giuliano

sabato 22 giugno 2019

DIALOGO CON LO STRANIERO (11)



















































Precedenti capitoli (in riferimento allo Straniero):

L'uomo della riva e quello della stiva (9/1)

Prosegue nella...

Variante della Vita (34)













Quanto sublime la Terra vista dall’alto, quanto rigogliosa e prosperosa, ma possibile che tanto male l’ha seminata, tanto odio l’ha nutrita, eppure nel libro miniato, ragione di un comune desiderio pregato, come può la Parola volgere ad un vento nemico di ogni comune ‘ora’, ciò non comprendo e capisco, continuo il volo giacché Dio nasce dal vento di un diverso Principio.

Dio non può essere racchiuso in un rigo, al crocevia di uno strano bivio dove la via può essere smarrita perseguitata o inquisita. Così che un vento nemico di ogni Natura crea la disavventura per ogni naufrago nero o bianco che sia per perire in un mare profondo quale battesimo di una strana Dottrina.




Quanto sei ingenuo Jonathan, corri veloce per questi ed altri luoghi con compagna la sola certezza dell’umile preghiera di un mondo limpido e giusto a misura di ogni Pensiero all’uomo muto nello Spirito taciuto.

Chi sei, non ti vedo!




Certo che no, perché sono quel Dio pregato dal libro narrato e venerato, mi hai dato del ‘guardiano’ del tuo creato, mi hai rivolto blasfema parola offesa al secolare Verbo. Puoi leggermi su un rigo su una strofa così ben curata e descritta nello stesso secolo di quell’‘ora’, ed io farò nascere quel vento nemico alla tua Prima Parola, poi solleverò la Terra affinché la nebbia si sazi del tuo istinto immaturo. Quelle genti prega(va)no il pensiero mio al bivio di un diverso vento nato e poi risorto, e tu ben sai, visto che cavalchi la Parola dal medesimo Principio partorita, che nascono bufere al crocevia di basse o alte atmosfere, con tutte le perturbazioni che fanno il mio secolo infinito, il tuo un invisibile creato da me per sempre punito ed inquisito.

Lo hai rivelato e descritto, per questo è nata una bufera, sono io che comando l’uomo su questa Terra, anche se Secondo al Primo di un istinto taciuto, pace e tolleranza non appartengono alle ragioni del tuo Sogno pensato e Creato, ho dovuto metterlo per iscritto e dettare il tutto ad un profeta, salì alto nel monte, non fu cosa facile incidere tutte quelle parole, per giunta il mio popolo si era anche smarrito e la legge fu l’ancora di ogni peccato, comandai quell’uomo per disciplinare quanto da te Creato, senza legge e peccato!




Son io che disciplino e regolo la rotta, infatti tutti in segreto predicano la tua nuova venuta, in quanto la ‘moneta’ coniata quale eterna certezza araldo di vita, con te, certo, avrebbe esistenza ben dura!

La ‘materia’ sulla quale poggi le tue ali quali fossero Divine Parole, per me, che combatto con l’uomo ogni giorno, sono scemenze senza contorno, sono tavolette per la povera favella.

Il figlio che hai abbandonato per una lenta agonia nominata da te evoluzione dal mare partorita, conosce una diversa Rima, l’ermetico e intricato pensiero conosce una diversa evoluzione alla Rima dell’Eterna (mia) venuta, perché quale custode nominato ho creato in verità ogni creatura già cresciuta, compreso quell’Adamo dalla povera favella e la sua donna, sono al piano da basso del condominio, il peccato ho loro per sempre donato, e loro mi hanno per questo affidato le chiavi del loro piccolo ‘appartamento’.




Se non fosse nel ricordo del peccato consumato non potrei curare ed amministrare ogni sacrificio sudato. Quando ero a questo piano edilizio ancorato, tu ancora strisciavi e porgevi un frutto, ancora, se ben ricordo, non volavi, strisciavi quale immonda schifezza nella Rima a me poco gradita, ha sollevato una bufera terrena da me sapientemente e fruttuosamente gestita.

Così nuova moneta ho coniato, altrimenti gli uomini da te creati da cosa trarrebbero terreno nutrimento?

Dall’aria e il Pensiero del tuo Dio?

Per questo ci son io!

Materia di ogni Spirito!  

Qualcuno ti ha pregato e venerato all’ombra di uno stesso deserto, al confine di una Parola, il tuo Dio ti conduce per tutte le vite da me raccolte ed ornate su un rigo, troppo piccole ed immonde per essere studiate, troppo piccole per essere interpretate su un Frammento su di un rigo su di un Papiro, quando il vento ti è nemico e la voce barcolla non sazio nel ventre della materia che non perdona compagna della misera tua ora!




Hai inventato la neve, ed io ho edificato e costruito ugual desiderio, lo nutro e coltivo, a te poi regalo il pianto antico racchiuso entro una giara quale sfida al desiderio dell’uomo che governa e divora: vola anche lui su di un legno, a te regalo ugual legno su alto nel monte, Teschio del pensiero tuo così mal concepito.

Vuoi volare solo tu in questo desiderio antico?

La mia Legge custode di ogni sogno da te partorito, per questo lo governo nella salita e discesa del tuo Paradiso, e non condannarmi con la difficile ed ingannevole Parola, vogliamo negare il privilegio ad ogni uomo della sua piacevole ora?  non fu Tommaso l’atleta che raccolse l’Eresia tua?

Non vedi?

Ammira!

Si sentono come Dio, e pregano il tuo eterno martirio, tu che vuoi confinarli senza legge ed edificio per una terra senza girone e bellezza a contemplare una serpe che striscia, una volpe che ruba, un lupo che divora il mio gregge che produce e lavora. Ed ancor peggio, un albero che narra la sua Storia, cacciagione della  mensa condito con il fuoco della mia ‘ora’ elementi della materia per cui condanni la Terra qui nella blasfemia narrata.

La neve fu solo una lacrima della tua mente, io ho saputo coltivare e dare a lei il giusto nutrimento e gradimento.

Per te sarebbe stata solo una bella ‘simmetria’, ogni fiocco diverso e un quadro del tuo Dio, che inutile costruzione che inutile Eresia, il marmo compongo, la chiesa e il Tempio dipingo, il tuo invisibile disegno elemento di un Creato nato da un nero Principio, quale  perfezione di morte dipinta e nel freddo scolpita, su una croce ho confinato ‘la vita prima della vita’, affinché il Sacrifico venga pregato e la luce illumini il materiale creato.

Nel Battesimo ho costruito la dottrina, ed anche se l’acqua per te ha un diverso significato, ogni pargolo di questo Creato deve avere l’immunità di quanto da te Pensato!




Odo la tua voce nel Vento fermo della terrena mattina, avverto la paura antica del cacciatore della segreta ed antica Prima Dottrina, per quanto da me tutto Pensato e Creato, un diverso Dio comanda la materia e la luce della vita, un diverso Dio indica la via, io solo un enigma diviso fra un’onda ed una particella invisibile alla vista.

L’acqua è principio di vita, tu quale elemento che governi la Natura sappi che l’acqua è principio della Parola nata, ed io così compio il ciclo ad ogni stagione della materia da te narrata. Se così non fosse non potrei volare e ricordare delle tante e troppe guerre che conoscono solo martirio privazione ed inganno, in quanto, anche se  strisciavo ed ora volo, il mondo che prego e di cui mi feci ingegno per essere da te governato nella materia di questo strano Creato, è privo di quella violenza e inganno destino della legge e parola del profeta da te inviato.

L’istinto dell’eterna mia Natura privo del concetto e Pensiero scritto nella tortura. Quella l’ho provata e provo ogni giorno anche nella morte di quelle creature che vedo affogate nel mare profondo, anche in quei tuoi figli periti nell’acqua di un tuo principio non condiviso.




Osserva la Natura, ho regalato loro una Rima e la Neve con l’antica simmetria ha imbiancato la Chiesa della mia poesia.

Quale opera meravigliosa, quale pittura sublime, non v’è quadro più bello in questo dire. Guarda la bestia che mi fa compagnia, non v’è anima più gentile da condurre per ugual via. Guarda coloro che popolano il cielo d’inverno e d’estate, non v’è suono più bello e soave.

Ho dovuto patire il sacrifico e umiliato dal tuo volo da ognuno condiviso: chi uno sputo chi una offesa, chi un inganno comandata al portiere che invade ogni Rima poco gradita al condominio della tua costruzione così ben concepita. Ma la vita e il Pensiero Primo che per sempre dominano la via e nella materia crocefissa, non conoscono tortura o violenza alcuna, lascio a te questo mondo poco gradito io sono figlio di un altro Dio.

Straniero alla (tua) poesia, Straniero alla ricchezza (tua), e se la povertà e l’umiliazione saranno il calvario dell’eterna (mia) vita, benvenuto vento che predichi la vita, visibile e pregato da ogni navigante che gode dei favori della materiale fortuna a buon porto condurrai la sua terrena venuta, di questo ne sono più che certo, di questo ne sono più che lieto.




Ma io sono un povero Straniero alla ricchezza, striscio volo arrampico su per una cima come un Cristo impazzito e braccato dal suo popolo come un male antico, muoio ad ogni stagione e poi risorgo alla primavera e perdo la testa come un quadro dipinto e nell’impressione scolpito, di questo io ne sono più che certo, la luce illumina ciò che è visibile alla materia, la morte sarà compagna della mia ora, io a te dono il quadro della mia onda impazzita al museo della comune via…

Lasciami narrare ora il martirio nella miniatura di questo breve sacrificio perché non conosco violenza, la Natura non conosce tortura, per questo quando la vedo che striscia nella sua piccola dimora, il secolare gesto debbo narrare all’ombra dell’infame peccato consumato!

 Ho volato sopra quelle Terre, ho raccolto ed udito il pianto di quel creato, non puoi qui negare il male arrecato, il peccato, il vero peccato accompagnato all’inganno di questo Creato ed ancora consumato al Tempo ciclico del tuo palato.




Dimoravo in una cella gabbia dell’Intelletto inquisito e braccato, calunniato dallo Stato del tuo araldo, volavo ieri come ora, ed un tuo servo mi ruba(va) la Parola, la distribuisce alla ‘parabola’ di una falsa via. La Storia hai inquisito, il canto e la Rima di chi morto bruciato, ed ancor oggi distribuisci stesso intento, la Storia non vuoi ricordare, cacciando la ragione dell’Intelletto confusa e rivenduta per pazzia al porto della giustizia.

Poi, come quelle anime affogate, anch’io sono fuggito, come quegli uomini nel Tempo d’un diverso Dio mai appassito, anche io ho volato nel sudario di quanto da te miniato…

Cacciato da un essere troppo vile per essere narrato, troppo meschino per essere appena ricordato, confuso fra un riso compiaciuto per l’inganno arrecato, per la tortura inflitta, per il confino giammai meritato, ed un ghigno di disprezzo per quanto narrato nel volo braccato e cacciato. Perché la caccia al volo antico e per sempre rinato ricordano la Storia in cui affoghi la morale della tua falsa gloria. E come l’uomo perito sognando il volo su un diverso Creato, per la loro colpa ed il loro peccato, pregando una verità Universale pace del Creato, sono stato  umiliato tradito e braccato, volo ‘cacciato’ agnello consumato!




Nella materia mi vedi e controlli, disciplini e dispensi la ‘regola antica’, per questo mai taciterò il canto della Rima, giammai impazzita al porto della tua strana Dottrina, e se la Storia vuoi tacitare, se la vista vuoi annebbiare, se la mente confondere, se la ‘penna’ bruciare, sappi che il Vento mi è amico, il Vento del Primo Dio!

E’ Lui che indica la via, è Lui che ricorda la Verità tradita, per questo deve essere narrata alla rinascita di ogni vita perita e torturata. Così da poter di nuovo apparire al foglio ed al bordo del libro miniato ornare con ugual voce antica l’araldo della tua nuova conquista appesa alla ‘parabola’ della nuova via…

 Ed ora, vento e dio che hai conferito favella, ecco il Tempo mio. Lo vedi? Un fiocco di neve. Osserva, non è meraviglioso come Dio imbianca il cammino come Dio raccoglie e narra la Tortura subita al calvario della tua via. Un fiocco di neve quale eterna e prima simmetria di vita, ed a te io dirò in questo tempo senza ‘ora’, in questo giorno senza alcuna tortura: che il bianco sudario cui hai destinato Parola, possa perdonare il gesto antico cui destini l’eterna avventura di chi fuggito con una barca e la speranza di un mondo più giusto alla tua parola. Un mondo bianco ove la Rima possa essere solo la neve della poesia, e giammai l’eterna tortura cui destini e rinchiudi diverso vento al porto della tua parola…




E con lui, compagno del mio cammino, esilio in una nuova Terra, compio il volo di Dio, ogni fiocco di neve che prego ed osservo nel silenzio del bosco narra una Parola, mi suggerisce la Rima. Su un albero di vita su cui poggiai e riposai il passo stanco, orna la chioma così da sembrare un vecchio saggio.

Lui in questo secolare paradiso per indicarmi la via all’improvvisa smarrita, narra la Storia, mi dice che l’uomo che gli rubò la forza per un nuovo condomino, un Tempo gli tolse anche la Parola, perché ebbe la pretesa di tradurre e spiegare al volgo il verbo di Dio. Ebbe la pretesa di predicare e narrare ‘povera novella’ ad un pastore per poi al piccolo borgo spiegare che la vita cela una Verità mai predicata alla ricca mensa di un ugual ‘pastore’, per la stessa via.

La sua predica fu un Tempio della Parola inquisita e l’ombra da lì nata divenne rifugio per ogni viandante smarrito: quel grande Spirito racconta nel sogno di una eterna via, la fatica della vita, la persecuzione dell’atroce martirio subito nel fuoco patito. Ogni viandante nell’inverno del suo passo o nella primavera quando disseta la sua venuta e nell’estate quando ‘Re Sole’ brucia…, si riposa, e scorge qualcosa,  mira un evento strano, un sogno antico di chi mai perito che per sempre narra la Storia e la fuga.




E quando il viandante sudato per il sogno ritrovato mira la via si sente più saggio di prima, ed al Frammento dell’eterna ora quale nuova preghiera si incammina e appoggia per il sentiero di una nuova vita: comprendere l’altrui motivo scritto nella corteccia… di Dio, contare gli anelli del vicino tronco abbattuto per scoprire che il passo ed il sogno confondono il Tempo suo, per essere già vissuto da inquisitore della libera parola, oppure con una scelta degna dell’eterna ora.

E mirare quel secolare ‘faggio’ perito nel coraggio, vederlo con occhi diversi ascoltarlo nel silenzio di uno strano Viaggio, sembra di averlo un Tempo vissuto ed ora ritrovato, quale sogno o incubo arrecato nell’oltraggio di quel taglio.

Il bivio diviene scelta di un nuovo e più certo cammino in questo Sentiero ove non si ode voce né rumore né vento di un Secondo Dio.

Paradiso all’ombra di un albero antico, Divino per il comune sogno smarrito divenuto terreno cammino. Anima che narra la Storia per chi ascoltare la voce della Natura raccolta nell’invisibile Memoria abbattuta e figlia di quel Vento che mai tortura. Ma come una carezza adesso attraversa ogni foglia diventa mio e suo respiro nel comune Tempo di questo Dio… diventa scelta di un miglior cammino al bivio dove ho riposato un lontano mattino….    













                         
                                                 


giovedì 13 giugno 2019

IL DISPIACERE DI COTAL COMPAGNIA (30)




















Precedenti capitoli:

L'identità della Natura (29)  (&)

...Più o meno negli stessi anni...

Prosegue nel detto...

Dispiacere di cotal 'Compagnia' (Seconda parte) (31)














Per entrare in una condizione di solitudine l’uomo ha bisogno di allontanarsi tanto dalla propria stanza che dalla società. Mentre leggo e scrivo non sono in solitudine, anche se non c’è nessuno con me. Ma se un uomo vuole avvero stare solo, guardi le stelle. I raggi che provengono da quei mondi celesti stabiliranno una separazione tra lui e le cose tangibili. Si potrebbe pensare che l’atmosfera sia stata creata trasparente proprio allo scopo di dare all’uomo, attraverso i corpi celesti, la perpetua presenza del sublime. Quanto sono grandiosi, visti dalle strade delle città! Se le stelle apparissero una sola notte ogni mille anni, davvero potrebbero gli uomini credere e adorare, e serbare per tante generazioni il ricordo della città di Dio che è stata loro mostrata! Ma spuntano ogni notte questi messaggeri di bellezza, e illuminano l’universo con il loro sorriso ammonitore. Le stelle destano una certa riverenza perché, seppur sempre presenti, sono inaccessibili; nondimeno, tutti gli oggetti naturali suscitano un’impressione analoga quando la mente è aperta alla loro influenza. La natura non indossa mai un’apparenza mediocre. E l’uomo più sapiente non riesce a estorcerne il segreto, né perde la sua curiosità quand’anche ne abbia scoperto tutta la perfezione. La natura non diventa mai un trastullo per uno spirito saggio. I fiori, gli animali, le montagne riflettono la saggezza della sua ora migliore, così come hanno deliziato la semplicità della sua infanzia. Quando parliamo di natura in questo modo, abbiamo in mente un sentimento preciso, benché estremamente poetico. Intendiamo l’unità dell’impressione prodotta dai molteplici oggetti naturali. È questo ciò che distingue il legname del taglialegna dall’albero del poeta. L’incantevole paesaggio che ho visto questa mattina è senza dubbio costituito da venti o trenta fattorie. Miller possiede questo campo, Locke quell’altro e Manning il bosco più in là. Nessuno di loro, però, possiede il paesaggio.






…Poterono fare né i leoni né i cannoni Krupp, l’hanno fatto le Alpi... Ho paura!

— Non lo dite, Tartarino!

— E perché no! – fece l’eroe con grande dolcezza

– lo dico perché è la verità...

E tranquillamente, con semplicità, confessò l’impressione che aveva ricevuta dal quadro del Doré, quella catastrofe del Cervino che aveva sempre davanti agli occhi: ora poiché non amava affatto esporsi a pericoli del genere, avendo sentito parlare di una guida straordinaria capace di farglieli evitare, era appunto venuto a mettersi nelle sue mani.




— Voi, Gonzaga – aggiunse col tono più naturale – non siete mai stato una guida, vero?

— Ma sì – rispose Bompard con un sorriso

– guida sì; soltanto, non ho mica fatto tutto ciò che ho raccontato...

— D’accordo! – approvò Tartarino.

E l’altro a denti stretti:

— Usciamo un po’ sulla strada... potremo parlare con più libertà.




Scendeva la notte: un soffio di vento tiepido e umido rotolava le nubi nere e bambagiose nel cielo dove il tramonto aveva lasciato come dei raggi di pulviscolo grigio. I due amici camminarono a mezza costa, verso Fluelen, incontrando sul loro passo alcune mute ombre di turisti affamati che tornavano all’albergo, e andarono anch’essi come ombre, senza scambiare una parola, finché giunsero alla lunga galleria interrotta dalla parte del lago da belle arcate a balcone.

— Fermiamoci qui – fece Bompard con la sua voce chioccia che rimbombò come un colpo di cannone sotto la volta.

E sedutisi sul parapetto, contemplarono l’ammirabile vista: il lago in basso, e sopra il lago un’erta scoscesa di abeti e di faggi neri e folti; e dietro, montagne più alte dalle cime ondulate, e dietro ancora, delle altre sfumate in azzurro come nuvole; a metà la striscia bianca appena visibile di un ghiacciaio chiuso fra i baratri, che ad un tratto risplendette di fuochi iridati, gialli, rossi, verdi: illuminavano la montagna con fuochi di bengala! Da Fluelen partivano i razzi che in alto poi si rompevano in stelle multicolori, e il lago era in ogni senso percorso da lampioncini veneziani su battelli invisibili pieni di gente in festa e di musiche: un vero scenario d’incanto inquadrato fra le semplici e fredde mura di granito della galleria.




— Che paese ridicolo, questa Svizzera…

– esclamo Tartarino.

Bompard si mise a ridere:

— Ah, già... la Svizzera... Prima di tutto, la Svizzera non esiste! Oggi come oggi, la Svizzera come tanti altri analoghi posti delle Alpi o Dolomiti, signor Tartarino, non sono altro che un vasto Kursaal aperto da giugno a settembre, un vero Casino panoramico dove viene per distrarsi gente da tutte le parti del mondo, e che è condotto da una Compagnia ricca a centinaia di migliaia di milioni, con sede a Ginevra, New York, Mosca e a Londra. Pensate se ce n’è voluti di soldi per affittare, accomodare, abbellire tutto questo po’ po’ di territorio: laghi, foreste, montagne e cascate; per mantenere un popolo di impiegati e di comparse, e per piantare sulle vette più alte alberghi spettacolosi con gas, telegrafo e telefono...

— Eppure è vero – pensò a questo punto, a voce alta, Tartarino ricordandosi del Righi.




— Altro che vero!... E voi ancora non avete visto niente... Se vi inoltrerete un po’ nel paese, non troverete più un cantuccio che non sia truccato e pieno di meccanismi come il palcoscenico dell’Opera: cascate illuminate a giorno, contatori all’ingresso dei ghiacciai, e per le ascensioni ferrovie idrauliche e funicolari senza risparmio. Peraltro, la Compagnia, per far piacere alla sua clientela di inglesi e di americani arrampicatori, ha conservato ad alcune montagne famose, come la Jungfrau, il Monaco, il Finsteraarhorn, il loro aspetto pericoloso e  selvaggio, nonostante che anche quelle non presentino ormai più pericoli delle altre.

— Ma i crepacci, caro mio, quei terribili crepacci... Se, per esempio, uno ci cascasse dentro?

— Cascherebbe sulla neve, signor Tartarino, e non si farebbe niente di male: c’è sempre, laggiù in fondo, un portinaio, un cacciatore o qualche altro che vi raccatta, vi spazzola, vi sbatte e vi domanda con buona grazia: «Ha bagagli il signore?»...




— Ma dite davvero, Gonzaga?

E Bompard sempre più serio e grave:

— La manutenzione dei crepacci è una delle spese più ingenti per la Compagnia.

Seguì un minuto di silenzio sotto il tunnel.

Tutto ormai taceva d’intorno: erano finiti i fuochi colorati, non c’era più polvere nel cielo né barche nel lago; ma s’era alzata la luna e dava al paesaggio un tono diverso eppur sempre convenzionale, bluastro, magnetico, con degli angoli di una oscurità impenetrabile...




Tartarino esitava ad accettare come oro colato le parole del compagno. Nondimeno andava riflettendo su quanto aveva già visto da sé di straordinario in quattro giorni: il sole del Righi, la farsa di Guglielmo Tell; e le invenzioni di Bompard non gli apparivano poi del tutto inverosimili, tanto più che in ogni tarasconese il millantatore è foderato di credulità.

— Ma veramente, mio caro amico, come spiegate allora certe spaventevoli catastrofi, ad esempio quella del Cervino?

— È accaduta sedici anni fa... a quel tempo non c’era ancora la Compagnia, signor Tartarino.




— E il disastro dell’anno scorso sul Wetterhorn: due guide seppellite insieme coi viaggiatori?

— Ma ogni tanto ci vuole, già, per attirare gli alpinisti... Se in una montagna non si fracassa mai nessuno, gli Inglesi non ci vengono più... Il Wetterhorn già da qualche tempo era in ribasso: dopo quel piccolo fattaccio gli incassi sono subito rialzati.

— Allora... le due guide?...

— Stanno benissimo, loro e i viaggiatori: li hanno soltanto fatti sparire mantenendoli all’estero per sei mesi... È una réclame costosa, è vero, ma la Compagnia ne ha abbastanza per permettersi simili lussi.




— Statemi a sentire, Gonzaga...

E così dicendo Tartarino s’era alzato e aveva poggiato una mano sulla spalla dell’ex-gerente:

— Voi non vorreste, vero? che mi accadesse qualche disgrazia... Ebbene, parlate con tutta franchezza... I miei mezzi come alpinista li conoscete: sono mediocri.

— È vero, anzi mediocrissimi!

— Ora, ritenete che io possa, senza espormi troppo, tentare l’ascensione della Jungfrau?

—  per me, ci metterei la testa nel fuoco… Non dovete fare altro che fidarvi della guida, già!

— E se mi vengono le vertigini?




— Chiudete gli occhi.

— E se sdrùcciolo?

— Lasciatevi andare... tanto è come al teatro: vi sono i praticabili: non c’è alcun rischio.

— Oh se ci foste voi, lassù, per dirmelo, per ripetermelo... andiamo, vecchio mio, una bella risoluzione.

Venite con me... Bompard, manco a dirlo! non domanderebbe di meglio, ma ha sulle spalle i suoi peruviani per tutta la stagione; e siccome Tartarino si meraviglia di vedergli accettare le funzioni di corriere, di subalterno:

— Che volete, signor Tartarino... è nel contratto: la Compagnia ha il diritto di impiegarci come meglio le pare. E qui comincia a contare sulle dita tutte le parti che aveva fatto da tre anni a quella parte; guida nell’Oberland, suonatore di corno delle Alpi, vecchio cacciatore di camoscio, antico soldato di Carlo decimo, pastore protestante sulle montagne...

— Che roba è? – domanda con sorpresa Tartarino,

E l’altro, sempre con la stessa calma:

— Ma sì! Viaggiando per la Svizzera tedesca, vedete, a volte, a delle altezze vertiginose, un pastore protestante che predica all’aperto ritto sopra una roccia o seduto sopra un rustico sedile di legno. Intorno a lui si raggruppano, in pose pittoresche, caprai e formaggiai coi loro berretti di cuoio fra le mani, donne pettinate e vestite secondo i figurini del cantone; e il paesaggio è quanto mai carino: pascoli verdi o di fresco tagliati, spruzzi di cascate fin sulla strada, e su ogni balza della montagna greggi e armenti coi grossi campanacci sonanti. Ebbene: sono tutte truccature e tutte comparse. Soltanto, nessuno è a parte del segreto all’infuori degli impiegati della Compagnia: guide, pastori, corrieri, albergatori; e costoro hanno interesse a non rivelarlo per paura di far scappare la clientela.




L’Alpinista rimase sbalordito, anzi addirittura muto: il che per lui era il colmo della stupefazione. In fondo in fondo, per quanto avesse qualche dubbio sulla veridicità di Bompard, si sentì rassicurato e più calmo riguardo alle ascensioni alpestri; e la conversazione si fece in breve allegra: i due parlarono di Tarascona, delle loro belle scorpacciate di risate di allora, quando erano più giovani.

— A proposito di scherzi – disse ad un tratto Tartarino – me ne hanno fatto uno bellissimo al Righi-Kulm: figuratevi che stamattina...

E si mise a raccontare della lettera appiccicata allo specchio, a declamarla con enfasi: «Francese del diavolo... Una mistificazione, no?».

— Chi lo sa?... Forse... – rispose Bompard che parve prendere la cosa più sul serio. E s’informò se Tartarino durante il soggiorno al Righi avesse avuto che dire con qualcuno e si fosse lasciato scappare una parola in più del necessario.

— Davvero, già! una parola in più! se non si può nemmeno aprir bocca con tutti questi inglesi e tedeschi che stanno muti come lucci col pretesto della buona educazione. Peraltro, riflettendo un po’, si ricordò di avere messo a posto, e alla svelta, una specie di cosacco, un certo  Mi...Milanof.

— Manilof – corresse Bompard.

— Ah, lo conoscete?... A dirla fra noi credo che quel Manilof ce l’avesse con me per causa di una fanciulla russa...




— Sì... Sonia... – mormorò Bompard sovrappensiero.

— Conoscete anche lei? Ah, compare, che cosina fine! che deliziosa tortorella grigia! che bottoncino di rosa!...

— Sonia di Wassilief... È quella che ammazzò con un colpo di rivoltella, in mezzo alla strada, il generale Felianine, presidente del tribunale militare che aveva condannato suo fratello alla deportazione a vita.

- Sonia assassina!? quella bimba, quella biondina!...










ù o meno negli stessi anni....

lunedì 10 giugno 2019

L'UOMO DELLA STIVA E QUELLO DELLA RIVA (10)









































Precedenti capitoli:

Giro giro tondo...(9)

Prosegue nell'...

Dialogo con lo Straniero (11)  &

Identità della Natura (ovvero: simboli nuovi) (29)














…Prenota un Albergo ad hore con il permesso del min(i)atore scava profondo incide l’araldo del sudato breviario, e dicono, alla Madonna dedicato non men del tatuaggio con cui distinguerne il numero dal prefisso, ogni monastero conserva il suo Mistero non men del recluso… pagato ad hore per ogni abuso…   

Con annessa e connessa Eva: nel pacchetto del curatore è compresa piscina con Vista in ciò in cui una volta l’antico piano regolatore rimembrava antica pietra incisa ed alla Finestra digitata… una stalla (giacché proprio da lì nacque in un invisibile Tempo interdetto un diverso detto e da Giovanni tradotto, se solo avessero compreso la PAROLA oppure password decifrata…)…

Non vuol essere inferiore della devota, non men che dovuta Genesi, da cui la trama dell’intera intricata Storia raccolta tutta giù riunita alla Stiva.

E dicono trattenuta da una diga dalla quale vera energia.

S’agita con la clava in divisa e da tutti condivisa nessuno escluso, neppur secolari esclusi reclusi della ditta braccare la Parabola.

Compimento della devota Materia!




Si ricompone nella Prima Parola dedotta e suggerita neppur ben cogitata.

Un pazzo Straniero alla Terra non men che alla dovuta Stiva celebrata bisogna apostrofare ed animare…

Ripetere reclamare braccare in nome della dovuta dottrina divenuta Legge facendo distinguo specifica ed ammenda al direttore dell’Albergo.

...Ripetere al passo unito e disgiunto. Retto non più oca ma lombardo acclamato…

Così come è Stato e sarà ancora ugual Terra condivisa ed inchiodata fra il Figlio il Padre e il Dio pregato al Tempio convenuto ed unito - eppur diviso - al Teschio della Cima.




Lo vedono!

Lo scorgono!

L’incrociano!

Gli ridono in faccia!

I più virtuosi l’insultano poi esultano per il coraggio riunito.

E se fossero Due!?

E non Uno!?

Il dilemma diviene arcano!?

Qualcuno timoreggia…

Qualcun altro tinteggia…

Ma il coraggio dell’Impresa li unisce…

Lassù fin sulla Cima ove il sonno tormenta la Ragione…




La Patria (con)divisa prometta e vigila!

Gente venuta dal Nord in attesa di fare della Terra il grande fiordo nodo dell’alleanza suggellata, la nuova Arca. Patto sottoscritto sangue nazionale in più elevata arrampicata e conquista… ma non certo da Madre Natura del tutto compresa.

Beatrice fuggita!

Qualcuno dice (‘il’  ‘la’ ‘le’) Seraphita…

…Comunque s’è ita o rapita…

Questione di accenti! Accompagnati dagli articoli (e non solo di Stampa).

Questione di musica…

Lei, immacolata, ed ancora non del tutto corrotta ‘quanto’ la scimmia futuro uomo della stiva… approdato alla conquista della Cima, vaga da un mare ad una Terra, da una Terra ad un Oceano, nell’eterno moto specchio e motore dell’Universo: costante Girotondo nella Stagione persa ma nessuno ne ha preso ‘dotta’ coscienza!

S’aggrappano ad un sogno dismesso e suggerito, almeno così dicono, da miglior architetto della Gnosi divenuta nuovo elemento con la dovuta ‘dottrina’ afferrare e decifrare il male della Terra e digerirlo nella ‘materia’.




Lo Spirito d’un Tempo troppo antico per essere dalla ‘materia’ appena intuito (o suggerito) dalla Parabola preposta, per venir successivamente fagocitato e restituito nel male di cui la Terra al ‘capro’, mito coltivato e da ognuno assaporato, qual frutto migliore del Creato per ciò che sacrificato in nome del proprio peccato consumato e così respirato non men che espiato e restituito.

Regna differenza fra materia e Spirito.

Fra l’uomo della riva e quello giù della stiva.  

S’aggrappano ad un ricordo naufragato ad un mare morto agitato, e se pur l’iceberg affiora ciò che rimane una donna adulta con il volto invecchiato da bambina…

Ogni Natura reclama ed abbraccia la nuova sposa…

…Ma la scimmia evoluta s’accosta accarezza la Visione reclama l’eterna conquista batte il suono della sua venuta…




Una scimmia domestica che aveva imparato a fare dei giuochi, e si lascia prendere in braccio tanto è buona, viene messa sotto la campana alle ore 2,5 pom.

Dopo 10 minuti la pressione interna è solo più 430 mm. A questa rarefazione dell’aria, che corrisponde all’altezza del Monte Bianco, la scimmia sta attenta e si diverte colla coda. Si nota però che è meno vispa del solito.

Quando la pressione interna è 394 mm. la frequenza del respiro è diminuita. Fa solo 48 respirazioni al minuto, mentre alla pressione ordinaria di 734 mm. ne faceva circa 60.

La scimmia sta seduta senza muoversi più, e guarda in terra distratta. Quando la pressione è 320 mm. (corrispondente all’altitudine di 4837 metri), la scimmia chiude gli occhi e sonnecchia. Respira 42 volte al minuto.




Di quando in quando apre gli occhi, ma le palpebre sembrano essersi fatte pesanti. Sta seduta colle mani fra le gambe e la testa bassa, nella posizione naturale del sonno. La respirazione è un po’ irregolare, qualche volta si contano 50 respirazioni al minuto, altre volte solo 40.

Di giorno non l’avevamo mai vista dormire.

Toccando colla nocca delle dita la campana alza la testa, guarda istupidita e subito socchiude gli occhi e il capo torna a ciondolare fra le gambe.

Per essere sicuri che la corrente dell’aria era sufficiente al respiro, avevamo messo un contatore che misurava la quantità d’aria la quale penetrava nella campana. Nel tempo che era maggiore la rarefazione dell’aria passavano 16 litri di aria al minuto; ciò vuol dire che la razione di ossigeno sarebbe stata sufficiente non solo per una scimmia, ma per un uomo.

Questa precauzione l’avemmo anche nelle esperienze seguenti.

Alle ore 2,35, vedendo che dorme sempre, mentre la pressione rimane costante a 4800 metri, sospendiamo la rarefazione dell’aria. Aprii un poco di più il robinetto che dava accesso all’aria, e la pressione dell’aria cominciò a crescere, ma il manometro non era ancora sceso di un centimetro, che già la scimmia, svegliatasi, si mostrava irrequieta e come spaventata.

Girò intorno alzando le mani e cadde come se fosse presa da un accesso di convulsioni.





Levata dalla campana, continuava ad agitarsi come incosciente; messa in terra fuggì, ma i suoi movimenti erano incoordinati e sembrava fosse ubbriaca. La medesima scimmia, essendosi abituata rapidamente alla rarefazione dell’aria, dobbiamo portarla pochi giorni dopo ad una pressione corrispondente a 6470 metri perché si addormenti.

La maggior parte degli uomini che sottopongonsi alla rarefazione dell’aria nelle camere pneumatiche, od entrano nei cassoni dove si comprime l’aria, quando si lavora sott’acqua, sono molestati da un dolore forte negli orecchi. Tale dolore dipende dalla pressione che fa esternamente l’aria sopra la membrana del timpano, quando non vi è una contropressione alla superficie interna dentro l’orecchio medio.

Nelle tempeste succedono cambiamenti tanto rapidi e forti nella pressione barometrica, che alcuni si lamentano di un rumore negli orecchi. Anche nelle ascensioni vi sono degli alpinisti i quali si accorgono di sentire meno bene; per evitare tali incomodi basta chiudere il naso e la bocca e fare una espirazione forte, oppure deglutire la saliva, o bere.

Nelle scimmie l’aria esce facilmente dall’orecchio medio, quando viene rarefatta l’aria esterna, e per questo non soffrono nel salire. Ma quando scendono, cioè quando tornasi a comprimere l’aria, la tromba di Eustachio pare così fatta che non permette con eguale facilità all'aria di penetrare nell'orecchio medio.

Di qui la pressione sulla membrana del timpano che viene spinta all’interno producendo gravi dolori, vertigini, ed accessi convulsivi. Basta scendere molto lentamente perché anche nelle scimmie non vi siano fenomeni nervosi gravi alla decompressione.

(Da un Angelo Mosso...)