giuliano

martedì 30 agosto 2022

MECCANICI (9)

 










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ad esaurimento scorte [10] 


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& a caccia di noi Lupi  (12/3)







 

Oro avverso alla lingua mannaia del sano palato, bocca del più intonato grammaticato… composto strano nobile verso infierire, quantunque sempre un poco alla ‘tavola’ masticato e da una preghiera ringraziato nonché omaggiato.

 

Giacché fu a loro donato come Comandamento:

 

‘va! Saccheggia il mondo intero, e divora ogni immonda Bestia a tempo pieno, senza più creato e peccato haver commesso’.

 

L’estinzione d’ogni Elemento come un fulmine a ciel sereno ogni tanto rimembra e ravviva la Ragion persa del ‘mostro’: vaga come un prometeico Golem a caccia del suo Signore e padrone.

 

Di colui che lo havea creato più bestia che umano!

 

Tutto ciò al rogo o alla mannaia del camino, allieta il ricco palato accompagnato dal fedele disgraziato ubriaco, con l’intero Teatro esposto al periglioso fuoco nemico, di colui cioè, che di noi si vuol cibar con un sol boccone, come il pluridecorato cuoco detto Mangiafuoco, la più nota osteria del rione.




 Oggi, infatti, più d’un cervello è squilibrato, si potrebbe anzi domandare: qual cervello non è così. La Grecia  ebbe sette Savi, ma qual vanto per lei se il numero de’ suoi Savi avesse agguagliato quello de’ nostri pazzi!

 

Il miglior Teatro meccanico& di prosa, che sia aperto in ogni stagione, è il Teatrino Meccanico dei  Cardinali.  

 

Mi direte che non vi si recita mai prosa.

 

Per questo è il miglior Teatro di prosa!




Quel Teatrino è una meraviglia: nella Compagnia il solo fatto un po’ comune è che non ci è un attore, il quale sappia parlar italiano. Ciò accade in quasi tutte le nostre Compagnie drammatiche. Mi diceva il proprietario del Teatrino Meccanico:

 

‘I miei attori sono di ferro. Li potreste far muovere con ogni calamita: solo quella de’ guadagni o dell’ambizione li muovono come Prometeo! Resistono a ogni fatica; ce ne sono di quelli che, da quarant’anni, vengono ogni sera su la scena: e non sono ne ridicoli né commendatori, né esigenti, ne noiosi. Li vedete sempre freschi, specialmente quando sono stati tinti da poco. L’esser tinti è una loro debolezza, una delle poche, le quali abbiano comuni con i più grandi attori!’.

 

Lo ascoltavo questo filosofo: e, con la mia attitudine, lo incoraggiavo a parlare. Levando dal palchetto di uno scaffale una figurina, le cui giunture cigolavano, disse:

 

‘Ecco la mia prima donna: ha viaggiato con me in Francia, in Spagna, in Germania, in Inghilterra, in Italia. Non mi ha mai costretto a chiuder il Teatro una sera per indisposizione. Ha carattere e viscere di ferro!’.




E continuava a andar qua e là, carezzando or questo or quello de’ suoi minuscoli attori.

 

‘Tutta brava gente, e che posso assicurarvi, non m’ha dato mai un dispiacere! Ciascuno di loro è contento della sua sorte: se una sera, alla rappresentazione, uno è applaudito più dell’altro, non c’è caso che ritornino tra le quinte con l’idea di mangiarsi gli uni agli altri l’accresciuto naso.... Ma lo avete sentito il più bravo detto il Drago? Lo avete ascoltato all’ultima Prima del Teatro? Alla comunione senza liberazione alcuna, ovvero, rimpianta castigata Gerusalemme, ed hora celebrata anche alla Scala, giacché il Duomo infortunato. Così interpretata piangeva per il nobile suo successore, con impareggiabile scena che il palco quasi delirava alla Borsa di Amleto suo vero proprietario. Dopo la banca un nuovo Tempio. Non c’è tra essi chi voglia insegnare allo Shakespeare la letteratura drammatica, al Bismark la politica, ai letterati la critica, ai credenti la buona Fede’.




Quel teatrino è un mondo in piccolo, e un mondo che desta la più spontanea ammirazione.

 

Per esempio, siamo al temporale. Vedete come il vento agita tutto all’intorno, con quanta naturalezza tutto è studiato; eccovi il brav’uomo col suo ombrello in mano, che lotta col temporale, e il fiotto del vento che rovescia l’ombrello: ad un altro porta via di testa il cappello. È curioso vedere andare, tornare indietro uomini donne, curioso vedere il cacciatore che spara un colpo, il fuoco che scintilla, e il cane che corre…

 

A tal proposito voglio hora ravvivare la memoria di così nobile cacciatore con un componimento antico a lui dedicato…





  

Cinque compagni un giorn’ andorn’ a caccia,

E questi furno, se ben mi raccordo,

Un senza piedi, un muto, un ciec’ e un sordo,

Ed un che li mancava ambi le braccia.

 

E mentre ogn’un di questi si procaccia

L’un più de l’altro a la campagna, ingordo,

Cercando non da pazzo o da balordo

Ma da bon cacciator che si procaccia.

 

Ecco, for da un cespuglio appresso un fosso

Una lepre smarrita ferma stare,

Tal ch’ li andorno tutti cinqui addosso.

 

Il sordo prima udì perché squassava

Le foglie ov’era ascosa la meschina,

E che tacess’ ogn’un così parlava.

 

Ma il cieco che guardava

La vide che fuggir facea pensiero,

E il muto gridò forte: “Cavaliero!”

 

Ond’essa sul sentiero

Sbalzò fuggendo lieve com’un vento,

Ma il zoppo a seguitarla non fu lento,

 

E in passi più di cento

La giunse, perché il can l’aveva uccisa,

Onde ciascun crepava dalle risa.

 

E in più parte divisa

La miserabil lepre in quella caccia

Di bocca a il can la tolse il senza braccia.

 

Hor parmi che si faccia

Un consiglio fra lor senza tardare,

A chi di lor la lepre abbia toccare.

 

Dice il sordo: “Mi pare

Ch’ella debba esser mia senz’altro dire,

Perché di voi fui il primo a udire.”

 

“Tu te ne poi mentire”,

Disse il cieco, “E la è mia di ragione,

Perché prima la vidi nel macchione”.

 

“Ed io farò questione”,

Rispose il muto, “Se a me non la dai,

Che il primo fui che ‘cavalier!’ gridai”.

 

“S’io corsi e la pigliai”,

Soggiuns’ il zopp’ con voce umil e pia,

“Perché non deve dunqu’ ella esser mia?

 

Questa non è bugia,

Che se voi stavi saldi, i’ sol voleva

Correrli dietro, s’ella non fuggeva”.

 

Il monchin poi diceva:

“Che state a contrastare, oh voi, se tocca

A me, perché la tolsi al can di boccha.

 

E vo’ con quatte broccha

Cucinarmela, e poi da noi mangiata

Sarà la meschinella, s’a voi quata”.

 

All’hor con faccia irata

Replicò il sordo: “Ella è mia senza dolie,

Perché prima l’udì fra quelle folie.”

 

E con maligne voglie,

Voltossi con molt’ira al senza braccia

E lui li diede un pugno su la faccia.

 

Il cieco, a tal minaccia,

Vedend’ i doi compagni in quella stretta,

Disse col zoppo: “Andiam a far vendetta.”

 

All’hora con gran fretta

Il zoppo corse e seco si mischiava,

E insieme ciaschedun si pettenava.

 

E ben forte gridava il muto

Col dire: “Aiuto! Aiuto!”,

Onde un villan fu a quel rumor ridutto,

 

Qual, essendo venuto

Fori d’un bosco con il suo bastone,

Gridando: “Perché fate voi questione?”

 

Ma, avendo la tenzone

Udita di costor, e lor sermone,

Si risolse di far a quei ragione,

 

E levando il bastone

Incominciò con impeto e ruina

A dare a ciaschedun su per la schina,

 

E poi, con tal rovina,

Gridò: “Fermate! Che con questo legno

Over darete a me la lepre in pegno”.

 

E quei, con poc’ ingegno,

Gli dan la lepre in mano, oh che pazzia,

Esso la tolle e poi si fuggi via,

 

Onde con pena ria

Lasciò quelli scherniti e star in forsi,

E d’aspettarl’ ogn’uno si risolse.

 

Ma poi ogn’un si tolse

Di villa e ritornaron senza caccia,

Il senza piedi, il mut’, il cieco e il sordo,

E quel che li mancava ambi le braccia. 


(G.C.C)


[Prosegue con il capitolo quasi al completo...]










mercoledì 24 agosto 2022

LA LORO RAGIONE (4)

 









Precedenti capitoli: 


Circa la 'psicologia del[le] folle' 


Prosegue con un....: 


balocco di....








Nella enumerazione dei fattori capaci di impressionare l’anima delle folle potremmo fare a meno di nominare la ragione, se non fosse necessario indicare il valore negativo della sua influenza.

 

Abbiamo già dimostrato che le folle non sono influenzabili coi ragionamenti, e non comprendono che grossolane associazioni di idee. Gli oratori che sanno impressionarle, non fanno mai appello alla loro ragione, ma ai loro sentimenti.

 

Le leggi della logica razionale non hanno nessun potere sulle folle.




Per convincere le folle, bisogna prima rendersi ben conto dei sentimenti da cui sono animate, fingere di condividerli, poi tentare di modificarli, provocando, per mezzo di facili associazioni, certe immagini suggestive, saper tornare - al bisogno - sui propri passi, e soprattutto indovinare in ogni momento, i sentimenti che si suscitano. La necessità di variare il proprio linguaggio secondo l’effetto prodotto nel momento in cui si parla, rende inefficaci i discorsi preparati e studiati. L’oratore, seguendo il suo pensiero e non quello dell’uditorio, perde soltanto per questo, tutta l’influenza.

 

Gli spiriti logici, abituati alle concatenazioni dei ragionamenti un po’ serrati, non possono far a meno di ricorrere a questo metodo di persuasione quando si rivolgono alle folle, e poi restano sempre sorpresi della mancanza di effetto dei loro argomenti.




 Le conseguenze matematiche usuali fondate sul sillogismo, vale a dire su associazioni d’identità, scrive un logico, sono necessarie. La necessità porterebbe all’assentimento di una massa inorganica, se questa fosse capace di seguire delle associazioni di identità.

 

 Certamente; ma la folla, come la massa inorganica, è incapace di seguirle, e di capirle. Cercate di convincere con dei ragionamenti degli spiriti primitivi, selvaggi o fanciulli, ad esempio, e vi renderete conto del debole valore che possiede questo modo di argomentare.

 

E non c’é neanche bisogno di discendere fino agli esseri primitivi per constatare la completa impotenza dei ragionamenti quand’essi devono lottare con dei sentimenti. Rammentiamoci semplicemente quanto sono state tenaci, per lunghi secoli, alcune superstizioni religiose, contrarie alla più semplice logica. Per quasi duemila anni, i geni più luminosi sono stati piegati sotto le loro leggi, e fu necessario arrivare ai tempi moderni perché la loro verità abbia potuto essere soltanto contestata.




Il Medioevo e il Rinascimento possederono molti grandi uomini; e non ne hanno posseduto uno solo al quale il raziocinio abbia mostrato i lati infantili di tali superstizioni e che abbia fatto sorgere il più lieve dubbio sui misfatti del diavolo o sulla necessità di bruciare gli stregoni.

 

C’è da dolersi che la ragione non sia la guida delle folle?

 

Non oseremmo dirlo.

 

Senza dubbio, la ragione umana non sarebbe riuscita a trascinare l’umanità sulle vie della civiltà con l’ardore e l’arditezza con cui l’hanno sollevata le sue chimere. Figlie dell’incosciente che ci guida, tali chimere erano probabilmente necessarie.




 Ogni razza porta nella sua costituzione mentale le leggi dei suoi destini, e forse obbedisce a queste leggi per un ineluttabile istinto, perfino negli impulsi apparentemente più irragionevoli. Pare talvolta che i popoli siano sottomessi a forze segrete analoghe a quelle che obbligano la ghianda a trasformarsi in quercia o la cometa a seguire la sua orbita.

Lasciamo dunque la ragione ai filosofi, ma non le chiediamo troppo di intervenire nel governo degli uomini.

 

Non con la ragione, ma, spesso, nonostante essa, si sono creati sentimenti come l’onore, l’abnegazione, la fede religiosa, l’amore della gloria e della patria, che sono stati fin qui i grandi suscitatori di tutte le civiltà.

 

Non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti, si tratti d’un branco di animali o di una folla d’uomini, si mettono istintivamente sotto l’autorità di un capo, cioè di una guida.

 

Nelle folle umane, il caporione ha una parte notevole.




La sua volontà è il nodo intorno a cui si formano e si identificano le opinioni. La folla è un gregge che non potrebbe far a meno di un padrone. Il condottiero quasi sempre è stato prima un fanatico ipnotizzato dall’idea di cui in seguito s’è fatto apostolo. Quest’idea ha talmente invaso che tutto sparisce all’infuori di essa, e tutte le opinioni contrarie gli sembrano errori e superstizioni. Così Robespierre, ipnotizzato dalle sue chimeriche idee, e che adoperò i procedimenti dell’Inquisizione per propagarle.

 

I trascinatori di folle, il più delle volte, non sono intellettuali, ma uomini d’azione. Sono poco chiaroveggenti, e non potrebbero esserlo, poiché la chiaroveggenza porta generalmente al dubbio e all’inazione. Appartengono specialmente a quei nevrotici, a quegli eccitati, a quei semi-alienati che rasentano la pazzia. Per quanto assurda sia l’idea che difendono o lo scopo che vogliono raggiungere, tutti i ragionamenti si smussano contro la loro convinzione. Il disprezzo e le persecuzioni non fanno che eccitarli maggiormente.




 Tutto è sacrificato, interesse personale e famiglia. Perfino l’istinto di conservazione viene distrutto in essi, a tal punto che, spesso, la sola ricompensa che essi ambiscono è il martirio. L’intensità della fede dà alle loro parole un grande potere suggestivo. La moltitudine ascolta sempre l’uomo dotato di volontà forte. Gli individui riuniti in folla, perdendo ogni volontà, si volgono istintivamente verso chi ne possiede una.

 

I condottieri non sono mai mancati; ma tutti non possiedono le convinzioni profonde che fanno gli apostoli. Spesso sono retori sottili, che fanno il loro interesse personale e cercano di persuadere lusingando bassi istinti. Così l’influenza che esercitano è sempre effimera. I grandi apostoli che sollevarono l’anima delle folle, i Pietro l’Eremita, i Lutero, i Savonarola, gli uomini della Rivoluzione, hanno esercitato un fascino dopo essere stati essi stessi soggiogati da un’idea. Allora poterono far nascere nelle anime, quel potere formidabile chiamato fede, che rende l’uomo schiavo assoluto del proprio sogno.




Far nascere la fede, sia fede religiosa, politica o sociale, fede in un’opera, in una persona, in un’idea, questo, soprattutto, è il compito dei grandi condottieri. Di tutte le forze di cui la natura dispone, la fede è sempre stata una delle più notevoli, ed ha ben ragione il Vangelo attribuendole il potere di sollevare le montagne. Dare all’uomo una fede, vuol dire decuplicare la sua forza. I grandi avvenimenti storici furono spesso realizzati da oscuri credenti che non avevano che la loro fede. Le religioni che hanno governato il mondo, e i vasti imperi che si estendevano da un emisfero all’altro, non sono sorti per merito di letterati o di filosofi o di scettici.

 

Ma tali esempi si applicano ai grandi condottieri, e questi sono troppo rari perché la storia possa facilmente notarne il numero.

 

Essi formano una serie continua, che dal potente condottiero d’uomini scende all’operaio che, in una fumosa osteria, affascina lentamente i suoi compagni rimasticando continuamente certe formule che egli non capisce, ma la cui applicazione - secondo lui - deve portare alla immediata realizzazione di tutti i sogni e di tutte le speranze.




 In ogni sfera sociale, dalla più alta alla più bassa, non appena l’uomo non è più isolato, cade sotto la legge di un capo.

 

La maggior parte degli individui, specialmente nelle masse popolari, non avendo nessuna idea netta e ragionata al di fuori della loro specialità, sono incapaci di guidarsi. Il condottiero serve loro da guida. Può essere sostituito, ma non in modo completo, da quelle pubblicazioni periodiche che fabbricano delle opinioni per i loro lettori e procurano loro frasi fatte dispensandoli dal riflettere.

 

L’autorità dei condottieri è molto dispotica, e non arriva ad imporsi che con questo dispotismo. Si è notato come si facciano ubbidire facilmente, senza tuttavia possedere nessun mezzo per appoggiare la loro autorità, tra gli operai più turbolenti. Essi fissano le ore di lavoro, i salari, decidono gli scioperi, li fanno cominciare o cessare a ore fisse.




Gli agitatori tendono oggi a sostituire progressivamente i poteri pubblici a misura che questi ultimi si lasciano discutere e indebolire. Grazie alla loro tirannia, questi nuovi padroni ottengono dalle folle una docilità completa che nessun governo può ottenere. Se, per un incidente qualsiasi, il condottiero sparisce e non è subito sostituito, la folla ridiventa una collettività senza coesione né resistenza. Durante lo sciopero dei conducenti d’omnibus a Parigi, fu sufficiente arrestare i due agitatori che lo dirigevano, per farlo subito cessare.

 

L’anima delle folle è sempre dominata dal bisogno di servitù e non da quello di libertà. La sete di obbedienza le fa sottomettere d'istinto a chi si dichiara loro padrone.

 

Il libro che narrerà la vita di tutti questi grandi, conterrà pochi nomi, ma questi nomi sono stati in testa agli avvenimenti più importanti della civiltà e della storia.

 

Quando si tratta di esaltare per un momento una folla e di condurla a commettere un atto qualsiasi saccheggiare un palazzo, farsi massacrare per difendere una barricata, bisogna operare su di essa con mezzi rapidi di suggestione. Il più energico è l’esempio. E allora necessario che la folla sia preparata da talune circostanze, e che colui il quale vuol trascinarla possieda la qualità che io studierò più oltre sotto il nome di prestigio.




Quando si tratta di far penetrare lentamente idee e credenze nello spirito delle folle - le teorie sociali moderne, ad esempio - i metodi dei condottieri sono diversi. Essi sono principalmente ricorsi a questi tre procedimenti: l'affermazione, la ripetizione, il contagio.

 

L’affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un sicuro mezzo per far penetrare un’idea nello spirito delle folle. Più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazione, più essa ha autorità: I libri religiosi e i codici di tutte le epoche hanno sempre proceduto per semplice affermazione. Gli uomini di Stato chiamati a difendere una causa politica qualunque, gli industriali che diffondono i loro prodotti con annunci, conoscono il valore dell’affermazione.

 

Quest’ultima non acquista tuttavia reale influenza se non a condizione d’essere costantemente ripetuta, e il più possibile, negli stessi termini. Napoleone diceva che esiste una sola figura seria di retorica, la ripetizione. La cosa affermata riesce a stabilirsi negli spiriti a tal punto da essere accettata come una verità dimostrata.


[Prosegue con il Capitolo quasi completo]








martedì 23 agosto 2022

UN INEDITO PLUTARCO (2)


















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Prosegue con: 


la psicologia delle folle














Aldo Pio Manuzio romano saluta

Iacopo Antiquario di Perugia



Che tutte le Opere più belle siano le più difficili da realizzare (così come sovente anche per la pittura) potrei dire che sia vero per moltissimi motivi, ma in particolare per questo: da quando ho iniziato a ricercare con acribia ed ostinazione le Opere morali di Plutarco e a raccoglierle da ogni parte per stamparle e divulgarle fra i letterati, tanti sono stati gli impedimenti, tanti i guai capitati l’uno dopo l’altro (e puoi ben intenderne il motivo!), da costringermi ad interrompere più volte il lavoro intrapreso.

Ma poiché ‘la fatica indefessa su tutto prevale’, ecco che finalmente l’Opera è compiuta.

Moltissime sono le ragioni che mi hanno portato a dedicarla a te, mio caro Antiquario: la tua comprovata e mirabile onestà, la tua grande cultura, la tua straordinaria umanità, il tuo affetto – contraccambiato – per me, soprattutto la suprema integrità dei tuoi costumi, dove eccelli a tal punto da superare perfino quanto ci prescrivono i venerandi precetti di Plutarco.




E dunque, quale scelta più appropriata di dedicare Opere Morali ad un uomo virtuoso più di ogni altro sul piano morale?

Quando fui tuo ospite a Milano, ho constatato personalmente che sei ricolmo di ogni virtù e ho ammirato non solo la tua rettitudine, ma anche quella del giovane Antiquario, tuo pronipote per parte di fratello, il quale palesava una tale modestia, un tale amore per le belle lettere (conosceva infatti già molto bene sia il latino che il greco), che mi sembrava destinato a diventare in breve tempo un uomo eccelso in egual misura per probità e dottrina, proprio tale e quale a te.

E che dire dell’ammirazione suscitata dai tuoi coadiutori e dalla tua intera servitù, virtuosa e ricolma di modestia, simile al suo padrone?




Dunque sono incline ad affermare che risponde pienamente a verità il seguente detto: quali saranno i capifamiglia, quali saranno i padroni, i nobili, i principi e i capi di Stato, tale sarà la famiglia, tali saranno i coadiutori, la servitù, le città stesse ed i popoli.

Questo concetto è espresso da Marco Tullio – elegantemente come sempre – nell’Opera Sulle Leggi con le seguenti parole.

E non è tanto un male che i governanti commettano misfatti (sebbene questo sia un male grave di per sé), quanto il fatto che moltissimi uomini modellino il proprio comportamento (compresa la propria servitù) su quello dei governanti. Infatti, se tu volessi riandare agli eventi del passato, potresti constatare che, quali furono i maggiorenti di una città, tale fu la città; e qualunque mutamento dei costumi si verifichi nei governanti, lo stesso mutamento verrà a prodursi nei cittadini. Questa asserzione è più vera – e non di poco – di quella sostenuta dal nostro Platone, il quale afferma che, se mutano i canti dei musici, muta la situazione della città. Io, per parte mia, ritengo che i costumi delle città mutino se mutano la vita e il comportamento dei nobili. Per cui, i governanti corrotti risultano esattamente dannosi allo Stato non solo perché nutrono essi stessi dei vizi insiti nel concetto stesso di corruzione per ogni comportamento fraudolento adottato, ma anche ed altresì li trasmettono ai propri cittadini di ogni ordine e grado compresa la servitù che al meglio li asserve, e sono esiziali non solo perché essi stessi si corrompono, ma anche perché corrompono gli altri, e minacciano più con il collettivo cattivo esempio che con le malefatte stesse.




Per questa ragione vorrei che tutti gli uomini che ne comandano gli altri (nel buono giammai nel cattivo esempio) fossero moralmente ineccepibili.

Antiquario mio, e perfettamente simili a te: in breve tempo tutti i mortali verrebbero certamente a condurre una vita onesta quanto beata, sarebbe cancellato dal mondo per totale e universale consenso ogni crimine inganno raggiro maffare e molto altro ancora, e, come dice il saggio Ovidio:

Le frodi, gli inganni,

le insidie, la violenza e la scellerata smania di possesso,

e a tutto ciò subentrerebbero le più sane e sante virtù, l’onestà e, come dice ancora Ovidio,

‘il vero, il giusto e la lealtà’.

Ma al nostro tempo gli uomini buoni sono rarissimi:

Una eccezione giammai una regola.




A codesta eccezione, purtroppo, corrisponde un comportamento avverso quale regola elevata a stile di vita, da cui la conseguente frode adottata non più nel principio ma ancor peggio, quale morale; la peggiore morale deve avere la meglio e seminare o edificare, di conseguenza, un pessimo raccolto, così come l’edificio che peccando non solo di gola se ne ciba e nutre qual spirituale alimento per il proprio ed altrui tornaconto e, al meglio o al peggio, sopravvivere in codesta vita terrena.

Possiamo quindi immaginare quale sia il cibo e nutrimento che edifica ed edificherà ogni apparente (corrotto) Diritto con il sopravvento della censura sul Libero Arbitrio defraudato della Verità terrena, così da poter al meglio salvaguardarsi nel fraudolento comportamento adottato.

Ma soprattutto quando istituzionalizzato per ogni città ove regna incompetenza corruzione e un dubbio affarismo quale vero ed unico principio (e non solo di mercato).




Quindi mi sembra fuori da ogni ragionevole dubbio che talune Opere debbano ritenersi indispensabili per la corretta salute con cui intendersi lo Spirito (ed il corpo) Puro.

Se tali Opere che mi accingo a riproporre con il suo benevolo assenso possono arrecare danno tanto ai fraudolenti governanti quanto al popolo da loro legiferato, compresi tutti i servi di cotal misfatto, allora possiamo dire nonché postulare che oltre le secolari Leggi violate, con loro la Natura che al meglio le ha donate e pensate, frutto dell’Opera misericordiosa di Dio.




Giacché dovremmo altresì comprendere la Natura Albero ed Opera creazione di Dio, e l’uomo suo frutto e non certo proibito, il quale frutto così ben coltivato  maturato dai secoli in cui, il dotto Plutarco solca l’universale Terra, nella corretta Ragione (e Morale) per al meglio rendere il raccolto nel giusto godimento ed intendimento da Dio donato, compiendo così l’intero ciclo di quanto Creato in Terra, specchio dell’Universo per ogni Stagione in cui poter leggere e compiere la Vita nel Tempo pregata.

Ne dovremmo dedurre e leggere, quindi, il sano atto con cui si contraddistingue e preserva degno e puro raccolto quale immagine di Dio, costantemente abdicato ad un pessimo allevamento in cui la maga Circe (madre di ogni inganno) compagna di ogni corrotto tiranno, inganna sia il mite Odisseo che il nobile profeta che a lui contenderà il trono.




Negando il ciclo della Vita e violando il principio morale non più del Filosofo ma precetto di Dio.

Sovvertendo l’intero ordine del creato dall’alto dei cieli sino alla mite zolla di Terra.

Mio caro Antiquario da detta Ragione deriverà anche corretto intendimento non solo della morale, ma anche come l’uomo debba porsi al cospetto della Vita, non solo verso il proprio simile, ma anche verso tutto ciò in cui ugual medesima corruzione infrange l’unanime Legge di Dio per ogni cosa viva.

Tale corruzione purtroppo è divenuta costante regola con cui nutrire ciò che una volta era un misero equipaggio di una nave nella propria Odissea per tramutarlo in ciò in cui più vicino alla bestia, medesimo atroce Destino e non più mitica avventura, quando la sventura accompagnata dalla morte più miserevole  sopraggiunta come una peste nera al corpo ulcerato degli innumerevoli argonauti, più maiali che umani.




Sicché, caro amico Antiquario, abbiamo raggiunto anche un altro passo fondamentale del nostro amato Plutarco, il profondo solco o recinto che divide un campo ben seminato da un pessimo allevamento di Stato.

Coltivare la vera Ragione nella dura fatica della Terra Opera misericordiosa con la quale poter ottenere il favore di Dio.

Con la quale compiere la costante preghiera.

Con la quale riunirci e ricongiungi al ciclo da cui la Vita.  



Il tuo Aldo


Venezia 1509