giuliano

venerdì 30 gennaio 2015

I NOSTRI PRIMI SOGNI I NOSTRI PRIMI PENSIERI (11)



















Precedente capitolo:

I nostri primi sogni i nostri primi pensieri (10)

Prosegue in:

I nostri primi sogni i nostri primi pensieri (12)













Vorrei accennare ora alla versione meno presuntuosa che i fisici danno della ‘vanagloria del presente’. Si chiama ‘principio antropico’ e afferma  che le leggi stesse della fisica, o le costanti fondamentali dell’universo, sono un artificio sottilmente regolato, finalizzato alla nascita della specie umana. Il principio antropico non si basa necessariamente sulla vanità e non significa necessariamente che l’universo sia stato creato apposta perché nascessimo noi; significa solo che noi siamo qui e che non potremmo esserci in un universo che non avesse la capacità di produrci. Come osservano i fisici, non è un caso che vediamo le stelle in cielo, perché le stelle sono una parte indispensabile di qualsiasi universo capace di generarci. Questo, ripeto, non significa che le stelle esistano apposta per produrre noi, ma solo che, senza di esse, nel sistema periodico degli elementi non ci sarebbero atomi più pesanti del litio e una chimica di tre soli elementi sarebbe troppo misera per sostenere la vita. La visione è un tipo di attività che può esplicarsi solo in un universo in cui si vedano le stelle. Occorre però aggiungere qualche osservazione. Ammesso il fatto banale affinché gli uomini appaiano occorrono leggi fisiche e costanti capaci di produrli, può sembrare ugualmente improbabile che queste regole così potenti esistano. E se i fisici, basandosi sui loro assunti, calcolassero che il numero di tutti gli universi possibili è di gran lunga più elevato del numero degli universi le cui leggi e costanti permettono alla fisica di trasformarsi grazie alle stelle in chimica e grazie ai pianeti in biologia? Per qualcuno, l’alta improbabilità dell’evento significa una sola cosa: le leggi e le costanti sono state deliberatamente decise  ‘ab initio’ (anche se mi chiedo sempre come si possa considerarla una spiegazione plausibile dei fenomeni, visto che il problema viene immediatamente rimandato a quello più vasto di spiegare l’esistenza dell’altrettanto sottile e improbabile Programmatore).

(R. Dawkins,  Il racconto dell’antenato)




… Quando si dice sono tornato acqua, vento, fuoco, terra, è perché l’essenza dell’essere sembra sgretolarsi verso queste primi elementi di materia di cui siamo composti per poi tornare alle sue essenziali forme e caratteristiche. Così posso dire di aver raggiunto un livello di simmetria con gli elementi esterni, dai più bassi ai più alti nella scala della loro percezione, nei quali si palesa una reale sincronia di un orologio biologico quasi perfetto nel meccanismo dettato dall’evoluzione del tempo.
Siamo abituati a sezionare per gradi ed epoche, nel fare questa operazione che riproduco o cerco di riprodurre su questi fogli, mi sono addentrato sino agli aspetti meno visibili della materia, trascurando invece tutti i nessi della vita. Questo è un fatto importante, se prima ed ora, l’insieme di ogni singolo aspetto nella dimensione più spettacolare della manifestazione sensibile mi trasporta ad uno stato d’animo elevato, ora, quella lingua spirituale è ‘prima lingua’.
La lingua del ‘Programmatore’, perché lingua primordiale.
La lingua con la quale componevamo i suoni della natura circostante, cantavamo stupori e paure, i piaceri nelle stagioni alterne dell’intero creato. Ma dar forma ai motivi di alcune esaltazioni linguistiche nelle varie espressioni che le caratterizzano non è solo evidenziare gli aspetti che l’occhio spirito dell’anima percepisce e poi descrive, ma è anche veleggiare lungo percorsi e stati d’animo dove la coscienza sembra farsi più antica.  Dove oltre alla meraviglia si aggiunge un altro grado di percezione inconsapevole che mi porta ad una regressione ed esaltazione nello stesso tempo (scorgiamo altresì la filosofia dell’alpinista). Perché il salire, l’arrampicare, l’elevarsi per guardare dall’alto le cose del basso, e le nostre condizioni in quel basso o piccolo che scorgiamo a mano a mano che saliamo, è in realtà un procedere all’opposto rispetto al cammino che si compie.
Non si sale, ma si scende verso i nostri antenati, si toccano le rocce che ci sono appartenute nella lenta formazione della terra, e più si fanno antiche, più noi  simmetricamente regrediamo alla pura forma di condizioni geometriche semplici che stabilisce la matematica dell’Universo.
Vuoti di pensieri nel momento della fatica.
Ritorno all’antico ordine di forme semplici, fin tanto che, nella cima, sono di nuovo in quel primo Oceano, dove l’Uno è divenuto il ‘tutto’ che lo circonda, in attesa di moltiplicarsi nel ‘tutto’ che da lui si genera. Studiare le sensazioni dell’alpinista oltre allo spirito dell’avventura della scoperta, della sfida e della conquista, è respirare con lui, e cogliere in questa percezione della realtà un diverso aspetto della sua dimensione, e con essa l’anima e la coscienza. Nel momento in cui si appresta a questa discesa verso i primordi della vita. Non dobbiamo considerare la percezione ottenuta e descritta quale unica entità psicologica legata al concetto proprio di salita, la natura si nasconde di nuovo e con essa (una nuova) la verità, la discesa lenta e graduale verso il primo sé antico e imperscrutabile dei tanti sentimenti senza parole, di una nascita in seno all’Universo e alla terra da lui generato.
L’essere è provvisto di vita affinché attraverso lui continui il percorso evolutivo da una forma primordiale, fino all’apparente perfezione dell’attuale, esprimendo la volontà stessa della vetta. In noi ci sono tutte le vite passate in relazione con ogni elemento esterno che le ha caratterizzate, compreso il rapporto accentuato con quel mondo animale di cui alcuni miei fedeli compagni ne rappresentato gli aspetti più interessanti. Nel momento in cui riesco a liberare in loro tutti quegli istinti di addomesticazione che gli abbiamo impartiti per secoli. Per cui essi tornano ad essere quello che erano, compagni di caccia liberi nelle scelte, e di nuovo autosufficienti per il proprio fabbisogno. Esaminare quegl’uomini in vetta, ora che sto ammirando queste cattedrali, forme contorte del nostro passato remoto, non è opera di erudizione da bibliofilo e appassionato di montagna, ma uno scavare nelle viscere della terra attraverso tutti i pensieri che sono anche nostri, nel senso che ci sono appartenuti milioni di anni fa’. Di nuovo cerco di coprire il cammino nella soffice simmetria di questa neve, e lasciare il riflesso di immagini che sono ‘il Tempo’,‘nel Tempo’.

(G. Lazzari, Il Viaggio)





Come l’artista scavo la pietra,
animo la scultura della mia illusione
scolpita nel principio di una diversa
passione.
La pietra è più dura di ogni cuore
che incontra la mia penna,
la dura pena per ogni tortura
ombra del loro Dio.
Perché raccontano
che è la più bella visione,
Madonna che aspetta la sua offerta,
con il bambino gravido e senza rancore. (1)

Era la nostra Dèa nel principio,
prima del libro del profeta, 
le hanno rubato anche il sorriso,
acqua di torrente che sgorga
nella mente.
Mentre Cibele semina il campo
del mio paradiso,
dove coltivo con solo il sorriso,
il frutto proibito tributo
per un nero aguzzino.
Cui debbo anche il dolce vino,
dona l’ebbrezza e la comprensione,
una penna che incide la dura pietra
divenuta passione.
Rito nuovo come sangue che sgorga
da una ferita della nuda terra. (2)

Scavo nella memoria,   
scavo la zolla,
scrivo con l’aratro il sogno nascosto
confuso con il peccato.
La pietra assume visione
di un altro Dio,
per tanti è solo un caprone
mal scolpito.
La pietra mi racconta
un’altra visione,
coniato nel profilo di una moneta,
nella giara antica dove la tomba
l’ha restituita.
Racconta un diverso amore
e la terra di un altro colore.
Racconta la gloria di un altro peccato,
racconta la storia di un altro Dio,
forma la statua di un altro oracolo.
Racchiuso nella pergamena di un filosofo,
raccolto dalla parola di un’astronomo,
raccontato per bocca di uno storico,
intuito dalla mente di un matematico. (3)

(G. Lazzari, Frammenti in Rima)

(Fotografie di M. Schlegel)

(Prosegue....)


















mercoledì 28 gennaio 2015

I NOSTRI PRIMI SOGNI I NOSTRI PRIMI PENSIERI (9)




















Precedente capitolo:

I nostri primi sogni i nostri primi pensieri (8)

Prosegue in:

I nostri primi sogni i nostri primi pensieri (10)














E assistiamo così a questo fatto singolare e cioè che, sull'aspetto preistorico della nostra terra, dominano due teorie completamente opposte: In Europa la teoria dei ponti, in America la teoria della permanenza dei fondi oceanici e delle aree continentali.
Ma quale è la verità?
In un dato tempo la terra non può avere avuto che un dato aspetto. Vi furono un tempo dei ponti di territorio oppure i continenti erano separati come oggi da estesi fondi oceanici?
E' impossibile non accettare l'ipotesi degli antichi collegamenti continentali se non si vuole rinunciare a comprendere lo sviluppo della vita sulla terra. Ma è ugualmente impossibile respingere le ragioni con le quali i sostenitori della dottrina della permanenza si rifiutano di ammettere l'esistenza dei continenti intermedi. Non resta allora che una possibilità: e cioè che nelle premesse date come intuitive si nasconda qualche errore. A questo punto si inserisce la teoria della deriva dei continenti. L'ipotesi, di per sé intuitiva, che sta alla base sia degli antichi collegamenti continentali, sia della dottrina della permanenza e cioè che la posizione relativa delle aree continentali le une rispetto alle altre non sia mai mutata, deve essere falsa. I continenti debbono aver subito uno spostamento. L'America meridionale deve essere stata vicino all'Africa e aver formato con questo un unico continente, che nel Cretaceo si scisse poi in due parti, le quali, come un masso di ghiaccio che si spacchi, nel corso di milioni di anni si allontanarono sempre più l'una dall'altra. I contorni di queste due masse sono ancora oggi di una concordanza sorprendente. Non solo la grande spaccatura ad angolo retto, che si nota sulla costa brasiliana presso il capo San Rocco, trova il suo corrispettivo nella spaccatura della costa africana presso il Camerun, ma anche al sud di questi due tratti ad ogni protuberanza della costa americana corrisponde una baia di uguale forma sulla costa africana; e viceversa ad ogni insenatura sulla costa brasiliana corrisponde una sporgenza sulla costa africana. Una misurazione col compasso dimostra poi che le due terre sono della stessa dimensione. Anche l'America del Nord un tempo era situata vicino all'Europa e formava con questa, per lo meno nella parte superiore, un unico territorio, che solo nel tardo Terziario, e al nord solo nel Quaternario, si scisse in corrispondenza della Groenlandia, dando origine a terre separate. L'Antartide, l'Australia e l'India peninsulare erano situate, sino all'inizio del Giurassico, presso il sud-Africa e formavano con questa e col sud-America un'unica area continentale, anche se in parte coperta dal mare superficiale la quale, nel corso del Giurassico, Cretaceo e Terziario, si scisse in più territori, che andarono fluitando in ogni direzione.



…. Anche in altre zone lo spostamento delle terre è in relazione con la formazione delle montagne. Nella traslazione verso ovest delle due Americhe, il loro margine occidentale, per la resistenza opposta dell’antichissimo fondo dell’oceano Pacifico, fortemente raffreddato, si corrugò formando la catena di montagne giganti che si estende dall’Alaska all’Antartide. Anche nel continente australiano, a cui va aggiunta la Nuova Guinea, ora separata da uno stretto, si trovano nella parte anteriore, nel senso del movimento, i monti della Nuova Guinea, di recente formazione. Prima del distacco dell’Antartide la direzione del movimento era diversa, l’attuale costa orientale costituiva allora la parte anteriore. In quel tempo i monti della Nuova Zelanda, che era situata dirimpetto a questa costa, si si sfaldarono e in seguito, cambiata la direzione della deriva, questa terra si staccò e restò indietro. A un tempo ancora più antico risalgono le attuali Cordigliere dell’Australia orientale; esse si formarono prima della sua separazione, contemporaneamente ai corrugamenti più antichi del sud e del nord-America che costituiscono le Precordigliere, in corrispondenza del contorno anteriore  della intera massa continentale in via di spostamento.
La separazione, ora accennata, della Nuova Zelanda dal continente australiano ci porta ad osservare questo fenomeno, che, nella migrazione verso ovest, terre di minore estensione restano indietro alle terre più estese: così nella parte del continente asiatico rivolta verso oriente si ha una separazione delle catene laterali: così le Piccole e le Grandi Antille rimangono indietro nel movimento delle terre dell’America centrale, come pure il cosiddetto arco delle Antille del sud tra la Terra del Fuoco e l’Antartide occidentale. Allo stesso fenomeno è da attribuirsi il fatto che tutte le terre appuntite nella parte meridionale mostrano un incurvamento di queste punte verso l’est, come la punta sud della Groenlandia, la Florida, la Terra del Fuoco, la Terra di Graham, o Ceylon in via di separazione dall’India.
Riuscirà facile notare che l’intera costruzione della teoria della deriva muove dall’ipotesi che i fondi marini e le aree continentali siano costituiti da materiali diversi, rappresentino cioè strati diversi della terra.  Lo strato più esterno rappresentato dall’area continentale non copre l’intera superficie della terra; i fondi marini invece rappresentano la superficie libera dello strato successivo, che si deve ritenere esista anche sotto la superficie delle aree continentali.
Questo è il lato geografico della teoria della deriva dei continenti.
Se prendiamo come punto di partenza questa teoria noi veniamo a soddisfare a tutti i postulati sia della teoria degli antichi collegamenti continentali che della dottrina della permanenza.
Si parla bensì ora di ponti continentali, ma non attraverso i continenti intermedi più tardi sprofondati, ma come collegamento delle terre ora separate…

(Alfred Wegener, La formazione dei continenti e degli oceani)

(Fotografie di M. Schlegel)

(Prosegue...)















domenica 18 gennaio 2015

I NOSTRI PRIMI SOGNI I NOSTRI PRIMI PENSIERI (6)














































Precedente capitolo:

I nostri primi sogni.... (5)

Prosegue in:

I nostri primi sogni.... (7)













Gli aspetti e le successive interpretazioni. Il conflitto di due culture con i relativi miti trasmutati nella sfera del divino sono stati lentamente soppiantati dal prevalere di una divinità incarnata, evoluzione del mito stesso, dove in sua assenza apparente, la materia teologica elevata impropriamente a fonte ispiratrice di un potere spirituale è venuta progressivamente ad asservire la parte irrazionale dell’uomo, che con la parvenza di una presunta verità (incarnata) non ha più bisogno di giungere ed aspirare ad essa.

Che sia avvenuto per caso o per intenzione divina, Gerusalemme è divenuta il tempio di quattro diverse religioni, che scaturiscono come i quattro fiumi del paradiso fluendo dalla sorgente sotto il Tempio verso le quattro direzioni, gli ebrei a oriente, i mussulmani a meridione, i cristiani a occidente e, in direzione del nord, i discepoli di quell’antico sistema religioso che precedette gli altri. Esiste quindi una quarta religione che prende parte alla rivelazione del tempio a Gerusalemme, la più antica e la più profonda. E’ la religione pagana, il cui nome, dettato dai suoi nemici, è dispregiativo e suggerisce ignoranza e superstizione; in modo più appropriato viene definita la religione classica o dei filosofi. I suoi ideali sono la verità, la saggezza e la conoscenza; non richiede credenze artificiali e tra le religioni è l’unica a potersi dire perenne: è radicata nella natura e nell’uomo, per cui ciclicamente riaffiora.
(J. Michell, Il segreto del Tempio di Gerusalemme)

 Il terremoto culturale lo misuro attraverso il ‘Contra Galilaeos’ quale ultima e disperata difesa di quella razionalità che fa di Giuliano un moderno gnostico portatore di quella verità concettuale che è il fondamento di un infinito mondo razionale. Non a caso i filosofi sono anche i precursori di una scienza quale la stratigrafia, come abbiamo letto precedentemente. Quindi lo scontro tra diverse mitologie ha distribuito la ramificazione evolutiva in opposte evoluzioni ed esse hanno condotto ad una stratificazione sociale ben distinta nel pensiero e l’azione. Cortés è uno dei tanti esempi.
Certo pochi o nessuno si resero conto di affinità fra l’ambiente il dio piumato o il serpente ed il mito corrispondente, intuizione di una evoluzione genetica che dall’uno si ramifica nelle diversità della specie. Lo stesso serpente ha assunto linguaggi ed immagini assai diversi in altre mitologie, che giustificano ancor oggi il confronto legittimando il criterio tra l’inferiore dal superiore, in maniera disgiunta da un probabile anello evolutivo che ci fa tutti indistintamente partecipi alla vita. Ma il conflitto che risiede alla base di essa lo posso ricondurre direttamente alla forza originaria del mito stesso, una forza generatrice che attraverso la collisione crea la vita, quella vita in continua mutazione che tende ad attestarsi sempre in condizioni ottimali e adattarsi alle specifiche condizioni ottimizzando i suoi principi. Il mito è intimamente legato alla terra ed è una sua rappresentazione. Quelli più antichi che talvolta appaiono immutati anche nella loro razionalità originaria vengono spesso trasmutati in una progressiva e naturale evoluzione culturale, mutando le originarie intuizioni sul vero su cui si basano tutte le connessioni con la natura. Il riflesso di figure perfette platoniche è incentrato su un disegno di equilibrio originario, che è nelle premesse della natura stessa. Se modificata questa visione, alteriamo i suoi fondamentali cicli ed equilibri. Anche se nel linguaggio della moderna scienza ho dovuto affrontare un ‘superamento’ di questo concetto, un ‘superamento’ però, non una sistematica cancellazione. Uno strato si è creato o frapposto ad un altro. I sedimenti della ricerca rivolta al passato quanto al futuro poggiano appunto su questa visione introspettiva ed analisi. Nell’universo di talune simmetrie ci devono essere dei corrispondenti al vero.
Quindi la forza del mito.




La complessità e l’intelligenza animale sono aumentate con costanza nei 4 miliardi di anni di storia della vita. Un miliardo di anni fa la specie più intelligente era qualche sconosciuto microscopico pezzetto di sostanza appiccicosa. Cento milioni di anni fa, forse un pesce, o un mammifero primitivo. Dieci milioni , una grande scimmia o un delfino. Un milione di anni fa, i primi ominidi, magari già sul punto di usare una forma semplice di linguaggio. In un altro mondo, dove gli estremi climatici del Pleistocene fossero stati un po’ mitigati, dove un asteroide non avesse schiacciato la maggior parte della vita, dove la gravità fosse stata più forte e i continenti più mobili e l’acqua più abbondante, in ogni periodo le particolari specie con il cervello più grande sarebbero potute essere differenti. Il collegamento di un grosso potenziale cerebrale con le inclinazioni demoniache maschili assomiglia a una tragica coincidenza di catene casuali indipendenti. Ma c’è qualcosa in più. Le menti intelligenti sono responsabili di forme nuove di aggressività irrilevanti per animali privi di una buona memoria e di rapporti sociali a lungo termine. Quel grande cervello umano è il prodotto più temibile della natura. Allo stesso tempo però è il regalo più bello e più utile. L’intelligenza ci è familiare, è un vecchio libro, una vecchia amica.
Ma la saggezza cos’è?
Se l’intelligenza è la capacità di parlare, la saggezza è la capacità di ascoltare. Se l’intelligenza è la capacità di vedere, la saggezza è l’abilità di vedere lontano. Se l’intelligenza è un occhio, la saggezza è un telescopio. La saggezza rappresenta la capacità di lasciare l’isola dei nostri sé e di attraversare l’oceano. Vedere noi stessi, forse come fanno altri, a vedere gli altri entro e oltre la prima dimensione o il contesto: di tempo, di spazio, di esistenza. Saggezza, in altre parole, è prospettiva. (Wrangham/Peterson, Maschi bestiali, basi biologiche della violenza umana)

Questa conclusione semplice per quanto lapidaria è una verità imprescindibile.
(Giuliano Lazzari, Il Viaggio, Ed. Uniservice)




Ritorno al motivo  che ha suscitato tal dire riproposto nel ‘sentiero’ della nostra disquisizione, il motivo ‘aggregante’ e ‘terapeutico’ che fa dell’epistola principio di confronto e riflessione: i mali per i quali la tua ‘disciplina’, con il bagaglio della conoscenza e capacità di analisi e di approfondimento ha evidenziato (mi è sembrato di capire, in ultima analisi) nei principi di un malessere generalizzato nella scala dei valori (riflessi nelle sintomatologie odierne), con un nome proprio, ma che in realtà ne cela altri.
‘Depressione’.
Disciplina che affonda le sue radici non solo nella ‘psiche’ umana, ma anche in altrettante connessioni scientificamente (o non) accertate con cui la stessa si deve confrontare, misurare e proporre, per non rimanere confinata alla singolarità della sua funzione; ma rapportarla, giustamente, al grado di quella universalità e interdisciplinarietà di cui l’uomo, detto evoluto, abbisognerà nel millennio prossimo venturo, in quanto appartiene ad un grado di ugual Universalità, che se privata o snaturata della vera e sola connessione stratificata nei millenni della sua graduale evoluzione, genererà tutte quelle malattie di cui ha rilevato una dimensione.
Malattie che ‘evolveranno’ in una nuova ‘stratificazione’ genetica ed assumeranno nomi nuovi nel pantheon della sua ‘crescita’, ma, se non correttamente delineate nella loro specificità e motivazione scatenante, come quel ‘cancro’ con cui la medicina si deve costantemente misurare, ne genereranno di nuove, ‘evolute’ in una ‘spirale’ non confacente con il reale disegno Creatore dell’Universo. Rapportare l’uomo ai suoi eterni valori, anche evoluti nel mito, è opera non solo scientifica, ma teologica, filosofica e profetica, come fu, come ben sai, l’opera di Jung rispetto al maestro Freud.
Una frattura della Terra che ha portato ed evoluto la scienza (psicologica) ad una dimensione universale e non ortodossa come il maestro insegnava. Ponendo l’allievo in una condizione diversa e direi ‘sciamanica’ nella  specificità della disciplina scientifica, estendendo le motivazioni iniziali ad un ruolo ‘eretico-profetico’ di cui ne approfondì aspetti e temi, imprescindibili per quella capacità di analisi e terapia in grado di poter curare ed alleviare i ‘mali’ terreni cui giornalmente l’uomo deve fare i conti, e di cui ne ha svelato miti e connessioni.
Se fosse rimasto ancorato a quella ‘ortodossia’ iniziale la geologia della Terra non sarebbe certo evoluta, ma ancorata al piatto mare di Tedite dove tutto ebbe origine, e dove la Natura del nostro inconscio (e sub…) non avrebbe conosciuto quegli aspetti diversificati ed evoluti nei vasti panorami dell’essere ed appartenere alle infinite connessioni che quel primo mare generò per le condizioni ottimali della vita.   
Con tale sforzo, che a taluni, soprattutto per gli addetti ai lavori, potrà apparire ridicolo, in quanto a compierlo non è uno scienziato ma un umile autodidatta, concludo questa nuova epistola, con accenni bibliografici circa quel Theodor Strehlow figlio del più conosciuto Carl, il quale in ugual frattura (precedentemente detta) dovette fare i conti con l’ortodossia incarnata nel mondo accademico da quel Spencer il quale rifiutava una visione religiosa nel panteon mitologico partorito dagli aborigeni (troppo primitivi…). Successivamente, il figlio Theodor, proseguì l’opera intrapresa dal padre, difendendo quel mondo antico attestato per taluni all’età della pietra, ma di cui ne approfondì legami e ‘visioni’ di un ‘sogno comune’ ben stratificati nell’evoluzione del mito riflesso nella religiosità, aspetto e denominatore comune dell’evoluzione umana.




Prima che l’uomo bianco avesse messo piede sul loro territorio, gli aborigeni dell’Australia centrale avevano raggiunto un ammirevole adattamento al loro ambiente, non solo dal punto di vista psicologico, ma anche sociale; persino le loro concezioni religiose erano state adattate alla geografia del territorio. Cooperazione, non subordinazione; differenziazione senza disuguaglianze; tolleranza per i costumi di altri popoli nelle loro aree e rispetto per i terreni di caccia e raccolta di altri gruppi: erano questi i principi sociali e politici su cui si basava l’organizzazione della comunità aborigene australiane dell’interno.
E il monototemismo individuale, in queste comunità politotemiche, forniva un sistema perfettamente calibrato di credenze religiose, che si armonizzava con quei principi e li convalidava. La religione totemica contribuiva anche a proteggere la fauna e la flora indigene. Gli animali e gli alberi australiani erano provvisti di adeguati santuari negli inviolabili luoghi sacri, e il  loro collegamento con il rituale religioso ne assicurava la sopravvivenza anche durante le peggiori siccità. La dignità conferita dal totemismo alla vita vegetale e animale contribuiva così, in Australia centrale, a preservare l’equilibrio della natura. Un sistema di credenze religiose può essere valutato sia in rapporto alla sua logicità e validità teoretica, sia sulla base del valore pratico, quale forza trainante nell’esistenza dei credenti.
Se adottiamo il secondo criterio, dobbiamo ammettere che la religione dell’Australia centrale ha reso due servizi ai suoi fedeli, nello stato di conoscenza della Natura in cui essi si trovavano prima dell’avvento dell’uomo bianco: ha dato loro un alto senso di valore della persona, basato sul sentimento dell’unità con l’Eterno, e li ha resi affabili, tolleranti e disponibili nei confronti dei loro simili, più di quanto sarebbero potuto esserlo. Altrimenti contrariamente alle nostre normali aspettative, entrambi questi atteggiamenti sembrerebbero scaturire proprio dal monototemismo individuale: non vi era nessun Essere Celeste Supremo, che potesse essere fatto oggetto di adorazione da una parte di un ristretto gruppo di persone e attraverso un’unica forma di culto esteriore, da imporre con la forza a tutti i credenti.
Le credenze religiose di ciascuno venivano determinate liberamente dalle relazioni personali con la propria figura totemica;  e le pratiche religiose erano modellate soltanto sulla base del proprio centro totemico e del ‘pmara kutata’ appartenente al proprio gruppo patrilineare. Nell’Australia centrale, quindi, le osservanze religiose potevano rivelare, da gruppo a gruppo e da persona a persona, una notevole diversità quanto alla loro struttura esteriore. Soprattutto, la natura stessa delle credenze religiose impediva l’insorgere di quel particolare tipo di fanatismo religioso che avrebbe potuto elevare un piccolo gruppo di uomini ben organizzati ad una posizione di forte supremazia su una vasta comunità…. Questo sistema religioso, conforme alla geografia locale e caratteristicamente australiano, crollò quando l’uomo bianco mise piede sulla terra Eterna. Nell’ottica aborigena, l’amato territorio, strappato senza pietà ai suoi abitanti originari, divenne una terra asservita e disprezzata i suoi predoni bianchi. L’Australia centrale veniva per la prima volta sottoposta ad un inesorabile sfruttamento materialistico, per soddisfare rapidamente l’avidità dei suoi nuovi abitanti ‘civilizzati’ e di proprietari terrieri, interessati ad investire altrove i guadagni quaggiù ottenuti. Si sparava agli animali, spesso semplicemente per ‘sport’, e alberi e pascoli venivano distrutti a causa di un miope....

(Fotografie di Robert and Shana ParkeHarrison)

(Prosegue....)














venerdì 16 gennaio 2015

I NOSTRI PRIMI SOGNI I NOSTRI PRIMI PENSIERI (4)


















Precedente capitolo:

I nostri primi sogni.... (3)

Prosegue in:

I nostri primi sogni i nostri primi pensieri  (5)














.... Di altri, e che in quelli più antichi (che gli evoluzionisti datano da 1,5 a 4,4 milioni di anni) le caratteristiche umane sono combinate con quelle della scimmia antropomorfa. Le testimonianze sono talmente evidenti che non è più il caso di metterle in discussione. Prendiamo l’Australopithecus afarensis, la famosa Lucy. I resti fossili del tipo di quelli di Lucy scoperti nel nord-est africano sono datati da 3 a 3,8 milioni di anni. Si trattava di una specie di un gruppo vittorioso, quello delle australopitecine o grandi scimmie dei boschi, come le chiameremo, che comparvero circa 5 milioni di anni fa e sopravvissero 4 milioni di anni circa. I loro corpi avevano le dimensioni degli scimpanzè moderni. Avevano il cervello, la bocca e probabilmente l’intestino grandi come quelli delle grandi scimmie. Le mani, le spalle e la parte superiore del corpo dimostravano che erano abili scalatori e che probabilmente potevano stare a penzoloni tenendosi  con una sola mano come le grandi scimmie moderne. Eppure, per diversi motivi, non assomigliavano alle grandi scimmie di oggi. La struttura dei piedi, delle gambe e delle anche mostrano che senza dubbio camminavano eretti bene quanto noi. Nemmeno i denti erano come quelli delle grandi scimmie. I molari, in particolare erano molto più grossi di quelli umani o di quelli delle grandi scimmie, sebbene fossero ricoperti da uno strato di smalto spesso, come quelli umani, mentre negli scimpanzè e nei gorilla lo strato dello smalto è sottile. Gambe, bacino e denti smaltati come gli umani. Un miscuglio vero e proprio. Queste grandi scimmie, forse sei o più specie, vissero nelle boscaglie africane per 4 milioni di anni circa. A grandi linee, la loro storia è la nostra preistoria, che si protrae verso il presente anche dopo il periodo in cui, circa 2 milioni di anni fa, il cervello di una specie di grande scimmia dei boschi crebbe in dimensioni, convertendola in una creatura con i primi bagliori di umanità. E noi vogliamo sapere il più possibile sulla vita e la provenienza di queste australopitecine. Sembrerà strano, ma un buon inizio è osservare le grandi scimmie viventi.
(Wrangham /Peterson, Maschi bestiali, basi biologiche della violenza umana)




Questa è la nostra stessa motivazione, la conoscenza è il saper indirizzare correttamente i metodi di ricerca, gli stessi che nella fase di assemblaggio di un moderno telescopio e della successiva messa in orbita, rendono chiare all’occhio quelle affinità che ci guideranno con più sicurezza su uno spazio infinito come l’Universo. Cercherò, nella profonda vastità di esso, tutte quelle coordinate che mi avvicinano di più alla osservazione di una probabile verità, una in più rispetto alle presunte ottenute. Questo volgendo per lo più lo sguardo al passato. Dando per scontato che il passato come il futuro segue una linea irreversibile nel tempo perché entro la materia. Io parto dalla premessa che un mio aspetto essenziale ma non quantificabile non ha una ‘direzionalità nel tempo’, è della stessa sostanza di cui è fatto (un probabile) Dio, per cui egli è in me, quanto io in lui. Lo sforzo di questo ‘telescopio’ è individuare quel punto senza tempo fuori dal Tempo, nell’antimateria prima di un ‘nulla apparente di vita’ e ancora prima di essa. Tornare progressivamente a quella condizione di tutto e nulla. Non è quindi solo porgere la percezione sul ‘nulla’, nella semplicità o complessità che il termine potrebbe sottintendere quando riesco per gradi a risalire la china del tempo, ma condizione imprescindibile nel momento in cui attraverso tutte le fasi con i relativi nessi casuali che mi hanno indotto verso una regressione culturale, approdo, attraverso la mente del ‘primitivo’, e dopo di lui, gli antichi che gli sono succeduti, a frammenti di vita.  Ed alla sua interpretazione.

I tre rituali battesimali catari che possediamo sono concordi nell’inserire all’interno del sacramento la lettura del Prologo del ‘Vangelo di Giovanni’, cioè i versetti 1-17 del primo capitolo, ma solo due, quello provenzale e quello slavo, ne riportano il testo per intero. Uno dei concetti ricorrenti in questo brano riguarda l’opposizione dei contrari, motivo essenziale per tutto il filone dualistico antico, dai primi gnostici, attraverso manichei, messali, priscillianisti, per arrivare ai pauliciani, ai bogomili e infine ai catari, come rileva l’autore del ’Tractatus Manicheorum’ secondo cui tali eretici rifacendosi ad un versetto biblico di Gesù Siracide: “omnia duplicia, unum contra unum”, predicano l’esistenza di “duos mundos, duo regna, duos celos, duas terras, et sic omnia dicunt esse duplicia”. A questo proposito è interessante affrontare la questione, in verità estremamente complessa dei versetti 3-4 del Prologo giovanneo: “omnia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est nihil quod factum est in ipso vita erat et vita erat lux homium”, in cui due sono i problemi nodali legati all’interpretazione. Il primo è quello del senso di dare alla frase scandendo i vari elementi in essa presenti con il ricorso a cesura o pausa, che a livello di testo scritto si esprime mediante segni di interpunzione. Il secondo problema è quello del significato che i catari attribuivano al termine ‘nihil’ e, per contro, ad ‘omnia’.
(Discussioni sul nulla tra Medioevo ed età moderna)

 Riappropriato di quella coscienza che ci è appartenuta e che ci apparterrà sempre, e che inevitabilmente mi porta su sentieri di intuizioni tradotte come singole stratigrafie di terreno di un ‘linguaggio comune’ (soggetto a più interpretazioni), di una ‘visione comune’ (soggetta a più sguardi), appartenuta a tutti gli esseri viventi (soggetti ad infinite connessioni). Ragione per cui la semplicità di tal ‘visione’ potrebbe apparire primitiva, priva cioè, di quei significati che cerchiamo. E forse anche inutile. Una vocale o consonante ‘comune’, che oltre a quel nulla apparente di un principio, di un mare, quale inizio della vita, sembra priva di quella vista che stabilisce lo stato primo o antecedente ad essa. Da qualche parte deve esserci, è questa la scintilla nella dimensione nascosta che cerco. Perché so esserci, ed esistere.




Uno sguardo attento allo specchio è una esperienza snervante. A nessuno di noi piace vedere i nostri difetti. Ma anche se è uno sguardo che fa paura, perlomeno ci suggerisce dei rimedi. Accettare il fatto che gli uomini abbiano una storia molto lunga di violenza implica che sono stati plasmati nel temperamento per usare la violenza con efficacia e che perciò faranno fatica a frenarla. E’ forse allarmante riconoscere l’assurdità del sistema: un sistema che lavora per favorire i nostri geni e non la nostra coscienza e che inavvertitamente mette in pericolo il destino di tutti i nostri discendenti. Ci aiuta studiare i nostri difetti? Ci Aiuta ad avvicinarci a quel che vorremmo, a creare un mondo dove i maschi siano meno violenti di adesso? Sarebbe bello rispondere ‘si certo’. Ma nulla indica che essere consapevoli del problema riduca efficacemente la violenza proiettata verso l’esterno della società umana: il problema di Noi contro Loro dell’aggressività intergruppo. A livello internazionale è certamente difficile immaginare come un disegno evolutivo possa influire sui calcoli e le ispirazioni dei leader, messi sotto pressione per lavorare nell’interesse della propria tribù, nazione o impero. E la storia indica che l’analisi intellettuale ha avuto scarso impatto nel corso delle aggressioni intergruppo;se esaminiamo le società, dall’antica Grecia alle nazioni moderne contemporanee, scopriamo motivi non chiari nell’andamento totale delle morti causate dalla violenza intergruppo, che sono comprese tra 5 e 65 per 100.000 all’anno. Ogni generazione può sperare che l’ultima guerra scoppiata sia davvero l’ultima, ma finora non ci sono segni che sia così. E mentre il temperamento del maschio umano rimane sorprendentemente stabile, la tecnologia umana improvvisamente, nell’ultimo istante storico, ha sconvolto tutto. Uno dei pregi della visione evolutiva è che presenta gli umani come un unico gruppo, che venera un unico antenato, mette in rilievo l’unità e banalizza le nostre differenze. Nell’immediato i rimedi contro la violenza maschile appartengono alla sfera della filosofia politica e non a quella biologica.
(Wrangham/Peterson, Maschi bestiali basi biologiche della violenza umana)

Anche la guerra è sinonimo aggregante e disgregante, ugual consonante o vocale del primo linguaggio, le situazioni avverse che ne scaturiscono con lunghi monologhi per legittimare posizioni di miti differenti nella verità della vita stabilisco erroneamente il grado di evoluzione, non invece i miti adottati da singole civiltà. Verifichiamo la veridicità dei motivi scatenanti delle premesse oltre gli inevitabili interessi di cui un singolo mito si fa portatore di un linguaggio comune cancellando di fatto la comprensione e non solo, di opposte visioni di altrettanti miti, per l’appunto.




Manifestamente troppo generica è ad esempio la formulazione proposta da Leach secondo la quale il mito costituirebbe l’espressione di realtà inosservabili in termini di fenomeni osservabili, e inappropriata risulta anche quella definizione,che vari autori hanno ricavato dalla lettura dei testi levistraussiani, definizione secondo la quale, per usare la precisa formulazione offerta da Paolo Fabbri, il mito sarebbe riconoscibile come un ‘algoritmo’ di enunciati che tenta di risolvere sul piano immaginario delle contraddizioni reali o immaginarie entro o tra i subuniversi semantici che articolano una cultura data.
(G. Ferraro, Il linguaggio del mito)

Le simmetrie messe in luce tra miti di popolazioni estremamente lontane e diverse tra loro possono essere ben reali, e non di meno è chiaro che i Borono del Brasile quando raccontano, comprendono o pensano i loro miti non sono minimamente toccati da quando possono pensare o raccontare gli Arapaho delle pianure occidentali degli Stati Uniti. Ci si può chiedere allora se il modo in cui è possibile accedere al senso dei miti attraverso una analisi condotta da membri di una cultura estranea debba essere così interamente diverso dal modo in cui gli stessi miti sono percepiti e compresi all’interno della cultura che li produce. Si resta inevitabilmente perplessi, da un lato, di fronte ad una analisi che ricorre magari a un racconto nordamericano per chiarire il senso di un episodio d’un mito del Mato Grosso; dall’altro lato, nel caso si debba riconoscere la correttezza dei risultati raggiunti secondo tale procedimento, si porrà allora spontaneamente la domanda: come è allora possibile che un Indio del Mato Grosso, certamente all’oscuro delle mitologie di popoli così lontani dal suo, possa comprendere il senso dei racconti della sua stessa tradizione? La conclusione, come si vede, può essere addirittura paradossale. E si potrebbe complicare il problema chiedendosi se poi, in effetti, la pretesa singolarità e totalità di ciascun complesso mitologico non sia in fondo altro che il risultato di un’illusione.
(G. Ferrero, Il linguaggio del mito)

Per superare questo punto, questo scoglio, questa liscia parete, abbisogno di nuove discipline e analoghe simmetrie. Se diamo per scontata l’innata violenza dell’uomo, nelle sue specifiche condizioni di ‘uomo’ appunto, evidenzio un assunto di natura biologica, cioè, intendo tutte quelle condizioni che hanno permesso la formazione di un essere dotato di vita da quando è uscito dal ventre liquido della madre che lo ha tenuto in grembo per lungo tempo.
Nello studio proprio della stratigrafia della terra rileviamo un numero di informazioni riconducibili in diversi ambiti della scienza, e non per ultimo spiegano anche argomentazioni nella sfera del mito analizzato secondo criteri antropologici. Ma, senza l’analisi di una moderna disciplina che studia appunto la geologia non posso effettuare le dovute connessioni che in ciascuna epoca stabiliscono le condizioni della vita ed i relativi miti adottati. In sostanza non potremmo orientarci attraverso la difficile geografia umana se la dissociamo dal contesto naturale dove nasce con tutte le relative connessioni quali radici non viste ma costanti nello sviluppo evolutivo. E quindi avviarci verso una probabile soluzione della sua biologia che fa dell’uomo quell’essere demoniaco di cui la violenza sembra la sua sola compagna e padrona. 

La Terra si comporta come un gigantesco magnete attorniato da un complicato campo magnetico invisibile che permea ogni cosa. Il campo geomagnetico è generato da correnti elettriche nel nucleo fuso della Terra. Il campo magnetico che misuriamo sulla superficie terrestre è tuttavia la sovrapposizione e la somma di diverse componenti di origine sia interna che esterna: il campo del nucleo, i campi generati dalla magnetizzazione delle rocce, le correnti elettriche che fluiscono nella ionosfera e nella magnetosfera e altre correnti indotte. Nel corso dei tempi geologici questo tipo di polarità (normale) si alterna con una polarità inversa durante la quale il polo nord del dipolo terrestre coincide approssimativamente con il polo nord geografico. L’analisi della magnetizzazione rimanente fossilizzata nelle rocce di una successione sedimentaria permette di rivelare la presenza nel corso del tempo di inversioni di polarità del campo geomagnetico. 
















lunedì 12 gennaio 2015

LA NOSTRA CIVILTA' SENZA PIU' MIRACOLI (2)

















Precedente capitolo:

La nostra civiltà senza più miracoli

Prosegue in:

I nostri primi sogni i nostri primi pensieri (3)














Nulla o poco sapevano e conoscevano di quel sogno rivolto al comune passato stratificato nei nostri geni, la loro grande capacità fu di azzerare talune radici culturali non considerandole imprescindibili per qualsiasi evoluzione materiale, in ciò commisero ugual errori di taluni dittatori che vennero dopo: Hitler, Mao, Stalin e via dicendo…: entrarono nel ghetto della cultura con l’araldo della scienza nuova, e pensarono di creare la Storia… 
Si deve allora tracciare un compromesso tra i due significati talora opposti (natura e progresso) che includono un denominatore comune: civiltà e cultura, e porli su un raggio più vasto, confrontando le civiltà antiche per intero con la nostra civiltà moderna. Le civiltà antiche costituivano appunto delle culture vive ed autentiche, anche se a noi moderni appaiono feroci e misteriose ma comunque esprimenti ciascuna l’unità generica dell’arte e delle mitologie d’una sgargiante e irripetibile ‘originalità’. Esse in varie epoche, si somigliano nel modo di vita, nel far guerra e nei rapporti economici (convergono verso quella evoluzione cui ti dicevo, che non esula dallo sviluppo dell’uomo riflesso all’interno dell’Universo cui appartiene…), ma divergono completamente nell’espressione della propria creatività spirituale anche nello sviluppo teologico-sociale di cui talune pur convergendo verso un monoteismo ortodosso interpretano il pensiero originario che lo ha motivato (in uno specifico luogo geografico) in opposta maniera (chiralità del mondo vivente…).
Comunque sia, il denominatore comune questa volta lo poniamo sulla manifestazione culturale che contraddistingue tali civiltà, se confrontate con la nostra puramente tecnologica-industriale, quest’ultima si avvale dell’enorme facoltà di espandersi sull’intero pianeta e più diventa uniforme, senza stile, oltreché minacciosa e soffocante, nonché acculturata come potrebbe esserlo una moderna dittatura. E noi, come ben sai, sentiamo ed avvertiamo tutto questo come un costante malessere (oggetto della tua disciplina…) ed un peso assillante che tende a costruire i valori odierni della normale economia (e non trovi tutto ciò più che paradossale…?). Ci troviamo difatti, ora come ora, ad uno spartiacque tra il modo di vivere degli antichi e il nostro modo di sopravvivere in una civiltà già chiamata non causualmente postmoderna. Pur godendo di incalcolabili comodità e di straordinarie  facilità di movimento, comunicazione, ecc., siamo sempre più scontenti ed irascibili come i bambini viziati che non accettano l’atteggiamento d’amore-rimprovero dei genitori.
E ci troviamo di fronte ancora ad un altro spartiacque: quello fra la ‘teocrazia’ degli antichi e la ‘tecnocrazia’ ultramoderna. Come nei vetusti detti delle religioni, subiamo una duplicità interiore che ci rende sempre più nevrotici… depressi malati e talvolta agonizzanti… nella fretta di raggiungere e perseguire qualcosa che in fondo non conosciamo o che non ci si fa conoscere (ed ecco ciò che ti dicevo in riferimento alla costante partecipazione alla partita della vita, Stranieri al mondo talvolta è un aspetto reale della visione di un mondo cui dobbiamo convivere specchio di quella duplicità a cui per opposta veduta anche Cartesio affidò la sua anima: ‘Bene qui latuit, bene vixit’; l’importante sono, oltre le regole del gioco, i paletti dove noi fissiamo non solo la geometria del campo, ma anche i limiti stessi dove tale ‘gioco’ dell’essere ed appartenere al mondo ci confronta e proietta…).
Tutto questo è l’effetto infausto di una costante perdita delle leggi nascoste della Madre-natura a detta anche di molti maestri di filosofia: ragion per cui in questo nuovo Viaggio ci viene in mente un altro tremendo interrogativo: non abbiamo per caso inversato proprio il corso del progresso?! Riflettendo su questo punto, costante motivo di confronto non solo dialettico ma anche sociale (vedi quello che succede oggigiorno…) sono lieto di proseguire questa lettera lasciando spazio al Tempo che mediterà sull’ iniziativa e sulla quale rifletterà il suo imperscrutabile potere nei modi e … Tempi di cui io ho approfittato sulle capacità di un particolare sistema evoluto nelle finalità di ottenere, appunto, quella ‘evoluzione’ sperata di cui è imprescindibile anche un apporto psicologico di cui non solo io, come molti altri abbisognamo, ed in cui l’intera società civile che agogna quei risultati e quei traguardi talvolta così sofferti, precipita su quelle crepe storiche di secolare memoria…., non formulando la realtà storica dei fatti nel bilancio dell’uomo quale essere…, direbbe Cartesio.., pensante….

(A. Morretta, Miti antichi e mito del progresso)

(Prosegue....)