giuliano

lunedì 29 maggio 2017

COINCIDENZA PER LOS ANGELES (provenienza Yuma) (18)



















































Precedenti capitoli:

L'ultimo treno per Yuma (17)

Prosegue in:

Questa terra è la mia terra (19)














Mi rincalzai il cappello e m’incamminai a ovest di Redding attraverso le foreste di sequoie. Mi feci tutta la costa, città per città, con la chitarra in spalla, e cantai nei ghetti di quarantadue stati: Oklahoma City in Reno Avenue, a Seattle in Lower Pike Street, a Santa Fe sul banco dei giurati, e ho cantato anche nella vostra città, tra le bidonville pidocchiose e nei buchi più squallidi.
Ho cantato nelle tendopoli chiamate Little Mexico, ai margini poveri delle verdi praterie californiane, sulle zattere cariche di ghiaia lungo l’East Coast; e nella Bowery di New York, mentre i poliziotti ed i fascisti davano la caccia a quelli che scolavano rum di contrabbando. Deviai lungo il golfo del Messico e cantai con i marinai e i lupi di mare a Port Arthur, con i fuochisti ed i macchinisti di Texas City, con i fumatori di marijuana nei bassifondi di Houston. Segui le fiere e i rodei di tutta la California settentrionale, Grass Valley, Nevada City; mangiai le albicocche e le pesche che crescevano intorno a Marysville, l’uva delle colline di Auburn, e scolai il vino genuino che tanta brava gente offriva.




Appena arrivavo in posto mi levavo il cappello, lo buttavo a terra e cantavo per raggranellare qualche soldo. A volte ero così fortunato che mi capitava perfino di trovare lavoro. A Los Angeles, per esempio, cantai alla radio, e Zio Sam mi invitò nella valle del fiume Columbia per incidere ventisei… canzoni sulla diga del Grand Coulee. Feci anche due album intitolati ‘Ballate della conca di polvere’, per la Victor.
Poi mi rimisi in viaggio attraverso il paese due volte, in autostop e sui treni merci. La gente mi sentiva nei programmi della CBS e della NBC e pensava che fossi diventato ricco, ma a me non arrivava in tasca neanche il becco di un quattrino ed ero più al verde che mai… Nella mia vita i giorni si avvicendavano uno dopo l’altro, come la gente che incontravo, così un giorno il vento della costa mi soffiò via da San Francisco e per le larghe strade di San José mi riportò a Los Angeles.




Era dicembre e me ne andavo per la Fifth Street, la famosa grande Skid Row, la strada più incasinata di tutte. Cristo che pioggia e che vento quella notte!
Le nuvole si muovevano basse e travolgevano la strada come una mandria di bufali scatenati. A un certo punto mi imbattei in un suonatore di chitarra, stava piantato in un angolo buio e di nome faceva Cisco Kid.
Era un tipo con le gambe lunghe, che aveva l’abitudine di camminare rullando come se stesse sempre su una nave. Aveva viaggiato parecchio per mare e toccato molti porti, insomma i suoi ventisei anni li aveva vissuti abbastanza intensamente. Cantava bene, anche in falsetto, e strimpellava non male: come me, con la pioggia o il sole, il freddo o il caldo, se ne andava sempre con la chitarra a tracolla appesa con una cinghia di cuoio.




Insieme percorremmo la Skid Row sbirciando dentro i bar e le taverne tra le rumorose intermittenze delle insegne al neon, alla ricerca di una comitiva da rallegrare. Le vetrine macchiate e sporche, che neanche quel diluvio riusciva a lavare, e le porte vecchie e malandate davano ai locali un aspetto pallido e malato; all’interno uomini e donne, ricchi e poveri se ne stavano tristemente a parlare del più e del meno.
Fuori qualche edicola cercava disperatamente di rimanere aperta sotto la pioggia, per vendere ai pochi passanti frettolosi e fradici i giornali e i biglietti delle corse dei cavalli. Le sale per le scommesse puzzavano fino all’inverosimile di fumo stantio, di sputo e di sudore, affollate com’erano di gente che urlava e bestemmiava sulle proprie scommesse. Le vetrine dei banchi dei pegni erano stracolme di articoli di ogni genere, buttati lì o appesi, impegnati probabilmente proprio dalle persone che ne avevano più bisogno.




C’erano arnesi da lavoro, pale, pialle, pannelli, compassi, rubinetti di ottone, strumenti idraulici, seghe, asce, grossi orologi che non camminavano dai tempi dell’ultima guerra, tende e sacchi a pelo portati via ai vagabondi. Ecco una tavola calda: lucidi sgabelli imbottiti, un banco con tanti cibi, cibi allineati, e gente che mentre mastica e ingoia spera che su Skid Row insieme alla pioggia caschi anche un po’ di fortuna…
Un fiume di rifiuti scorre ai lati della strada, lungo il bordo del marciapiede; è una poltiglia bituminosa, fatta di pezzi di carta in decomposizione, calunnie, bugie, letame, e tanta roba che dai quartieri più ricchi scende giù per la collina…

(Liberamente ispirato da:Woody Guthrie, Questa terra è la mia terra)
















sabato 27 maggio 2017

O SE PREFERISCI... GIOCHI DI SPECCHI.... (15)



















Precedenti capitoli.

I 'perfetti' ingranaggi dell'arte... ovvero gli Specchi della vera Natura (14)

Prosegue in:

Il 'nulla' degli Ambasciatori (16)















‘Molto ci sarebbe da dire’ rispose don Chisciotte ‘riguardo al fatto se sono o no fantastiche le storie dei cavalieri erranti’.

‘Ma c'è chi non possa dubitare’ rispose colui dal Verde Gabbano ‘che non siano false coteste storie?’…

‘Io ne dubito’ rispose don Chisciotte, ‘ma lasciamola lì. Se dura a lungo il Viaggio, spero in Dio di far comprendere a vossignoria che ha fatto male a lasciarsi andare con la corrente di coloro i quali ritengono per certo che non siano vere’.




Da quest'ultimo detto di don Chisciotte entrò in sospetto il viaggiante che don Chisciotte dovesse essere qualche matto e da altri suoi detti ne aspettava la conferma; ma prima che si distraessero con altri discorsi, don Chisciotte lo pregò di dirgli chi era, dal momento che lui lo aveva messo a parte del suo stato e della sua vita. Al che rispose quello dal Verde Gabbano.

‘Io, signor Cavaliere dalla Triste Figura, sono un nobiluomo, nativo di un villaggio dove, a Dio piacendo, andremo oggi a pranzare. Sono più che mediocremente ricco e mi chiamo don Diego de Miranda. Passo la vita con mia moglie, con i figli e con gli amici. I miei esercizi sono la caccia e la pesca, ma non mantengo né falcone né levrieri, bensì qualche perniciotto addomesticato o qualche vispo furetto. Ho un sei dozzine di libri, quali in volgare e quali in latino, certuni di storia e cert'altri di devozione: libri di cavalleria hanno ancora a passare le soglie di casa mia. Sfoglio di preferenza i profani che i devoti, purché di onesto trattenimento, dilettino con la lingua elegante e suscitino ammirazione e interesse per l'invenzione, sebbene pochi ce ne sia di questi in Ispagna.





Qualche volta mangio da vicini ed amici miei e spesso li invito a casa mia. Ai miei banchetti è nettezza, eleganza e nessuna parsimonia. Non mi piace sparlare né permetto che si sparli in presenza mia; non indago la vita degli altri né guardo con occhi di lince nei fatti altrui; ascolto la messa ogni giorno, dei miei beni faccio parte ai poveri, senza menar vanto delle buone opere, perché non m'abbiano a entrare nell'animo l'ipocrisia e la vanagloria, due nemici che pian pianino s'impadroniscono dell'anima più vigilante; cerco di rappaciare coloro che so essere in discordia; son devoto della Madonna e confido sempre nella misericordia di Dio nostro Signore’.

Attentissimo stette Sancio al ragguaglio della vita e dei passatempi del nobiluomo, e sembrandogli vita buona e santa e che chi la menava dovesse operare miracoli, si precipitò dall'asino e, corso prestamente ad afferrargli la staffa di destra, con cuore commosso da venerazione e quasi piangendo, gli baciò più e più volte i piedi. Il che vedendo il nobiluomo, gli domandò:

‘Che fate, fratello? Che baci son mai questi?’…




‘Mi lasci baciare’, rispose Sancio; ‘perché vossignoria mi sembra il primo santo a cavallo che ho visto in tutto il corso di mia vita’.

‘Non sono santo’ rispose il nobiluomo, ‘ma gran peccatore; voi, sì, fratello, che dovete esser buono, come fa vedere la vostra semplicità’.

Sancio tornò a montar sulla bardella, dopo avere suscitato un aperto riso dalla profonda malinconia del suo padrone e causato nuova maraviglia a don Diego.
Don Chisciotte domandò a questo Diego de Miranda quanti figli aveva, dicendogli che una delle cose in cui gli antichi filosofi, i quali furon privi della vera conoscenza di Dio, riponevano la somma felicità erano i beni della natura, quelli della fortuna, l'avere molti amici nonché molti figli e buoni.

‘Io signor don Chisciotte’ rispose il nobiluomo ‘ho un figlio, che, se non lo avessi, mi stimerei più felice di quello che sono, e non perché egli sia cattivo, ma perché non è buono tanto quanto vorrei. Potrà avere un diciotto anni; sei è stato agli studi a Salamanca, dove ha imparato le lingue latina e greca, e quando io volli che passasse a studiare altre discipline, lo trovai così trasportato per quella della poesia (se pur si può chiamare disciplina), che non è possibile fargli affrontare quella delle leggi che io desidererei studiasse, e neanche la regina di tutte, cioè, la teologia....




Io vorrei ch'egli fosse il lustro della sua stirpe, poiché viviamo in un'età in cui i nostri re premiano altamente le virtuose e buone lettere; ché lettere senza virtù sono perle nel letamaio. Passa tutto il giorno in stabilire se Omero disse bene o no nel tal verso dell'Iliade, se Marziale sia o no scollacciato nel tale epigramma, se i tali e tali versi di Virgilio si debbano intendere in un modo o in un altro. Insomma, tutto il suo conversare è con i libri dei poeti che ho citato, nonché con quelli di Orazio, di Persio, di Giovenale e di Tibullo; ché dei moderni in volgare non fa molto conto. Pure, con tutta l'avversione che dimostra per la poesia in volgare, ora il suo pensiero è tutto assorto a comporre una su quattro versi che gli hanno mandato da Salamanca, credo per una gara letteraria’...




‘A tutto ciò’ rispose don Chisciotte: ‘I figli, signore, sono parte delle viscere dei loro genitori; si debbono quindi amare, buoni o cattivi che siano, come si ama l'anima che ci dà vita. Ai genitori tocca avviarli fin da piccoli per la via della virtù, della buona educazione e dei retti e cristiani costumi, affinché quando saranno grandi possano essere il bastone della loro vecchiaia e il vanto dei lor propri discendenti. Quello di forzarli ad attendere allo studio di questa o di quella disciplina, penso che non sia ben fatto, per quanto non sarà di danno cercare di persuaderveli. Quando poi non si deve studiare perché non si tratta di pane lucrando, essendo lo studente così fortunato da avergli dato il cielo chi glielo possa provvedere, io sarei d'opinione che gli si lasciasse seguire quella disciplina a cui più si vedrà inclinato; e la Poesia, sebbene sia più di diletto che di vantaggio, non è tuttavia di quelle che sogliono tornare a disdoro di chi la possiede. La Poesia, signor nobiluomo, secondo me, è come una gentile fanciulla, giovinetta di sovrana bellezza, di cui han cura di accrescere il pregio, di renderla più leggiadra e adorna molte altre fanciulle, che sarebbero tutte le altre discipline, ed ella si deve giovare di tutte, e a tutte da lei deve derivare onore. 




Ma siffatta fanciulla non vuol essere già brancicata né trascinata per le vie né esposta in pubblico sulle cantonate delle piazze e agli angoli dei palazzi. Ell'è fatta di un metallo di tale virtù che chi lo sa trattare lo cambierà in oro purissimo d'inestimabile valore. Colui che la possiede deve tenerla a segno, non lasciandola trascendere a licenziose satire e malvagi sonetti; non dev'essere, in nessun modo, messa in vendita, se già non fossero poemi eroici, commoventi tragedie o commedie gaie e ben congegnate; non si deve lasciar toccare né dai buffoni né dal volgo ignorante, incapace di conoscere e valutare i tesori che ella racchiude in sé. Né crediate, signore, che io qui chiami volgo solamente la gente plebea ed umile, perché chiunque sia ignorante, sia magari signore e principe, può e dev'essere annoverato tra il volgo. Cosicché chi tratterà e possederà la Poesia avendo i requisiti che ho detto, sarà rinomato e onorato in tutte le nazioni civili del mondo.




Dico pure che il poeta per istinto il quale si aiuti con l'arte, diverrà ancora migliore e sopravanzerà il poeta che vorrà essere tale solamente perché conosce l'arte della poesia: la ragione è che l'arte non è al di sopra della natura, sì la fa più perfetta; la natura, quindi, accoppiata con l'arte e l'arte con la natura, produrranno il poeta perfettissimo.....
Per concludere, dunque, il mio ragionamento, signor nobiluomo, lasciate che vostro figlio segua la via per la quale lo chiama la sua stella; ché, essendo egli tanto studioso  come credo debba essere ed avendo già salito con buon successo il primo gradino del sapere, vale a dire quello delle lingue, con l'aiuto di queste raggiungerà la vetta delle lettere umane le quali stan così bene in un cavaliere che vive di rendita e gli conferiscono tanto adornamento e dignità e tanto lo fanno insigne quanto la mitra i vescovi e le guarnacche i giureconsulti. Rimproveri vossignoria il figlio se avesse a comporre satire che intacchino la onorabilità del prossimo, ne lo punisca e gliele stracci; ma se invece componesse sermoni al modo d'Orazio, a riprensione dei vizi in generale, come questi fece con tanta eleganza, gliene dia lode, perché è lecito al poeta scrivere contro l'invidia e sferzare nei versi gl'invidiosi al pari che gli altri vizi, purché non additi nessuno. Invece ci son dei poeti che, pur di pungere malignamente, si esporrebbero magari al rischio di essere esiliati nelle isole del Ponto.......




(e signor mio in questo mi lodo e distinguo… ed aggiungo… in quanto pur Infinito  ‘dedica e stampa’ ho maturato come un frutto mal volentieri donato a chi del tomo ne vuol far censura: regolare l’idea nell’ortodossia della vita e avversare la vera Natura nel losco recinto al confino del ‘libero arbitrio’… così mi intenda in quel che taccio e non dico nel velato motivo giacché la censura ci scruta ed osserva materiale sembianza che poco e nulla intende della Poesia e con essa dell’intiera Natura… quanto il mostro che verrà a dettare futura novella e paura come futuro di una’antica ed odierna costante tortura… a comporre nuovo Dialogo nella differenza /fra chi vivo si pensa e dispensa/ ma morto che cammina armato di impropria ed infelice natura/ e apparente morta natura in nuova linfa celebrare le infinite gesta di chi il Principio della vita/…).....




Se il poeta sarà di costumi onesti, onesto sarà anche nei suoi versi; la penna è la lingua dell'anima; quali che abbiano ad essere i concetti che nell'anima s'ingenerino, tale sarà ciò ch'egli scriverà. E quando re e principi veggono la portentosa disciplina della Poesia in uomini saggi, virtuosi e ponderanti, fanno loro onore, li apprezzano, li innalzano e perfino li coronano delle foglie dell'albero cui non colpisce il fulmine, quasi per indicare che non debbono essere tocchi da alcuno coloro le tempie dei quali sono onorate e adorne di siffatte corone’…


(M. De Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)












mercoledì 24 maggio 2017

MOSTRI & NEBBIE ARTICHE ovvero l'incubo nell'incubo prosegue.... (12)


































Precedenti capitoli:

Mostri e nebbie artiche: la lettera... (11)










Prosegue in:

I 'perfetti' ingranaggi dell'arte (13)

















Trascorsi il giorno successivo vagando per la valle.


Mi fermai vicino alle sorgenti dell’Arveiron, che prendono origine da un ghiacciaio, che, a passo lento, sta avanzando dalla cima delle colline fino a ostruire la valle. I ripidi pendii delle vaste montagne erano di fronte a me; la gelida parete del ghiacciaio mi sovrastava; alcuni pini spaccati erano sparsi intorno e il solenne silenzio di questa magnifica sala delle udienze della natura imperiale era rotto solo dallo scrosciare delle onde o dalla caduta di qualche grosso frammento, dal boato della valanga o dal crepitio, che riecheggiava fra le montagne, del ghiaccio accumulato che, attraverso il silenzioso lavoro di leggi immutabili, ogni tanto si spaccava e si staccava, come se non fosse stato che un giocattolo nelle loro mani.
Questi scenari sublimi e grandiosi mi offrivano la più grande consolazione che potessi ricevere. Mi elevavano da tutte le piccolezze del mio animo, e benché non cacciassero il mio dolore, tuttavia lo mitigavano e lo tenevano calmo. In qualche modo, inoltre, distolsero la mia mente dai pensieri sopra i quali avevo rimuginato durante gli ultimi mesi.
Rientrai la notte per riposare; il mio sonno fu conciliato e aiutato dall’insieme di quelle maestose figure che avevo contemplato durante il giorno. Si radunarono attorno a me; le vette delle montagne, immacolate e innevate, i pinnacoli scintillanti, i boschi di abeti, la gola aspra e selvaggia, e l’aquila che si elevava fra le nubi si raccolsero tutti attorno a me e mi offrirono la pace.

Dove erano fuggiti quando mi svegliai il mattino seguente?

Tutto ciò che aveva incoraggiato l’anima era fuggito col sonno, e una scura melanconia intristiva i miei pensieri. La pioggia cadeva a torrenti, e una fitta nebbia nascondeva le cime delle montagne, così che non vedevo neppure i volti di quei possenti amici. Eppure avrei penetrato il loro velo di nebbia e li avrei cercali fra i loro nascondigli di nuvole.




Cos’erano la pioggia e la tempesta per me?

Il mio mulo fu portato alla porta, e io decisi di salire la cima del Montanvert. Mi ricordai dell’effetto che la vista del terribile e mai fermo ghiacciaio aveva avuto sulla mia mente la prima volta che l’avevo visto. Mi aveva riempito di un’estasi sublime che aveva dato ali alla mia anima e le aveva permesso di librarsi dal mondo oscuro verso la luce e la gioia. La vista del terribile e del maestoso in natura aveva sempre avuto, a dire la verità, l’effetto di elevare la mia mente, facendomi dimenticare le preoccupazioni passeggere della vita.
Decisi di andare senza una guida, perché conoscevo bene il sentiero e la presenza di un’altra persona avrebbe distrutto la solitaria grandezza dello scenario. La salita è ripida, ma il sentiero è interrotto da tornanti brevi e continui, che aiutano a superare la perpendicolarità della montagna. È uno scenario terribilmente desolato. In migliaia di punti sono visibili le tracce della valanga invernale, dove giacciono alberi spezzati e sparsi sul terreno, alcuni completamente distrutti, altri piegati, appoggiati contro le rocce sporgenti della montagna o di traverso sopra altri alberi.
Il sentiero, man mano che si sale, incontra gole innevate, lungo le quali rotolano continuamente dei sassi; una di queste è particolarmente pericolosa, perché il minimo rumore, come ad esempio parlare ad alta voce, produce uno spostamento di aria sufficiente ad attirare la distruzione sopra la testa di colui che ha parlato. Gli abeti non sono alti né lussureggianti, ma sono tetri e aggiungono un’aria di severità allo scenario. Guardai la valle sottostante; una vasta nebbia stava salendo dai fiumi che l’attraversavano, avvolgendo in fitti anelli le montagne di fronte, le cui vette erano nascoste da nuvole uniformi, mentre la pioggia cadeva dal cielo scuro e aumentò la melanconica impressione che ricevevo dagli oggetti attorno a me.

Ahimè!

 Perché l’uomo si vanta di una sensibilità superiore rispetto agli animali?




Questo li rende solo degli esseri con più necessità. Se i nostri impulsi fossero limitati a mangiare, bere, desiderare, saremmo quasi liberi, ma noi siamo mossi da ogni vento che soffia e da una parola casuale o da una scena che quella parola ci trasmette.

  Dormiamo; un sogno ha il potere di avvelenare il sonno.
 Ci alziamo; un pensiero vagante contamina il giorno.
Sentiamo, comprendiamo, o ragioniamo; ridiamo o piangiamo,
accettiamo con amore il dolore, o gettiamo via i nostri affanni:
è lo stesso: perché che sia gioia o sofferenza,
il sentiero della sua partenza è ancora libero.
Il giorno trascorso non è mai quello a venire;
niente può durare, tranne la mutabilità.

Era circa mezzogiorno quando arrivai in cima alla salita. Rimasi per un po’ seduto sulla roccia che dava su quel mare di ghiaccio. Una foschia coprì sia quella che le montagne circostanti. Subito una brezza dissipò le nuvole, e io scesi sul ghiacciaio. La superficie è molto irregolare, si alza come le onde di un mare agitato, scende in basso, frammezzata da crepacci che si inabissano profondamente.
Il campo di ghiaccio è largo circa una lega, ma io impiegai circa due ore per attraversarlo. La montagna di fronte è una nuda roccia perpendicolare rispetto a dove mi trovavo io, Montanvert era esattamente all’opposto, a circa una lega di distanza; e sopra di esso si ergeva il Monte Bianco, nella sua terribile maestosità. Rimasi in una rientranza della roccia a osservare questo meraviglioso e stupendo scenario. Il mare, o piuttosto il vasto fiume di ghiaccio, serpeggiava tra le sue montagne, le cui aeree cime incombevano sui suoi recessi. I loro picchi ghiacciati e scintillanti brillavano alla luce del sole sopra le nuvole. Il mio cuore, prima pieno di dolore, si gonfiò di qualcosa simile alla gioia; esclamai:

‘Spiriti erranti, se davvero errate, e non riposate nei vostri stretti letti, concedetemi questa flebile felicità, o portatemi via, come vostro compagno, dalle gioie della vita’.




Mentre dicevo queste parole, scorsi improvvisamente la figura di un uomo, piuttosto distante, che avanzava verso di me, a velocità sovraumana. Balzava oltre i crepacci di ghiaccio, tra i quali io avevo camminato con prudenza; anche la sua statura, mentre si avvicinava, mi sembrava superiore a quella di un uomo. Fui turbato; una nebbia scese sopra i miei occhi, e mi sentii afferrare dalla debolezza, ma mi ripresi subito grazie al gelido vento delle montagne.

Mi accorsi, mentre la figura si faceva più vicina (visione terribile e odiosa!) che era il miserabile che io avevo creato.

Tremai di rabbia e orrore, decisi di aspettare che si avvicinasse e poi di giungere con lui a un combattimento mortale. Si avvicinò; il suo volto esprimeva un’amara angoscia, unita allo sdegno e alla malvagità, mentre la sua bruttezza spettrale lo rendeva quasi insopportabile alla vista umana. Ma io l’osservai appena; in un primo momento la rabbia e l’odio mi avevano privato della parola, e la ritrovai solo per sommergerlo di parole che esprimevano furioso abominio e disprezzo.




‘Demonio! - esclamai - Osi avvicinarti a me? E non temi che la feroce vendetta del mio braccio si sfoghi sulla tua miserabile testa? Vattene, vile insetto! Anzi, resta, che io possa calpestarti fino a ridurti in polvere! E, oh! Se potessi, con l’estinzione della tua miserabile esistenza, riportare in vita quelle vittime che tu hai assassinato così diabolicamente!’...

‘Aspettavo quest’accoglienza - disse il demone -Tutti gli uomini odiano gli sventurati; e come, dunque, devo essere odiato io che sono più miserabile di ogni altro essere vivente! Anche tu, il mio creatore, detesti e disprezzi me, la tua creatura, alla quale tu sei legato da vincoli dissolubili solo con l’annientamento di uno di noi. Tu vuoi uccidermi. Come osi giocare così con la vita? Fai il tuo dovere verso di me, ed io farò il mio verso di te e il resto dell’umanità. Se accetterai le mie condizioni, io lascerò in pace te e loro; ma se tu rifiuti, nutrirò le fauci della morte finché non sarà sazia del sangue degli amici che ti restano’….

‘Detestabile mostro! Sei un demonio! Le torture dell’inferno sono una vendetta troppo mite per i tuoi crimini. Miserabile diavolo! Mi rimproveri della tua creazione; vieni avanti allora, che io possa estinguere la scintilla che così imprudentemente ti ho dato’.

La mia rabbia era senza limiti; balzai su di lui, spinto da tutti i sentimenti che possono armare un essere contro l’esistenza di un altro.
Mi schivò con facilità e disse…




‘Stai calmo! Ti prego di ascoltarmi prima di dar sfogo al tuo odio sulla mia testa fedele. Non ho sofferto abbastanza, perché tu cerchi di aumentare la mia sventura? La vita, anche se può essere solo un ammasso di angoscia, mi è cara, e la difenderò. Ricorda, tu mi hai fatto più potente di te stesso; la mia altezza è superiore alla tua, le mie articolazioni più agili. Ma io non sarò tentato di oppormi a te. Io sono la tua creatura, e sarò persino mite e docile verso il mio naturale signore e re, se anche tu farai la tua parte, che mi devi. Oh, Frankenstein, non essere giusto verso tutti mentre calpesti me solo, a cui è dovuta la tua giustizia e ancor più la tua clemenza e il tuo affetto. Ricorda che io sono la tua creatura; dovrei essere il tuo Adamo, ma sono piuttosto l’angelo caduto che tu allontani dalla gioia, senza alcun crimine. Ovunque vedo felicità, dalla quale io solo sono irrimediabilmente escluso. Io ero benevolente e buono; la sventura mi ha reso un demonio. Fammi felice, ed io sarò di nuovo virtuoso’.

‘Vattene! Non ti ascolterò. Non ci può essere comunanza fra me e te; noi siamo nemici. Vattene, o lascia che proviamo la nostra forza in un combattimento, in cui uno dovrà cadere’.

‘Come posso commuoverti? Nessuna supplica può spingerti a volgere uno sguardo benevolo sulla tua creatura, che implora la tua bontà la tua compassione? Credimi, Frankenstein, io ero benevolente; la mia anima ardeva di amore e umanità, ma sono solo, miseramente solo? Tu, il mio creatore, mi detesti: che speranza posso raccogliere dai tuoi simili che non mi devono nulla? Essi mi disprezzano e mi odiano. Le montagne deserte e i ghiacciai desolati sono il mio rifugio. Ho vagato qui intorno per molti giorni; le caverne di ghiaccio, che solo io non temo, sono una dimora per me, ed è l’unica che l’uomo mi concede. Io saluto questi pallidi cieli, perché sono più gentili dei tuoi simili. Se la moltitudine dell’umanità sapesse della mia esistenza, farebbe come hai fatto tu, e si armerebbe per distruggermi. Non dovrei dunque odiare coloro che mi detestano? Non raggiungerò mai un accordo con i miei nemici. Io sono un miserabile, e loro condivideranno la mia sventura. Tuttavia è in tuo potere ricompensarmi e liberarli da un male che spetta a te solo rendere così grande, perché non solo tu e la tua famiglia, ma migliaia di altre persone, non siano inghiottite dal vortice della collera. Lasciati muovere a compassione, e non disprezzarmi. Ascolta la mia storia; quando l’avrai ascoltata, abbandonami o commiserami, come giudicherai che meriti, ma ascoltami. Le leggi umane consentono ai colpevoli, per quanto crudeli siano, di parlare in loro difesa prima di essere condannati. Ascoltami, Frankenstein. Tu mi accusi di omicidio, e tuttavia vorresti, con la coscienza tranquilla, distruggere la tua creatura. Oh, sia lodata l’eterna giustizia dell’uomo! Tuttavia, io non ti chiedo di risparmiarmi; ascoltami, e poi. se puoi, se vuoi, distruggi il lavoro delle tue mani’…




‘Perché mi richiami alla memoria - risposi - circostanze alle quali tremo quando vi rifletto, poiché io ne sono stato la miserabile origine e l’autore? Sia maledetto il giorno, aborrito demonio, in cui hai visto la luce! Siano maledette (benché io maledica me stesso) le mani che li hanno formato! Tu mi hai reso infelice oltre ogni dire. Non mi hai lasciato il potere di considerare se sono giusto o no verso di te. Vattene! Libera la mia vista dalla tua detestabile forma’.

‘Così te ne libererò, mio creatore, - disse e mise le sue odiate mani davanti ai miei occhi, che io scostai da me con violenza - così ti tolgo una vista che aborri. Comunque puoi ascoltarmi e concedermi la tua compassione. Ti chiedo questo, in nome delle virtù che possedevo un tempo. Ascolta la mia storia; è lunga e strana, e la temperatura di questo posto non è adatta ai tuoi sensi delicati, vieni nella capanna sulla montagna. Comunque, il sole è ancora alto nei cieli; prima che scenda a nascondersi dietro quei precipizi innevati e a illuminare un altro mondo, tu avrai ascoltato la mia storia e potrai decidere. Dipende da le, che io abbandoni per sempre la compagnia dell’uomo e conduca una vita inoffensiva, o diventi il flagello dei tuoi simili e l’autore della tua rapida rovina’.

Detto questo tracciò la via tra il ghiaccio; io lo seguii. Il mio cuore era colmo, e non gli risposi, ma mentre avanzavo, soppesavo i vari argomenti che aveva usato e infine decisi di ascoltare la sua storia. In parte ero spinto dalla curiosità, e la compassione rafforzò la mia decisione. Fino ad allora lo avevo ritenuto l’assassino di mio fratello e desideravo ardentemente una conferma o una smentita di questa opinione. Per la prima volta, inoltre, sentii quali fossero i doveri di un creatore verso la sua creatura, e che avrei dovuto renderlo felice prima di dolermi per la sua malvagità. Queste motivazioni mi spinsero ad accettare la sua richiesta. Attraversammo dunque il ghiaccio, e salimmo sulla roccia di fronte. L’aria era fredda, e la pioggia ricominciò a scendere; entrammo nella capanna, il demone con aria di esultanza, io con il cuore pesante e lo spirito depresso. Ma acconsentii ad ascoltare, e mi sedetti vicino al fuoco che il mio odiato compagno aveva acceso, così egli cominciò la sua storia….








                                                           LA STORIA



Una settimana fa, ulteriore inattesa conferma….



Il gruppo conservatore americano “Judicial Watch” ha reso pubblico un rapporto ‘top secret’ della Dia (Defense Intelligence Agency), i servizi segreti del Pentagono. Il documento, 7 pagine, datato 12 agosto 2012, espone il solito errore geopolitico di sempre. La Dia prevede e convalida la creazione di uno Stato islamico per sbarazzarsi del presidente siriano Bashar al-Assad, la cui dittatura – oggi sappiamo – ha causato il  massacro di oltre 200.000 vittime nella guerra civile siriana. Ma la nascita di un “principato salafita” che “unifichi l’estremismo jihad tra sunniti in Iraq e in Siria” non impedisce un’altra accurata previsione: “Assad rimarrà al potere”. La scorsa estate Isis ha conquistato Mosul in Iraq, il mese scorso ha preso il controllo anche di Ramadi.
E da tre giorni  la bandiera nera dello Stato Islamico sventola anche nella storica città siriana di Palmyra. Il papello desecretato suscita domande inquietanti.
Uno, diventa lecito mettere in dubbio gli sforzi che ampliano i poteri statali anti-terrorismo, cioè  il monitoraggio di Cia e Nsa  da parte del governo Usa, e dei servizi in Uk e altri paesi alleati (anche in Italia per il Giubileo di ottobre).
Due, l’Occidente combatte contro un nemico comune che però è nato in laboratorio come il mostro di Frankenstein, grazie a maneggi ed alchimie degli stessi suoi creatori per fini geopolitici inconfessabili. Ecco perché non ha senso continuare a fare gli stessi errori  degli ultimi 20 anni, come dice l’ottimo Rand Paul.
(di Luca Ciarrocca)  









                                                                EPILOGO




….Secondo il dottor Darwin e secondo alcuni tedeschi l’evento su cui si fonda questo racconto non è da considerarsi impossibile…

Non voglio si creda che io riponga il più lontano grado di seria fiducia su tale fantasma o per meglio dire ‘mostro’; tuttavia, assumendola come la base di un lavoro di immaginazione non mi sono limitato a tessere insieme una serie di orrori (ed errori) soprannaturali.

In quanto l’evento da cui dipende l’interesse della Storia è privo di effetti di un semplice racconto di spettri o di magia così ho cercato di conservare la verità dei principi elementari della (dubbia natura umana) e chi si imbatte in cotal velato motivo può leggersi anche, ed in ciò per una volta concordiamo, l’ultima enciclica circa la vera Natura che ci circonda… ognuno alla propria Finestra assiso ciò mi sembra più che logico…ed umano destino…









domenica 21 maggio 2017

PIU' O MENO NEGLI STESSI ANNI (in Europa) (2)





































Precedente capitolo:
















Continuando a girellare a questo modo oziosamente mentre la grande nave da crociera in cui riposta con cura ogni vita… affonda nel mare di una strana ed economica… dottrina…

… Si trovò ad aprire a caso la porta del biliardo, dove il tenore italiano giuocava da sé prendendo pose più o meno estetiche colla persona e colle braccia, allo scopo principale di far risaltare i propri polsini agli occhi della sua bella vicina di mensa, seduta sopra un divano fra due giovanotti ai quali leggeva una lettera poi una poesia…
All’entrare dell’alpinista ella s’interruppe di colpo, e uno dei giovanotti, il più alto, una specie di mujik, di scimpanzé dalle mani ricoperte di un vello nero e coi lunghi capelli corvini che si riunivano alla barba incolta, si alzò in piedi e fece due passi così decisamente verso il sopraggiunto, e squadrandolo da capo a piedi in modo tale che questi ritenne opportuno, senza tanto chiedere spiegazioni, fare un mezzo giro di tacchi con infinita prudenza e dignità ed altrettanta sveltezza…

‘E dicono che sono tanto socievoli bel Nord! Non mi sembra davvero’…




…diss’egli ad alta voce e sbatacchiando la porta per dimostrare a quel selvaggio ch’egli non aveva paura di lui…
Non gli restava che il salone come ultimo rifugio…
Mondo piccino!
Una stanza mortuaria, amici miei!
La stanza mortuaria del Gran San Bernardo, dove i monaci espongono i cadaveri degli sciagurati trovati sulle nevi negli atteggiamenti più diversi che abbi aloro fatto prendere la morte per assideramento…
Tale era il salone del Rigi Kulm!
Le signore, immobili, livide, intirizzite, disposte a gruppi sui divani circolari; alcune isolate, rincantucciate qua e là.
Le misses, stecchite sotto la luce sinistra delle lampade, stringendo ancora il libro, la rivista, il ricamo che avevano in mano nell’istante del loro assideramento. E tra esse le otto figliole del generale, le piccole peruviane dalle faccione color zafferano, i lineamenti alterati e i fiocchi multicolori dei vestiti che scoppiettavano sinistramente nella monotonia del verde bile delle livide inglesi. Povere creaturine, venute dai paesi del sole, dove ognuno se le immagina felici, altelenandosi arrampicate sopra i grandi palmizi del cocco e delle banane, più di tutte le altre vittime facevano stringere il cuore in quello stato di ferale silenzio e di congelamento.




Nel fondo della sala era il vecchio diplomatico austro ungherese, colle manine nei mezzi guanti, irrigidite sulla tastiera del pianoforte che rifletteva sul suo viso chiazze violacee e gialle. Venutegli a mancare le forze, e con le forze la memoria, smarritosi in una polca di sua composizione che ricominciava senza fine nel medesimo motivo, e non giungendo più a trovarne il finale, il disgraziato si era addormentato suonando, e con lui tutte le signore del Rigi che parevano cullare nel sonno certi romantici ricciolini o certe cuffiette di pizzi simili a pasticcini dolci, a cui le dame inglesi sono affezionatissime e che fanno parte indispensabile del loro bagaglio.
Il sopraggiungere dall’alpinista non bastò a ridestare, ma, penetrato egli stesso da quell’atmosfera di ghiaccio, si gettò sopra un divano, scoraggiatissimo, quando degli accordi forti e spensierati scoppiarono nella sala d’ingresso, dove erano apparsi tre suonatori girovaghi, dall’aspetto sciagurato, arpa, violino e flauto, di quelli che girano a piedi per gli alberghi svizzeri con certe rendingote che scendono fino ai garetti.
Dalla prima nota il nostro uomo balza in piedi elettrizzato gridando:

‘Bene! Bravo! Sotto! Forza! Musica, per Dio!’,




…grida dandosi a correre per tutte le sale e spalancando le porte, afferrando bottiglie di champagne che porta ai musicanti per dar loro coraggio e metterli in allegria, ubriacandosi egli stesso senza bisogno di bere, con quella musica che gli rende la vita.
Si mette ad imitare il flauto, l’arpa, il violino, imita colle mani le nacchere sopra la propria testa tutto divincolandosi nel corpo alla bella usanza spagnuola, sgrana e mulina gli occhi, balla, salta e grida:

‘Ohilà! Sotto ragazzi!’…

…col più immenso stupore di tutti, accorsi e accorrenti esterrefatti a tanto scandalo e scompiglio. Finché all’attacco di un valzer di Strauss, che i musicanti già eccitati dallo champagne strimpellano con strepito da tzigani autentici, l’alpinista, scorta all’ingresso della sala la moglie del professore Schwanthaler, piccola viennese rotondetta dagli occhi furbi, rimasti giovani sotto i capelli grigi e molto incipriati, corre verso di lei e, acciuffatala per la vita, la trascina nel mezzzo del salone gridando:

‘Forza! Sotto, ragazzi! Valzer, per Dio!’.




Il ghiaccio era rotto, piano piano l’enorme ammasso di quel funebre albergo incomincia a disgelare, si muove, circola, turbina trascinato dalla musica…
Si balla nell’ingresso, nel salone, intorno alla solenne tavola verde della biblioteca…
Quel diavolo d’uomo era riuscito a rimettere in corpo la vita a tutti quei cadaveri…
Ma lui oramai non balla più!
Dopo qualche giro sbuffa come una vecchia locomotiva, non ne può più; incalza i musicisti, sprona i deboli e gl’incerti, accoppia i ballerini, getta il professore universitario fra le braccia di una vecchia inglese, e fra quelle del ponderoso storico accademico di Francia la più acrobatica delle peruviane.
Non è possibile né umano resistere!
Si sprigionano dal terribile alpinista effluvi che alleggeriscono e sollevano.

‘Forza! Bravi! Sotto, ragazzi!’.




Non più disprezzo né odio né indifferenza, tutto scomparso; né riso né susine, ma valzer di Vienna e polche senza interruzione…
…A questo punto una svizzerina gli si avvicina rossa fiammante del suo valzer interrotto, e gli presenta una penna col registro dell’albergo.

‘Il signore vuole essere tanto gentile di scrivere il proprio nome?’…

Prese la penna con la mano indifferente, e sotto i nomi degli scienziati, diplomatici e storici illustri scrisse il proprio che li eclissò di colpo; e come se nulla fosse accaduto, salì verso la propria camera senza neppure voltarsi per vedere quale fosse l’effetto, di cui era arcisicuro.
La bella svizzerina guardò sul registro:


TARTARINO DI TARASCONA…




…Allorchè questo nome di Tarascona squilla come una fanfara sulla linea Parigi-Lione-Marsiglia, nell’azzurro limpido e palpitante del bel cielo di Provenza, le teste dei curiosi si sporgono da tutti i finestrini del direttissimo, e da un vagone all’altro i viaggiatori si dicono:

‘Tarascona! Tarascona! Ecco Tarascona! Vediamo un po’ Tarascona!’…

Quello che ne può vedere passando a questo modo in fretta, non presenta in fondo nulla di straordinario: una cittadina pulita e tranquilla, delle torri, dei tetti, un ponte sul Rodano.
Ma il sole tarasconese con i suoi prodigiosi effetti di luce così fecondi di sorprese, di creazioni e di abbagli, di bizzarrie deliranti in questo popolo giocondo, grande come un cece, ma che illumina e riassume tanto bene la psicologia di tutto il Mezzogiorno della Francia – vivace, rumoroso, ciarliero, fanfarone, ingenuo e comico, impressionabile: questo è quello che i curiosi del direttissimo cercano al loro passaggio e non possono vedere, e che forma la grande popolarità del paese.
In pagine indimenticabili che la modestia impedisce di ricordare con maggior chiarezza, lo storico Tarascona ha cercato già di descrivere i giorni felici della piccola città, fra le sale del circolo dove si cantano romanze comiche e sentimentali, ciascuno la propria, e in mancanza di selvaggina si organizzano originali cacce ai berretti.




Scoppiata la guerra, e con essa sopraggiunti i tempi difficili, egli ha narrato di Tarascona e della sua eroica difesa; circondata di torpedini, il circolo e il teatro inspugnabili, gli abitanti inquadrati in compagnie di volontari con uniformi fregiate di teschi sui femori incrociati, e grande abbondanza di sciabole, accette, revolver americani, i tarasconesi giungevano a farsi paura gli uni con gli altri, e a non osare più di fermarsi per la via.
Molti anni sono trascorsi dopo la guerra, molti almanacchi sono andati a finire nel fuoco, ma Tarascona non ha dimenticato i suoi giorni eroici, e rinunciando ai futili passatempi di allora non ha nutrito più che un’aspirazione: farsi sangue e muscoli a profitto delle future rivincite. Società di tiro a segno e di ginnastica, in uniforme e fornite tutte di musica e bandiera; sale d’armi, di pugilato, bastone e scherma; podismo, lotta a mano aperta e a mano serrata, fra persone della migliore società; queste nuove istituzioni hanno via via rimpiazzato le vecchie cacce ai berretti e le platoniche discussioni nella bottega dell’armaiolo Costecalde.




Infine il circolo, il vecchio circolo, rinnegando i suoi antichi giuochi sedentari, s’è trasformato in Club Alpino sotto il patronato del famosissimo Alpine Club di Londra, che ha portato fino nelle Indie il nome glorioso dei suoi esploratori. Con questa differenza; che i tarasconesi, invece di espatriare alla ricerca di cime straniere da conquistare, hanno preferito quelle che avevano lì nella loro patria amatissima, alle porte della loro città, a portata di mano, o, per dire più esattamente di piede.
Le Alpi di Tarascona ogni mattina pulite da un esercito di operatori ecologici dei quali abbiam perso conto e numero… Certo non proprio le Alpissime, di quelle cioè che non si finisce mai di andar su, e col pericolo sempre di tornar giù tutto in una volta, ma le alpicelle, le alpette… le alpine!
E’ un vero piacere ogni domenica mattina vedere gli eretici tarasconesi in ghette o calzettoni, la piccozza nella mano sicura, il sacco sulle spalle, partire col trombettiere in testa (il maresciallo della zona che dirige l’intera orchestra un tantino suonato anche lui dicono voci di popolo…), che poi il ‘Forum’ giornale locale, descrive con sfoggio di particolari e lusso di vocaboli:





abissi

voragini crepacci

gole

cime

non meno di strani tagliagole

…da lì transitati o comandati

Ancora non chiaro al traForum di stato!


(A. Daudet, Tartarino sulle Alpi)