, di placare infine la sua sete di conoscenza andando in cielo e scorgendo di lì, distintamente quanto rimaneva qui nascosto ai suoi occhi terreni. Egli ha ragione; ma non giunge in cielo perché provvisto di ali per volare da un astro all’altro, o addirittura in un cielo invisibile al di là di quello visibile: nella natura delle cose non esistono ali siffatte. Egli non impara a conoscere l’intero cielo venendo trasportato da un astro all’altro gradualmente, attraverso sempre nuove nascite; non esiste cicogna capace di portare i bambini di stella in stella; se l’uomo rende il proprio occhio un enorme telescopio, non per questo esso acquista la capacità di cogliere le immani distese celesti; il principio della vista terrena non sarà più sufficiente; a tutto egli perverrà invece in quanto, come componente consapevole e ultraterrena del grande essere celeste che lo sostiene, prenderà consapevolmente parte agli scambi luminosi [ed invisibili] di quest’ultimo con le altre [eterne] creature celesti. Una nuova vista! Ma non per noi di quaggiù”. (G. T. Fechner, Il libretto della vita dopo la morte)




 …Così per poterla meglio esplicitare ricorriamo ad una forma d’arte affine e conseguente al pittogramma in quanto definiamo lo zero di tale ‘Rima’ coniugata all’equazione della vita…

 

Pittogramma di una sconosciuta vista…

 

In quanto nell’irrazionale in cui gravitano dimensioni misure ed orbite della materia la sua deduzione è prossima ad una ‘aliena’ osservazione e deduzione insita e posta nella ‘casualità’ di ciò che generalmente è postulata ‘vita’, e con cui, filosoficamente e non, svelato il suo motivo nel ‘razionale’ - comunque e sempre ‘cogitato’ ed ‘intuito’ nell’evoluzione propria della teologia che fa del miracolo un suo pianeta un orbita con cui svelare Dio e principio sebbene  osservati annotati e descritti anche dal ‘notaro’ di turno nella volontà in cui definiamo e circoscriviamo una probabile ‘misura’ nel paradosso dell’Infinito e zero - con cui riconosciamo, o se non altro deduciamo, il limite formale della nostra conoscenza e con questa ‘intuizione’ nell’osservazione estesa fin là dove ‘implode’ la luce nel processo opposto dell’osservazione - nell’ottica e lente di ogni probabile ‘evoluzione’ ed inizio…




Quindi progressione dall’1 all’infinito nel ‘positivo’, definendo l’opposto, sottratto e negato ad ogni principio partecipativo in quanto non accertato non visto non misurato nell’ottica in cui nato il numero di ogni stella osservata nell’orbita con cui circoscritta la Natura e Dio… E con questa, nutrimento e principio di ciò con cui intendiamo riveliamo e rileviamo come vita, e con essa la vista, la quale coglie l’illusione di tal mirabile lampo e visione - scomposta nei suoi molteplici aspetti - cogitata sempre e quantunque - dalla progressione del numero - da cui ogni scienza - sottratta però dall’evidenza e consistenza nell’irrazionale posta del vero principio (e Dio) di ciò che non è visto né misurato né fors’anche dedotto… Qual Dèmone e Diavolo (ed anche Gnostico motivo)… sempre al cielo ove splende e riluce ogni galassia e firmamento dalla Genesi dedotto… Ecco così svelato il ciclo ed il ‘neutro’ principio e fine di ciò cui la morte decreta sostanza e sentenza di ciò cui pongo ‘infinita’ Rima nella Poesia (e Fiore) nata…

 

Qual motto di vita rovesciando piani e coordinate orbite ed rette fin qui dedotte… rapportando l’inizio come la fine di ogni vera e limitata comprensione al numero e dimensione di ogni corpo costretta, e il suo opposto come ciò di cui la ‘neutra’ e sconosciuta apparente disavventura non rilevata fors’anche solo dedotta nell’ottica che accompagna Eretica verità svelata qual Dèmone Spirito ed Anima al contrario della numerata e circoscritta Storia e con essa Memoria…




(giacché è il numero che fa’ di conto contando se stesso di cui il simbolo, sicché il figurato motivo e  difficile Sentiero narrato qual ‘pittogramma’ tracciato alla caverna inciso vuol intendere e decretare inizio e fine della parola e con questa del Verbo con cui per sempre svelata la pretesa della vita… Ed infatti chi di opposta Poesia al più [+] di un Teschio troverà la sottrazione [ - ] dell’Infinito e Dio (con cui rilevare materia) e con questo lo zero, donde in verità e per il vero, proviene… Non perché sia ‘nulla’, ma al contrario, il ‘nulla’ di ciò cui nutre verso ciò (simbolo zero cerchio perfetto) …cui approdata l’umana comprensione… Così anche di questo sveliamo il duplice principio nell’ora della sua visione ed intento, se visto cioè al mattino o alla sera di una stessa Poesia di una medesima Opera, qual profeta con cui attraversata la vita da un Buddha fino ad un Cristo…)…

 

…E se implosi in codesta natura accompagnati dalla ‘pazzia’ prefigurare certa e sicura fine là dove la luce non sgorga là dove la comprensione non raccoglie - nel Secondo confondendo il Primo - siamo pur  certi il quadro nel duplice intento osservato, cioè nella luce mirato, divenire medesima figura ad una doppia condizione assunta… confondendo cornice ed Opera… di chi ammirando la cornice e perimetro non scorge il volto celato dell’intento rappresentato…




Così il mistero di come rilevata la luce alla dimensione e prospettiva di ogni Opera rivelata e vissuta…

 

Nell’evento cioè, definito casuale nell’approssimazione di quanto posto come irrazionale… dalla quale deriverà una più consona immagine alla ‘prospettiva’ evoluta… E se pur nell’improprio Tempo coniugata di chi il profetico dono, il verbo accompagnato dall’icona e  secolare sentenza ed implacabile giudizio di chi pensa scorgere sempre motto e araldo affine alla pazzia… formare l’‘evoluta’ propria Natura ‘evoluta’ ed anche ‘taciuta’… In quanto  ugualmente (oggi come ieri ed un Tempo) nella materia cogitata prefigurare inquisitore e critico della Parola per ciò che dal numero deriva ed al numero ritorna…

 

Sicché esplicitata e frammentata nella dialettica del numero, appunto, in quanto vero ed accertato [così come al Tempo di Cecco, ed anche se per questo, precedente a quello…] che mentre ‘cogito penso ragiono e cerco’ proprio quello fa di conto e scruta da ugual cielo, come ciò esposto nell’evoluzione di questo…




Il paradosso appare più che esplicitato per questo il nulla taciuto di chi nulla scorto nulla ha detto nulla inquisito di quanto il libero arbitrio costretto al recinto di una rocca ove altra verità non certo diletto oltre il velo di un’apparenza nutrire ben altra vanità e ricchezza…(oggi come ieri ed un Tempo) [sì certo non è propriamente filosofia, dialettica, religione o altro concetto affine, ma povera ed ingannevole opera verso il fine di breve moneta coniata al soldo di un agognato cielo e zodiaco ove l’oroscopo è pur sana certezza di ogni ricchezza del corpo… Le ‘stelle’ hanno solo mutato il corso del Tempo, creando, come ben ammirate, il canone cui distribuite ed alla parabola convenute, medesimo ed invariato ortodosso principio…(hanno solo confuso e barattato Dio e motivo mentre l’Apocalisse bussa alla porta di ogni Elemento sottratto al suo principio…). …Ragion per cui ripetiamo dallo zero e nulla della nostra Opera irrazionale la venuta nel razionale ove il Tempo fermo e con questo il loro Dio che ci maledice!]… Giacché ben altre immagini alla parabola tradotte e trasmesse talché il dono proprio della mente nell’‘Anima Mundi’ da cui alchemica e segreta scienza ad un misero messaggino trasposta di chi globalizzata alla propria limitata Natura progredita e trasmigrata verso altro ed elevato ingegno [se pur il binocolo può scorgere il Tempo la morte prefigura una diversa Natura…, la quale, in verità e per il vero, annuncia un diverso Dio se pur Divino il numero…

 

L’Eretico ragionamento pone commento privato per l’appunto di quello…


(Giuliano Lazzari;   l'Eretico Viaggio)









mercoledì 19 gennaio 2022

(finito e) INFINITO (10)

 










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Finito  (9)


Prosegue con:


Eckhart e Sankara  [11]


& l'Infinito Dio del 'nulla'  (12/3)







L’unità di un insieme sarebbe data dal pensiero che pensa quell’insieme.

 

Lo spunto è interessante e, tuttavia, non sembra portarci là dove Cantor voleva andare. Infatti, una tale soluzione cozza con il fatto che gli insiemi finiti “troppo grandi” e gli insiemi infiniti non possono essere pensati nella loro estensione completa. Ora, per chi come Cantor ritiene che gli insiemi (finiti e infiniti) non siano semplici costruzioni della mente umana, ma esistano anche nella realtà questa soluzione non può andare bene.

 

Una posizione realista come quella di Cantor, che afferma l’esistenza di insiemi infiniti indipendentemente dalle capacità umane di trattare con essi, non può che appellarsi a un principio diverso dal pensiero umano.

 

A questo proposito Hallett richiama l’attenzione su un passo del Civitate Dei di Agostino, citato da Cantor, in tale passo Agostino difende l’esistenza di un numero infinito (ovvero sostiene che il numero dei numeri finiti sia infinito). L’infinitezza del numero è data dal fatto che non esiste un numero maggiore di tutti gli altri: esistono dunque infiniti numeri finiti. Ma Dio, per Agostino, non può non conoscere la totalità del numero: egli conoscerà quindi una totalità composta da infiniti membri.




Ora, prosegue Agostino, conoscere significa unificare nel proprio pensiero l’oggetto conosciuto, cioè renderlo finito: ogni infinità conosciuta da Dio è resa finita nella sua mente. Una entità è resa finita se la si può trattare come un oggetto individuale. Anche la totalità del numero, in quanto diviene un oggetto conosciuto, viene resa finita da Dio, diviene cioè un oggetto singolo.

 

Secondo Hallett, l’idea agostiniana per cui Dio, conoscendo oggetti infiniti, li renda in qualche misura finiti fu fatta propria da Cantor: in tal modo l’unità degli elementi di un insieme è resa possibile dal pensiero di Dio, che rendendo finito un insieme lo rende un oggetto individuale. Cantor invocherebbe qui Dio per giustificare l’esistenza di insiemi infiniti indipendenti dal pensiero umano; gli insiemi sarebbero quindi visti come dei corrispettivi delle “idee divine”.

 

Il chiamare in causa Dio con la sua capacità di rendere finito l’infinito giustificherebbe la possibilità di trattare in modo omogeneo gli insiemi finiti e quelli infiniti: proprio perché per Dio non vi è differenza essenziale tra insiemi finiti e infiniti, allora quest’ultimi dovranno essere trattati nel modo più omogeneo possibile ai primi.




Si potrebbe vedere in questa invocazione di Dio una soluzione ad hoc di un problema riguardante la natura degli insiemi. Certamente tale soluzione non ha soddisfatto coloro che hanno proceduto lungo la via dell’assiomatizzazione della teoria; operazione portata avanti anche nel tentativo di chiarire la nozione di insieme. Cantor avrebbe tuttavia negato con fermezza questa ipotesi: fin dal principio egli ha sviluppato la sua teoria all’interno di un quadro ontologico-metafisico ben definito; quadro che contribuisce in modo essenziale alla determinazione della propria nozione di “insieme”.

 

È per questo che siamo convinti che senza una adeguata comprensione della filosofia di Cantor non è possibile intendere la sua nozione di insieme. Uno dei principi fondamentali presente in Cantor fin dalle prime battute della teoria è che l’assoluto (Dio, il tutto) non può essere determinato insiemisticamente (cioè matematicamente); ciò significa che non vi è qualcosa come l’insieme di tutte le cose. Non vi è un numero che possa rappresentare la quantità di enti contenuti nell’universo, perché se esso esistesse allora l’universo sarebbe un insieme: ma questo è proprio ciò che la concezione dell’assoluto di Cantor vieta. L’assoluto è in qualche modo “troppo grande” per essere numerato, anche da un numero infinito. Le ragioni di tale impossibilità sono da ricercarsi nella teologia scolastica di stampo tomista, ben presente a Cantor.

 

Sottratto un numero infinito a Dio, Dio rimane sempre Dio.




Lungo la gerarchia transfinita (la gerarchia di insiemi infiniti) si può procedere all’infinito verso insiemi sempre più grandi, ma mai si raggiungerà l’assoluto:

 

‘È per me fuor di dubbio che lungo questa via [teoria del transfinito] avanzeremo per sempre, e mai arriveremo a un limite invalicabile – ma nemmeno a una comprensione, sia pur approssimata dell’Assoluto. L’Assoluto si può solo riconoscere, ma mai conoscere, nemmeno in forma approssimativa’.

 

L’assoluto rappresenta quindi fin dall’inizio una limitazione dell’applicabilità del concetto di insieme. L’idea che l’assoluto non sia trattabile insiemisticamente rappresenta una costante in tutto il pensiero di Cantor; tuttavia, una volta emerse le antinomie, egli tenterà di utilizzare direttamente tale idea come criterio di distinzione tra molteplicità consistenti e non-consistenti.

 

Dalla citazione sopra riportata della lettera inviata a Dedekind nel 1899 Cantor chiama le molteplicità inconsistenti anche “assolutamente infinite”. Ora, l’idea che l’assoluto non possa essere un insieme costituisce una sorta di “principio di limitazione” per la grandezza degli insiemi, tuttavia non ci dà un criterio preciso per stabilire quando un insieme è “troppo grande”.

 

(F. Costantini)

 

 



Nell’archivio della famiglia Florenskij si è conservato un manoscritto recante la seguente intestazione: ‘Corso di base. Introduzione alla filosofia antica (15 lezioni tenute nel semestre autunnale del 1908 presso l’Accademia Teologica di Mosca agli studenti del secondo anno). Le lezioni n. 12, 13 e 14 di questo ciclo sono dedicate alla teoria della conoscenza e sviluppano tre nuclei tematici:

 

1. La conoscenza come sistema di atti di distinzione;

 

2. La conoscenza come giudizio sulla realtà;

 

3. Il momento religioso-metafisico della conoscenza.

 

I contenuti del primo punto appariranno poi sul Messaggero teologico (Bogoslovskij vestnik) vol. I, n. 1 del 1913, pp. 147-174 col titolo Predely gnoseologii. Osnovnaja antinomija teorii znanija [I limiti della gnoseologia. L’antinomia fondamentale della teoria della conoscenza], mentre il secondo ed il terzo punto nelle intenzioni dell’Autore sarebbero successivamente dovuti confluire in un altro articolo, seguito del primo.




La questione conoscitiva, su cui verte ‘I limiti della gnoseologia’, riveste un ruolo predominante tra gli interessi speculativi di Pavel Florenskij, costituendo peraltro la coordinata fondamentale del suo opus maximum, ‘La colonna e il fondamento della verità’.

 

Nelle pagine che emergono ci è offerto un approccio interdisciplinare ad essa, in una tessitura sinfonica che abbraccia letteratura, fisica, matematica, filosofia, senza trascurare qualche penetrante osservazione di taglio psicologico, e denotando persino presagi della teoria della relatività.

 

L’antinomia gnoseologica cui allude il sottotitolo è quella nella quale si viene a trovare la ragione umana quando, nell’esplicare la sua attività conoscitiva, le si prospetta di scegliere in definitiva tra due sole opzioni, quella del realismo e quella idealista. Sia in un caso che nell’altro essa si ritroverà relegata ineluttabilmente entro gli angusti confini tracciati da queste due strade, che si rivelano entrambe dei vicoli ciechi.




È questo lo scacco di una ragione che non si voglia aprire alla trascendenza. Constatata allora l’impossibilità di comporre l’inconciliabilità tra questi due modelli gnoseologici Florenskij, nel solco della più genuina tradizione russa, addita un’altra strada, quella della ‘verità vivente’, aperta in ultima analisi a quell’invisibile in cui già molti secoli prima era stata ravvisata la fonte di ciò che è visibile dall’amato maestro Platone, del quale Florenskij opera una rilettura singolarmente profonda, capace di esaltarne la perenne attualità.

 

L’originalità dell’impianto di questa “lezione” risiede in gran parte nell’angolo di visuale peculiare all’Autore, fornitogli dalla scienza matematica, che resterà per lui un’abitudine del pensiero, lo strumento ermeneutico per eccellenza, di cui si avvarrà come base per una rinnovata visione unitaria, integrale e dinamica della realtà.




 Su questo sentiero Florenskij era stato condotto, in un certo senso, dall’ambiente della Scuola matematica di Mosca, all’interno della quale spiccava la figura di Nikolaj Vasil’evič Bugaev (1837-1903), che fu suo autorevole docente, e della cui concezione scientifica, connotata da fruttuose implicazioni gnoseologiche, il giovane Pavel Aleksandrovič rimase subito attratto. Particolarmente felice risultò poco dopo l’integrazione della prospettiva “moscovita” con la teoria degli insiemi di Georg Cantor (1845-1918), preziosa per la sua capacità di unire uno e molteplice, finito ed infinito. Quell’infinito di cui è gravido ogni momento della storia e della vita di ciascuno di noi. 

(M. Di Salvo)







domenica 16 gennaio 2022

il racconto della Domenica, ovvero: I LAVORATORI DEL MARE

 










Precedenti capitoli:


Festivi:


Dì domenica: Spero


Il libro ritrovato


Feriali:


Riconciliare gli Inconciliabili


Prosegue con: 


il pane e il circo (7)   &  [7/8]







     (Per il capitolo completo: L'uomo circo [6] )

Il padre di Iosif Dzugasvili era uno dei tanti servi della gleba emancipati, nel 1861, dall’editto di Alessandro II. Nel 1875 aveva lasciato il suo villaggio natale per trasferirsi, sempre in Georgia, nella piccola cittadina di Gori, sulle rive del Kura, le cui acque impetuose scendevano dalle cime del Caucaso. Si chiamava Vissarion - per gli amici Beso - e aveva una figura smilza, con baffi, barba e capelli nerissimi. Voleva tentare la fortuna facendo il calzolaio. Sempre in quell’anno prende casa e sposa una quindicenne, Ekaterina Gheladze, che mette continuamente incinta. Ben tre figli nascono dal 1875 al 1878, ma muoiono tutti poco dopo il parto.




Il 21 dicembre 1879 viene al mondo il quartogenito, cui impongono il nome di Iosif Vissarionovic. Il neonato sopravvive, sembra robusto. Trascorre i primi anni dell’infanzia in un modestissimo alloggio, una stanza col mattonato, il soffitto di rozze tavole, poche sedie, un tavolo, una finestra e una cucina col focolare, che serve anche al padre per il suo lavoro. Il cortile al livello dell’abitazione è fangoso. Uno squallore. Appena può Iosif - che i suoi cominciano a chiamare affettuosamente Soso - se ne esce per strada a giocare con i coetanei.

 

A sette anni il vaiolo gli lascerà il volto butterato, per sempre. Verso i dieci una carrozza lo travolge: un’infezione contratta alla mano sinistra si propaga per il corpo. Rischia di morire. Più tardi Iosif ricorderà di essere sopravvissuto per la sua ‘forte costituzione’. O forse per gli ‘unguenti di un ciarlatano del villaggio’. Ma la completa articolazione del braccio sinistro gli rimarrà impedita, anche questa per sempre. Il lavoro del padre non va bene, soldi in casa ne entrano pochi, anche se Ekaterina s’ingegna con mille lavori, va al servizio, fa la lavandaia. Spesso Vissarion torna dall’osteria ubriaco e litigioso. (Un giorno Iosif per difendere la madre gli lancerà un coltello: dovette rifugiarsi dai vicini per evitare la vendetta del genitore infuriato.)




Soso si sente attratto dalla madre, donna austera e religiosa ma di pronta intelligenza, concreta, e che ha idee molto diverse dal marito sull’avvenire di suo figlio. Vuol farne un prete, mandarlo alla scuola parrocchiale di Gori. E ci riesce, nel settembre del 1888. Quasi mezzo secolo dopo, ricordando quel periodo, la donna dirà a dei giornalisti sovietici che la intervistavano:

 

Mio figlio riusciva molto bene negli studi, ma suo padre... decise di toglierlo dalla scuola e di insegnargli il mestiere di calzolaio. Mi opposi con tutte le mie forze e litigai anche con mio marito, ma invano: egli rifiutava di cedere. Poco dopo, tuttavia, riuscii a rimandare a scuola il ragazzo.




Ekaterina, per delicatezza, non accennò al fatto che Vissarion, nel frattempo, era morto. (Forse a causa di una coltellata, durante una rissa.) Per Iosif non dev’essere stata una gran perdita, quella del padre. Ne parlerà una sola volta, indirettamente, pochi anni dopo, in un trattatello di marxismo scolastico, nel quale raccontava le traversie di un artigiano che, in difficoltà economiche, accetta di entrare in fabbrica, un calzaturificio di Tiflis, ma con il recondito pensiero, messo da parte qualche soldo, di tornare al suo lavoro autonomo.

 

Come vedete

 

…scrive il giovane autore

 

la condizione di questo calzolaio è già quella di un proletario, mentre la sua coscienza non è ancora proletaria, bensì piccolo - borghese in tutto e per tutto.

 

A suo padre era proprio andata così.




Ma la morte aveva messo fine a tutti i progetti di quel povero piccolo - borghese. Adesso Iosif- Soso poteva dedicarsi a tempo pieno agli studi. E ci riusciva bene, sveglio com’era e desideroso di ben figurare agli occhi della madre. Con i compagni era allegro, pronto ai giochi e agli scherzi. Insomma, come tutti i georgiani, estroverso e combattivo.

 

Nel luglio del 1894 Soso si diplomò con ottimi voti nella scuola di Gori, e qui la madre compie il suo capolavoro. Grazie alle sue insistenze, il direttore dell’istituto, con un’apposita borsa di studio, e il prete di Gori riescono a farlo ammettere al seminario di Tiflis, il non lontano capoluogo georgiano. Superati gli esami di ammissione in autunno, Soso diventa allievo ‘convittore’.

 

È la prima svolta della sua vita.




Quando si presenta ai religiosi del seminario è pieno di belle speranze. Ha un viso intelligente, che ricorda quello della madre, con occhi intensi, dal taglio un po’ a mandorla, il naso forte e diritto, le orecchie leggermente a sventola. Ha i capelli del padre, scuri e forti, con la scriminatura a sinistra. Alla scuola di Gori aveva imparato il russo ma il suo amore per il georgiano è rimasto intatto. In quella lingua ha letto libri eccitanti per la sua immaginazione, storie di amori, intrighi e ribellioni contro i rappresentanti russi dell’autocrazia.

 

Uno in particolare l’aveva colpito: ‘II parricidio di Alexander Kazbegi’. Narrava le vicende di Koba, un Robin Hood locale, vendicatore dei torti, forte, silenzioso, intrepido, buon tiratore. Quel Koba gli rimase sempre impresso in mente. Fu il suo primo modello.




Ma nel seminario, un edificio a tre piani, che dava ospitalità a seicento allievi, non c’era spazio per lo spirito d’avventura. Ammassati in una lunga ala si dovevano svegliare alle sette, recitare le preghiere, poi studiare sino alle due, con pranzo alle tre, di nuovo preghiere, ripasso delle lezioni, tè alle otto e poi alle dieci a letto.

 

Teologia, sacre scritture, letteratura, logica, matematica, storia, greco e latino le materie del corso. Tipico di un seminario l’insegnamento: dogmatico, piatto, a forte componente russa. Il georgiano era difatti bandito, così come la lettura di testi in quella lingua.




Proprio questa proibizione causava continue proteste. L’anno prima dell’arrivo del giovane Dzugasvili, c’era stato in seminario un prolungato sciopero degli allievi: chiedevano l’allontana mento di alcuni funzionari dell’istituto particolarmente oppressivi, e la creazione di una cattedra di georgiano. Dovettero intervenire persino le autorità. Il seminario venne chiuso per un mese e alla sua riapertura 87 studenti furono espulsi.

 

Quel seminario inculcava dunque la ribellione. Non poteva stupire: era, in pratica, l’università di Tiflis, l’unica scuola di studi superiori. Vi accedevano figli del bisogno, ma anche ragazzi della piccola e media borghesia locale, ricchi di fermenti nazionalistici, la futura intellighenzia della regione.

 

Ben pochi di loro pensavano davvero di diventare preti.




La tetra atmosfera del convitto, metà monastero, metà caserma, con le delazioni e il sospetto che la caratterizzavano, modifica radicalmente il carattere di Soso, che deve in fretta adeguarsi al nuovo tipo di vita. Diventa cauto, diffidente nei rapporti, introverso. Partecipa alle funzioni religiose, avendo una bella voce fa parte del coro, ma le sue inclina zioni mistiche – se mai ne avesse avute - si perdono per strada. Emerge invece, e piuttosto presto, la propensione per il proibito.

 

Al secondo anno del corso, un monaco- sorvegliante lo sorprende con un libro all’indice e fa rapporto:

 

...Dzugasvili possiede una tessera della biblioteca circolante (* Di Tiflis) e prende a prestito libri. Oggi gli ho sequestrato I lavoratori del mare di Victor Hugo...




Il preside, ricordato che già in precedenza il ‘ribelle’ era stato trovato con un’altra opera di Hugo, si ripropone di rinchiuderlo in cella di punizione per un lungo periodo. Fu solo la prima delle numerose infrazioni dell’allievo Dzugasvili, il quale, malgrado i richiami, le frequenti visite alla prigione interna, continua a percorrere i sentieri vietati alle letture.

 

I libri…

 

ricorda un suo compagno di corso

 

erano gli amici inseparabili di Iosif: non li lasciava neppure durante i pasti.

 

E dalla biblioteca circolante si riforniva di Gogol, Cecov, Saltikov- Scedrin, e Darwin.




Soso, che si avviava ai 17 anni, non aveva più nulla in comune con il ragazzino georgiano entrato in seminario. Nelle sue uscite in città, a Tiflis, aveva cominciato a frequentare un circolo di orientamento marxista, diretto da intellettuali locali e frequentato dagli operai d’avanguardia dell’epoca, i ferrovieri. Anche in Georgia, in quegli anni, il capitalismo cominciava a fare la sua prima, massiccia comparsa. Si aprivano miniere, una ferrovia collegava Tiflis a Baku, sul mar Caspio, dove si era iniziata l’estrazione del petrolio, grazie a cospicui investimenti stranieri.

 

Plechanov, il grande divulgatore del marxismo in Russia, più positivismo e darwinismo componevano una miscela esplosiva per quei ragazzi come Dzugasvili che anelavano a uscire dalle ristrettezze mentali dell’epoca, e a cambiare un paese che sentivano arretrato, per tanti versi chiuso e immobile. Quando già era il capo riconosciuto della Russia bolscevica, Dzugasvili riandrà, in alcune interviste, a quegli anni ancora con ira malcelata:



Diventai socialista nel seminario ecclesiastico, per ribellione contro quel sistema disciplinare. Lì non c’erano che continui spionaggi e angherie. Il mattino ci recavamo a prendere il tè e quando ritornavamo nei nostri dormitori, trovavamo tutti i tiretti manomessi e rovistati. E come nelle nostre carte, ci frugavano negli angoli più riposti delle nostre anime. Tutto ciò m’era intollerabile, e mi spinse alla ribellione...

 

Nell’ultimo anno del corso Soso entrò in aperto conflitto con le autorità del seminario. Si faceva volutamente sorprendere dai monaci sorveglianti mentre leggeva ad alta voce testi proibiti. Nel registro di disciplina è scritto:

 

Dzugasvili... ha avuto degli alterchi con gli ispettori, facendosi portavoce del malcontento suscitato fra gli studenti da queste ispezioni... Generalmente, l’allievo Dzugasvili è rude e irrispettoso verso le autorità....

 

Tutto era maturo per la rottura.




Al giovane, morso dalla tarantola della politica, quel seminario stava stretto; e così non si presenta agli esami dell’ultimo anno, nel 1899, precludendosi l’iscrizione presso un’università statale. Fu una decisione che addolorò molto la madre: il sogno di vedere il figlio ben sistemato come prete di campagna era svanito.

 

E pur di preservarlo nella sua mente, negherà sempre, anche molti anni dopo, che Soso fosse stato espulso o si fosse autoescluso dal seminario:

 

Lo ritirai io, per motivi di salute,

 

…disse più volte

 

quando entrò era fresco e forte. Ma poi studiò troppo e il medico disse che poteva diventare tubercolotico. Perciò lo ritirai. Lui voleva rimanere, io lo riportai a casa.




I suoi sacrifici, comunque, non erano stati inutili: Soso aveva avuto un’istruzione, per quell’epoca, più che sufficiente. Ma da quei cinque anni di seminario usciva con l’animo esacerbato e colmo di risentimenti. Il suo carattere ne sarebbe rimasto segnato per sempre. Sua figlia Svetlana, una delle poche persone che ebbe la ventura di raccoglierne le confidenze e di sopravvivergli, scriverà:

 

...Sono convinta che la scuola ecclesiastica ebbe un’enorme importanza per il carattere di mio padre e per tutta la sua vita, accentuando e consolidando le sue peculiarità innate. Non fu mai dotato di sentimento religioso. Le infinite preghiere, l’insegnamento religioso forzato... potevano suscitare soltanto il risultato opposto: un estremo scetticismo... l’assimilazione dell’ipocrisia, della falsa devozione, della doppiezza.




Soso non era molto portato all’introspezione e questi suoi aspetti negativi gli rimasero certo sconosciuti. A vederlo in una foto d’epoca sembrava molto sicuro di sé: la capigliatura adesso era bohémien, i folti baffi, quelli che lo renderanno famoso, già ben delineati, con in più la barba che gli copriva guance e mento.

 

Gli occhi si erano fatti febbrili.

 

Ma erano calma e prudenza le sue qualità migliori, abbastanza rare per un ventenne. Chi lo ricorda come compagno di classe dice:

 

Quando veniva interrogato, di qualsiasi argomento si trattasse, Iosif lasciava passare qualche minuto prima di rispondere.

 

(Rocca Gianni)


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