giuliano

sabato 11 luglio 2020

GIULIANO L'ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA (brevi epistole) (8)





















Precedenti capitoli:

Con Giuliana (Facciatonda)  &  Rinconetto

Prosegue con...:

Il male del nostro Secolo (9)














Costantinopoli, gennaio-maggio 362

Perché esiterei a salutare il nobile Proeresio, uomo che riversa torrenti di eloquenza, come i fiumi riversano le loro correnti nelle pianure, emulo di Pericle nell’oratoria, escluso il fatto di turbare e ‘gettare lo scompiglio in Grecia’?

Non bisogna meravigliarsi se io imito verso di te la brevità laconica: infatti, a voi sapienti conviene fare discorsi lunghi e di carattere elevato, a noi invece sufficiente rivolgervi anche solo poche parole.

Sappi, dunque, che numerosi impegni mi assalgono da ogni parte. Quanto ai motivi della mia calata, se vuoi scrivere un’opera storica, ti farò conoscere ogni particolare nel modo più esatto, dandoti le Lettere qui presenti e frammenti delle stesse affinché meglio tu possa comprendere.




Se invece hai deciso di perseverare fino alla vecchiaia ostinandoti, pur l’apparenza, a non accettare, come del resto faccio io, talune sottigliezze eretiche conformi alla comune tolleranza, ti informo e in qual tempo aggiorno, avendo cura di accettare la Divinità di quanto preghiamo. La Divinità della Natura intera specchio del comune Dio adorato come studiato non men che pregato; se invece preferisci declamazioni oratorie, o ancor peggio, ‘bolle e proclami’, allora  forse non mi criticherai per il dovuto silenzio che in tal proposito ripongo.  




Costantinopoli, tarda Primavera 362


Il proverbio dice:

‘non è una dichiarazione di guerra’;

io aggiungerei una citazione della commedia:

‘o tu  che annunci parole d’oro’.

Mi ricordo infatti superata la primavera, in estate avanzata, fors’anche in età giovane se pur avanzata, rimasi sventurato e perso lungo una spiaggia. Non un riparo, neppure un amico, una spiaggia ed un ampio mare, mi ricordo che mi venni in aiuto ed ebbi momentaneo alloggio prima di imbarcarmi verso la perduta patria. L’amata Grecia.




Ed allora, rimembrando tale episodio, su, dunque, affrettati a venire verso la terra donde ti scrivo.

Tu giungerai benvenuto amico presso un amico!

La comune e continua costante occupazione negli affari pubblici sembra insopportabile a coloro che vi si dedicano non occasionalmente. Ma coloro che condividono le mie attività sono uomini abili quanto onesti, esperti e tutti idonei a qualsiasi compito.

I nostri reciproci rapporti devono intendersi privi della classica falsità dell’ipocrisia cortigiana o ancor peggio ciarliera di altre commedie che mi astengo di rinnovare, secondo cui quelli che ci lodano odiano di un odio così grande, quanto non provano neppure per il peggiore dei nemici.




Noi invece, che a qualcosa se pur un tempo divisi ma ora dalla comune Divinità uniti conformi al Sacro celebrato e difeso, intendiamo e per questo crediamo e per sempre crederemo ancora, se pur quando occorre rimproverandoci vicendevolmente con giusta sincerità, ci rispettiamo ed amiamo, o almeno dovremmo, come Fratelli non meno di grandi amici.

Forse ti ho annoiato e stordito con la presente, forse pecco di eccesso di vanità, sappi che non è vero, sono sempre austero come il Giuliano di un tempo, però sono convenuto ad una più profonda Riforma che come ben vedo, anche te nell’ambito della Diocesi stai maturando.

Ebbene che i nostri reciproci comuni esempi come la presente Epistola siano di buon esempio per gli stessi medesimi Principi per cui lottiamo in nome di quella Divinità e Sacralità persa dimessa ed abdicata ad altro.




Sai bene ciò che intendo e velatamente taccio!

I tempi mio caro amico sono irrimediabilmente cambiati eppure uguali, e non sufficiente un Tempio una Altare una Chiesa per rinsaldare il Tempo perso, tutto in rovina, mi astengo dagli antichi inutili sacrifici giacché non oso nel rispetto della Vita (e la Natura che al meglio la compone o dovrebbe), la quale sembrerebbe rispondere nella dovuta Rima.

Non proseguo per questo difficile Sentiero, peccherei di nuovo di profonda eretica riflessione filosofica…




Costantinopoli, maggio 362

Che la Scienza medica sia salvatrice per gli uomini, non meno di quella Sacra, anzi unite possano compiere opera e miracolo in merito alla Vita, l’una abbisogna dell’altra, senza, come sopra detto, annullarsi a vicenda, ma correre l’una in aiuto dell’altra in nome di ugual medesima Scienza.

Due Scienze se pur apparentemente ed in un remoto Tempo divise, ora unite, nel formare l’uomo nella Sacra Dottrina della Vita.

Ciò che scrivo in questa breve lettera lo attesta l’evidenza del bisogno, oltre i tristi fatti che ci circondano, e di cui, nessuno escluso, siamo testimoni della Storia, dacché i discepoli dei Filosofi giustamente proclamano che anch’essa è discesa dal cielo; per mezzo suo, infatti, sono riparate le debolezze della nostra natura e delle malattie, oltre della carne anche dello Spirito, che vi si aggiungono.

Quindi secondo il concetto di Giustizia terrena e Divina che mi è concesso, e legiferando in modo consono agli Imperatori precedenti, per la nostra clemenza disponiamo che voi viviate per il resto del tempo esenti dai gravami delle funzioni curiali.

Affinché la Salute possa prosperare sia nell’Anima quanto nello Spirito, quanto nelle carni ulcerate ed appestate.




Ancira, luglio 362 (Giuliano scrive a Giuliano)

Se io tengo in poco conto le tue Lettere, ‘allora veramente gli stessi dèi e Dio mi hanno tolto il senno’!

Quale pregio, infatti, non è presente in te?

L’affetto, la fedeltà, l’onestà, la sincerità, prima di tutto, la saggezza, e mai sia detta per calunnia di qualcuno, follia. Tutto ciò senza cui il resto non ha valore, la saggezza dimostrata in tutti i suoi aspetti che sono la perspicacia, l’intelligenza ed il buon esempio quanto il buon senso che lo accompagna.




Se non ti rispondo, anche ciò mi rimproverasti, è perché non ho tempo, sappi che a lungo ho dovuto corrispondere di nuovo con Fotino, e siamo convenuti ad un errore comune, e se tutto ciò ti parrà paradossale, ho anche ridotto le mie letture di filosofia, forse ho solo cercato al meglio di applicarla o adottarla come stile di vita. Purtroppo le amarezze in merito a questo vasto oceano di folla e materia, non certo la nostra disprezzata materia, sono uguali, non meno degli intrighi ed affanni. La regalità che mi induce a queste amare considerazioni mi pone al cospetto dell’esempio della Divinità il cui comune affanno della Vita è tramontato e poi risorto al Golgota.

Dall’Oceano di Platone, e prima di lui da quando partiti ed imbarcati nell’eterno Viaggio della Vita con chi al meglio comprende il corretto uso della parola: come nata ed evoluta, specchio e riflesso di un comune Dio pregato e adorato, frammentato in molti Dèi ed ora nell’Uno ricomposto qual Terra tormentata e sacrificata al Golgota della materia, approdiamo (così come fu per Odisseo) dalla deriva alla spiaggia del Continente del solo Dio difeso se pur quotidianamente vilipeso e martoriato.




Quali eterni Stranieri in Terra!

Riguardo all’affare di Giuliana ed altri suoi consimili, credo di non doverti scrivere nulla; solo ti esorto a questo qual precetto: abbandona ogni sdegno e affida ogni cosa alla giustizia, giacché quella da cui ogni Giudizio sull’uomo nominata Divina sembra stia compiendo l’invisibile Superiore percorso. Cerca nel credere nel Diritto violato. Non nego che le cose che ti ha scritto sono spiacevoli calunniose, e colme di ogni genere di arroganza e di superbia; ma bisogna sopportarle, non saremo né Filosofi né buoni credenti.

E’  proprio dell’uomo virtuoso e magnanimo lasciar parlare male di sé e non parlar male.



Come infatti i proiettili, lanciati contro muri solidi e forti, non vi aderiscono, non li scalfiscono, né vi penetrano, ma rimbalzano con più veemenza su coloro che li hanno lanciati e scagliati a piene mani come dardi infuocati, dagli antichi roghi non nasce e nascerà che brace per chi intende parlare la dismessa dottrina del Fuoco; noi che proveniamo da un Oceano di Saggezza molto più antica, se accendiamo un fuoco per pregare il comune Dio, neppure sacrificare l’inutile agnello nel Sacrificio in nome di un mito superato dal comune e superiore intendimento della Storia.

E così ogni maldicenza, ogni calunnia e ogni ingiusta insolenza, gettate contro l’uomo virtuoso, non lo sfiorano, ma si ritorceranno contro chi le ha lanciate.

Io ti faccio ed imploro questa raccomandazione, il resto sarà giudizio della Storia!

Riguardo alle mie Lettere, che Giuliano sostiene di aver ricevuto da me ed hai rese pubbliche, mi pare che sarebbe ridicolo portarle in tribunale, giacché il superiore intento Divino in merito ha provveduto legiferare in tal senso.




Gli Dèi e Dio ci sono favorevoli, ed io chiamo a testimoni tutti gli Elementi in nome e per conto degli dèi detti, non ho mai scritto né a te né ad alcun’altra persona nulla che io voglia non sia resa pubblica davanti a tutti. Infatti quale insolenza, quale oltraggio pensi abbia profanato nel comune senso ed in nome della Filosofia che ci unisce come una sol Dottrina, quale ingiuria, quale maldicenza, quale parola oscena ho mai scritto nelle mie lettere?

Giacché Giuliano con la presente Lettera, se pur in Ragione di asprezza verso qualcuno, pur offrendosi l’occasione di lanciare come dal carro di Bacco calunnie come quelle di Giuliana contro Giuliano, ho parlato in modo più dignitoso e moderato che se si affrontasse un argomento Sacro.




E se la Lettera rileva la riprova del nostro reciproco affetto, io avrei voluto tenerla nascosta e dissimularla?

Perché mai?

Mi sono testimoni tutti gli Dèi del Tempio comprese tutte le dee, Vescovi Cardinali e tutte le monache d’ogni convento, che io non avrei provato risentimento neppure se qualcuno avesse reso pubbliche le Lettere che io scrissi a mia moglie, tanto erano piene di riservatezza.  

Giuliana è malvagia?

Allontanati in modo netto da lei!

Se invece in seguito si dimostrerà retta e moderata, anche se ha agito male nei nostri confronti, sappi perdonarla. Infatti bisogna rispettare coloro che sono onesti nella vita pubblica, anche se in privato nei nostri confronti sono scorretti.

Invece bisogna tenere in pugno coloro che sono disonesti negli affari pubblici, anche se sono ai più graditi talvolta o troppo spesso rappresentando la stessa Legge immancabilmente violata e così impunemente corrotta da una presunta immunità in tal merito.




Io ritengo che non si debbano odiare né evitare, ma bisogna disporre di affidati superiori presidi affinché non facciano del male, oltre che a se medesimi anche al prossimo; digiuno delle apparenze con le quali questi soggetti spesso ingannano gli altri, anche se con uguali medesime apparenze non ce ne accorgiamo o facciamo finta di niente. Se fosse difficile controllarli, giacché il noto proverbio: “chi controlla il controllore”, ed allora non ci si serva di loro in nessun caso eccetto che monitorare il pregiudizio che all’intero Stato deriva rapportato alle inevitabili disastrose conseguenze circa la socialità di cui codesti personaggi ne incarnano un superiore ed inferiore aspetto di presunta prevenzione arrecando medesimo o peggior pericolo della stessa tutela adottata, non dissimile da chi presumibilmente li accomuna per quanto ed in merito di quanto violato.

Da una forte miopia passeremmo alla completa cecità!

Tutta la Natura della Legge ne uscirebbe ferita e vilipesa, compreso il male agli altri per ciò che ne deriva con una conseguente perdita, non più di potere e/o reciproca stima dell’intera struttura dello Stato, ma con lui del Diritto nella applicazione ed uguaglianza in cui l’intero edificio della Repubblica si distingue o dovrebbe.

(Giuliano, Lettere da Costantinopoli)  









  

mercoledì 8 luglio 2020

& CIARLATANI (5)




















Precedenti capitoli divisi e/o condivisi fra...:

Eretici e... (4/1)

Prosegue con...:

Giuliana 'Facciatonda' (6)

& Rincoletto fedele servo del suo padrone (7)















…Non ho mai potuto allontanarmi da alcuno a causa di una differenza di opinioni, né prendermela col suo giudizio per non essere d’accordo con me in una cosa da cui alcuni giorni più tardi avrei forse dissentito io stesso. Non ho genio alle dispute di religione, e ho spesso ritenuto saggio declinarle, specie se in posizione di svantaggio, o quando la causa della verità poteva soffrirne della debolezza del mio patrocinio; là dove desideriamo venire informati, è bene discutere con uomini al di sopra di noi; ma per rafforzare e fissare le nostre opinioni, la miglior cosa è discutere con giudizi al di sotto del nostro, sì che le frequenti spoglie e le vittorie sulle loro ragioni possano fondare in noi stessi una stima e una rafforzata opinione delle nostre.

…Non ogni uomo è un degno campione del vero, e neppure atto a raccogliere il guanto di sfida nella causa della verità: molti, per ignoranza di queste massime e uno sconsiderato zelo di ciò che è vero, hanno attaccato troppo temerariamente le truppe dell’errore, e rimangono come trofei ai nemici della verità.




Un uomo può essere con lo stesso diritto in possesso della Verità così come di una città, e trovarsi tuttavia costretto ad arrendersi; è quindi di gran lunga preferibile goderne in pace, anziché cimentarla in battaglia. Se sorgono pertanto dubbi sul mio cammino, io li dimentico senz’altro, o li rimando per lo meno a quando il mio giudizio meglio fecondato e la ragione più matura siano in grado di risolverli; poiché mi rendo conto che la stessa ragione di un uomo è il suo miglior Edipo e, con una tregua ragionevole, trova il mezzo di sciogliere quei vincoli con cui le sottigliezze dell’errore hanno incatenato i più arrendevoli e deboli fra i nostri giudizi.




In Filosofia, dove la verità appare bifronte, non vi è uomo più paradossale di me; ma in teologia amo percorrere la strada maestra, e con fede umile, benché non cieca ed assoluta, mi piace seguire la gran ruota della Chiesa, con la quale io procedo, senza riserve di speciali poli o movimenti originati dall’epiciclo del mio cervello; in tal modo non lascio adito a errori, scismi o eresie di cui, presentemente, spero di non offendere la verità se dico di non avere né macchia né tintura, devo confessare che i miei studi più giovanili sono sati contaminati da due o tre di queste, non generate dai secoli più avanzati, ma vecchie e in disuso, di quelle che mai sarebbero potute resuscitare, se non ad opera di menti bizzarre e indipendenti come la mia; poiché le eresie non periscono certo con i loro autori, ma come il fiume Aretusa, benché perdano la loro corrente in un luogo, esse risorgeranno in un altro: un concilio generale non è in grado di estirpare una sola eresia; questa può venir cancellata per il momento, ma la rivoluzione del Tempo e gli identici aspetti del cielo la riporteranno in vita, ed essa prospererà allora, finché non venga nuovamente condannata; poiché, come se esistesse una metempsicosi e l’Anima di un uomo passasse in un altro, le opinioni dopo certi cicli trovano indubbiamente e uomini e spiriti simili a quelli che per primi le generarono…




Non occorre attendere l’anno di Platone per rivedere noi stessi; ogni uomo non è soltanto se stesso: ci sono stati molti Diogeni e altrettanti Timoni, benché solo pochi di quel nome; le vite degli uomini vengono rivissute, il mondo è ora com’era nelle età trascorse, non ci fu alcuno allora senza che ci sia stato da quel tempo altri, che egli stia alla pari, e che in un certo qual modo è il suo rivissuto…

Non sono mai riuscito a saziarmi della contemplazione delle meraviglie appartenenti alla Natura: il flusso ed il deflusso del mare, l’ingrossarsi del Nilo, il volgersi dell’ago verso nord, e mi sono perciò studiato di trovare il loro corrispondente e parallelo nelle più evidenti e trascurate opere della Natura; e questo quanto posso fare, senza spingermi oltre, osservando la cosmografia del mio stesso io; portiamo dentro di noi quelle meraviglie che cerchiamo al di fuori: vi è tutto un Continente con i suoi prodigi: noi siamo quell’audace ed avventurosa opera della Natura, da cui chi la studia saggiamente apprende quello per cui altri si affaticano esaminando le diverse parti di un trattato e un volume senza fine.




Sono due così i libri da cui ricavo la mia teologia; accanto a quello scritto da Dio, un altro della sua serva Natura, che è il manoscritto pubblico e universale aperto agli occhi di tutti; coloro che non lo videro mai nell’uno, l’hanno scoperto nell’altro: fu questa la Sacra Scrittura e la teologia dei pagani; il corso naturale del Sole portò costoro a tributargli una maggior ammirazione di quanta la sua posizione soprannaturale ne ottenne dai figli di Israele; gli effetti ordinari della Natura destarono un maggiore entusiasmo negli uni, che tutti i suoi miracoli negli altri; indubbiamente i pagani erano più capaci di leggere quelle mistiche lettere, di quanto lo siano i cristiani, che vogliono uno sguardo attento a questi comuni geroglifici, e non ci degniamo di succhiare la teologia dai fiori della Natura.

Né io dimentico a tal punto Dio, da adorare il nome della Natura; che non è da me definita, con le Scuole, come il principio del moto e del riposo, ma come quella linea dritta e regolare, quel corso determinato e costante con cui la sapienza di Dio ha disposto le azioni delle sue creature, a seconda delle loro diverse specie.




…Io ritengo che vi sia una bellezza generale in tutte le opere di Dio, e che non esista quindi deformità nelle creature di qualsiasi genere e specie; e non esiste, quindi, deformità se non nella mostruosità, in cui pur nondimeno esiste una specie di bellezza, escogitando la Natura con tanta ingegnosità quelle parti irregolari, da renderle talvolta più notevoli della struttura principale. Per esprimermi ancora più esattamente, non vi mai nulla di brutto e deforme, eccettuato il caos; in cui pur tuttavia, a voler esser precisi, non ci fu deformità, non esistendo allora la forma e non essendo stato ancora impregnato dalla voce di Dio.

Ora, la Natura, non è in dissidio con l’arte, né l’arte con la Natura, essendo entrambe al servizio della sua provvidenza. L’arte è il perfezionamento della Natura: se il mondo fosse ora come lo era il sesto giorno, ci sarebbe ancora un caos: la Natura ha fatto un mondo e l’arte ne ha fatto un altro. In breve, le cose sono tutte artificiali, poiché la Natura è l’arte di Dio.




Più amo e prego la Natura e più di concerto scopro e ora vi confesso che nelle Scritture ci sono storie che certamente superano le favole dei poeti, e che ad un lettore cavilloso fanno lo stesso effetto di Gargantua o di Bevis: che si esaminino, infatti, le leggende tutte dei tempi passati e i concetti favolosi di questi presenti, e sarà difficile trovarne uno che meriti di far da scudiere a Sansone; pure tutto questo è facilmente possibile, se concepiamo un concorso divino o un influsso che semplicemente derivi dal mignolo dell’Onnipotente.

E’ impossibile che alla debolezza della nostra comprensione non debbano manifestarsi irregolarità, contraddizioni e antinomie, nel discorrere dell’uomo o nell’infallibile voce di Dio: potrei io stesso mostrare un elenco di dubbi che, a quanto mi risulta, non sono stati finora immaginati o sollevati da alcuno, e che non sono risolti al loro primo presentarsi, non essendo quesiti stravaganti e nemmeno obiezioni campate in aria: poiché non posso sentir parlare di atomi in teologia. Posso leggere la storia della colomba che fu mandata fuori dall’arca e mai ritornò, senza tuttavia domandarmi come ritrovasse il compagno che non l’aveva seguita; che Lazzaro fu resuscitato dalla tomba, senza tuttavia chiedere dove se ne stesse in attesa la sua anima nel frattempo; o senza sollevare una questione giuridica per stabilire se il suo erede potesse legittimamente trattenere l’eredità assegnategli dalla sua morte, e se egli, benché richiamato in vita, non potesse più accampare alcun diritto a quanto gli era appartenuto.




Non discuto la possibilità che Eva fosse ricavata dal lato sinistro di Adamo, poiché non so ancora con certezza quale sia il lato destro dell’uomo, o se esista una tale distinzione nella Natura; credo che sia stata fatta dalla costola di Adamo, pure non sollevo una questione sul chi dovrà sorgere con quella costola alla resurrezione; o sulla possibilità che Adamo fosse ermafrodito, come sostengono i rabbini interpretando alla lettera il testo, poiché è cosa affatto contraria alla ragione che dovesse esistere un ermafrodito prima che esistesse una donna, o una composizione di due nature prima che ne fosse composta una seconda.  

Allo stesso modo, se il mondo sia stato creato in autunno, estate, o primavera; poiché fu creato in tutti; poiché qualsiasi segno abbia il sole, quelle quattro stagioni sono di fatto esistenti: è della Natura di questo luminare distinguere le diverse stagioni dell’anno, e ciò è quanto esso fa contemporaneamente sull’intera Terra, ed in successione nelle varie parti di questa.
Vi è un mucchio di sottigliezze, non solo in filosofia, ma nella teologia, indicate e discusse da uomini ritenuti eccezionalmente capaci, che non sono in verità degne delle nostre ore libere, e ancor meno dei nostri studi… più seri…
  
(T. Browne, Religio Medici)











giovedì 2 luglio 2020

IL DIALOGO DEI CANI (2)





















Precedenti capitoli:

Di due cani (lungo la strada)

& Il capitolo testamentario completo (3)

Prosegue fra...:

Eretici e ciarlatani (4/5)














‘Ma dove volete’,

…replicò l’altro,

‘che il mio capocomico abbia abiti paonazzi per dodici cardinali?’.

‘Ebbene, se me ne toglie anche uno soltanto’,

…rispose il poeta,

‘io gli darò la mia commedia tanto facilmente come potrei mettermi a volare. Corpo di Bacco! E vorreste mandare in rovina una scena così grandiosa? Immaginate un po’, di qua, che figura farà in teatro un sommo pontefice con dodici solenni cardinali e con tutto il seguito che per forza si devon tirar dietro. Giuro al cielo che sarà uno dei più grandi e solenni spettacoli che mai si sia visto in una commedia, foss’anche quella del Mazzolino di Daraja!’.

A questo punto mi persuasi del tutto che il primo era un poeta e il secondo un attore.




L’attore consigliò al poeta di tagliare un pochino sui suoi cardinali, se non voleva rendere impossibile al capocomico la rappresentazione del lavoro; al che il poeta rispose che doveva ringraziarlo se non ci aveva messo dentro tutto il conclave ch’era riunito durante i memorabili fatti che voleva richiamare alla memoria della gente nella sua magnifica commedia; il comico rise, e lo lasciò alle sue occupazioni per andare a fare il mestiere, ch’era quello di studiare una parte per una nuova commedia.

Il poeta dopo aver scritto qualche altra strofa del suo capolavoro, con molta compostezza e molto tono tirò fuori di tasca alcuni tozzi di pane e una ventina di chicchi d’uva passa, che a quel che mi pare, gli contai a uno a uno, e sono ancora in dubbio se fossero proprio tanti, perché insieme con essi c’erano, a far numero, certi bricioline di pane che li accompagnavano.




Ci soffiò sopra e fece cadere le briciole e poi, uno alla volta, si mangiò i chicchi d’uva con tutti i gambi, giacché non gliene vidi buttar via nemmeno uno, spingendoli giù con i tozzi di pane che, colorati com’erano dalla fodera della tasca, sembravano ammuffiti, ed erano talmente duri di indole che, sebbene egli cercasse di ammorbidirli girandoseli in bocca molte e molte volte, non riuscì a smuoverli dalla loro ostinazione.

Il ché ridondò infine a mio vantaggio, perché me li tirò dicendo:

‘TOH! TOH! PRENDI, E BUON PRO TI FACCIANO!’.

‘Guarda un po’,

…dissi tra me,

‘che nettare e che ambrosia mi dà questo poeta, sebbene sogliano dire che di ciò si mantengono gli Dèi e il loro Apollo, su in cielo!’.




In realtà, almeno per la maggior parte, la miseria dei poeti è grande; ma il mio bisogno era più grande ancora, se mi costrinse a mangiar quello ch’egli buttava via. Finché durò la composizione della sua commedia, egli non tralasciò un sol giorno di venire nell’orto, né a me vennero a mancare tozzi di pane, perché egli li divideva con me con grande liberalità; poi ce ne andavamo alla noria, dove, io a quattro zampe ed egli con il secchio, ci si toglieva la sete come due re. Ma poi il poeta non venne più, ed in me la fame giunse a tal punto che decisi di abbandonare il mio amico e di andarmene in città a tentare la sorte, ché chi cerca trova...




Alla morte di don Chisciotte e dopo le prime condoglianze e la logica agitazione, gli amici lì riuniti, la governante e la nipote non seppero bene cosa fare, anche se poi, piano piano, agirono in modo ordinato durante il resto del giorno, quasi quella fosse allo stesso tempo la prova generale e il debutto di una così triste e memorabile giornata, e fecero quanto ritenevano indispensabile per confortare il dolore degli altri, alleggerendo in questo modo il proprio.

Alla morte di don Chisciotte… e dopo, presso non più il capezzale, ma dall’Ospedale alla Tomba, eterno Sepolcro ed Altare del sommo Maestro, e con lui accompagnato, chi al meglio lo ha dapprima creato e poi resuscitato, qual specchio della grande Anima araldo della nobile dimenticata casata, ornare edificando lo Spirito avvilito e vilipeso, coniare  sommo Dialogo e motto: profilo con due cani affamati di saggia antica dismessa somma Verità…




SCIPIONE. Amico Berganza, lasciamo questa notte l’ospedale in guardia della Fiducia e ritiriamoci in questo luogo solitario, su queste stoie, dove, senza che nessuno ci veda, potremo godere di quest’insolito favore che il cielo ci ha fatto a tutte e due nel medesimo tempo.

BERGANZA. Fratello Scipione, io sento che tu parli e so che io parlo a te, né posso persuadermene, perché mi pare che il parlar noi passi i limiti del naturale.

SCIPIONE. È vero, Berganza, e tanto maggiore viene ad essere questo prodigio in quanto che parliamo non solo ma parliamo e ragioniamo, come se fossimo capaci di ragione; mentre tanto ne siamo privi che la differenza tra il bruto e l’uomo consiste nell’essere l’uomo animale ragionevole e il bruto no.

BERGANZA. Quanto tu dici, o Scipione, io lo capisco; e il dirlo tu e il capirlo io mi è causa di nuova maraviglia. Ben è vero che nel corso della mia vita spessissimo e in diverse occasioni ho sentito ricordare i grandi pregi che noi abbiamo, tanto che pare ci siano stati alcuni i quali hanno volentieri creduto che noi abbiamo in molte cose un istinto particolare così vivo e così fino da offrire indizio e argomento che poco manca a dimostrare che abbiamo un non so che d’intelligenza, capace di ragionamento.




SCIPIONE. Quel ch’io ho sentito lodare ed esaltare è l’aver noi molta memoria, la gratitudine e la fedeltà nostra, tanto che si è soliti dipingerci come simbolo dell’amicizia. E cosí avrai visto (se ci hai badato) che sulle tombe di alabastro su cui di solito sono ritratti quelli che lí giacciono sotterrati, mettono, quando sono marito e moglie, fra l’uno e l’altro, giù da piedi, una figura di cane per significare che si serbarono in vita amicizia e fedeltà invidiabile.

BERGANZA. So bene che ci sono stati cani così riconoscenti che si sono buttati dentro la stessa sepoltura con i morti corpi dei loro padroni; altri che si sono accucciati sui sepolcri dove erano sotterrati i loro proprietari, senza più discostarsene, senza più mangiare fino a lasciarsi morire; so pure che dopo l’elefante, il primo a sembrare di avere intelligenza è il cane, poi il cavallo e in ultimo la scimmia.

SCIPIONE. Così è, però ben vorrai confessare di non avere mai visto né sentito dire che qualche elefante, o cane, o cavallo o bertuccia abbia parlato; perciò son per credere che questo nostro parlare così a un tratto rientra nel numero di quelle cose che son chiamate prodigi, al mostrarsi e all’apparire dei quali l’esperienza ha dimostrato che qualche grande calamità minaccia il mondo.




Alla morte di don Chisciotte tutto si fece un po’ più confuso ma anche più chiaro di prima…

…E accadde anche un’altra cosa…

…Alla morte di don Chisciotte, i più ingenui (o più ignoranti) pensarono che anche le sue storie avrebbero avuto fine (per abdicare il sogno ad innominati incubi, per tacitare ed abdicare la Natura ad ingannevoli sofferenze neppure svelate in tutta la loro abietta statura in ciò che compone sofferto contrario principio alla Lei per sempre avverso), proprio come, anche se il paragone non è elegante, si vuol dire: morto il cane, niente più rabbia.




BERGANZA. Grazie, amico Scipione, perché se non mi avvisavi, tanto mi andavo infervorando a dire che non mi sarei fermato finché non ti avessi esposto un libro intero, di quelli che mi tenevano in inganno. Ma verrà tempo che potrò dir tutto con migliori ragioni e con miglior procedimento d’ora.

SCIPIONE. Guardati un po’ ai piedi e disfarai l’arcolaio Berganza; voglio dire che tu rifletta che sei un animale privo di ragione e che, se ora mostri averne un po’, siamo rimasti tutti e due d’accordo essere cosa soprannaturale e non mai veduta.

BERGANZA. Così sarebbe se io stessi nell’ignoranza di prima; ma ora che m’è venuto a mente quel che avrei dovuto dire al principio della nostra conversazione, non soltanto non mi maraviglio del mio parlare, ma sono stupito di quello che tralascio di dire.

SCIPIONE. Ma allora, non puoi dire quello di cui adesso ti ricordi.

BERGANZA. È una certa avventura che mi accadde con una gran fattucchiera, discepola della Camaccia di Montiglia.

SCIPIONE. Voglio che me la racconti prima che tu vada avanti nel racconto della tua vita.

BERGANZA. No davvero, finché non sia tempo. Abbi pazienza e ascolta, per ordine come mi sono accaduti, i miei casi, ché così ne avrai più piacere; se pure il desiderio di conoscere quei di mezzo prima di quei di cima, non ti sia molesto.

SCIPIONE. Sii breve e racconta quel che vuoi e come vuoi.




BERGANZA. Dico dunque che io mi trovavo bene con l’ufficio di guardiano del gregge, parendomi di mangiare il pane dei miei sudori e delle mie fatiche, e che l’ozio, causa e padre di tutti i vizi non avesse a che fare con me, perché riposavo il giorno; non dormivo la notte, dovendo stare all’erta per gli assalti che ogni poco ci davano i lupi. E appena i pastori mi avevano detto: al lupo, Rossino! io correvo prima degli altri cani verso dove m’indicavano che c’era il lupo. Mi davo a correre per le valli, frugacchiavo per i monti, penetravo nei boschi, saltavo botri, attraversavo strade e la mattina facevo ritorno al branco senza aver trovato del lupo neppur la traccia, ansimante, sfinito che cascavo a pezzi, con i piedi spaccati dai rovi; e nel branco trovavo ora una pecora uccisa ora un montone sgozzato e mangiato mezzo dal lupo. Io mi disperavo nel vedere quanto poco servisse il mio tanto zelo la mia tanta diligenza. Capitava il padrone del gregge: i pastori gli uscivano incontro con la pelle della bestia uccisa: lui incolpava di trascuratezza i pastori e ordinava di castigare i cani come poltroni. Sopra di noi piovevano legnate e sopra di loro rimproveri. 




Perciò un giorno che mi vidi castigato senza aver colpa, e che la mia attenzione, sveltezza e bravura non giovavano a cogliere il lupo, mi decisi a cambiare modo, non più stancandomi per cercarlo, com’ero solito,  lontano dal gregge, ma tenermi sempre vicino a questo. Poiché li veniva il lupo, lì più sicuro sarebbe stato il prenderlo. Ogni settimana si dava un allarme; e una notte scura scura, pure riuscii a scorgere i lupi da cui il gregge non avrebbe potuto guardarsi. Io mi accovacciai dietro un cespuglio; i cani, miei compagni, passarono oltre; spiando di lì, vidi che due pastori, agguantato un montone, fra i migliori dell’ovile, l’ammazzarono sì che la mattina sembrò che davvero il lupo fosse stato il carnefice. Gran sorpresa fu la mia, stupefatto al vedere che i lupi erano i pastori e che quegli stessi sbranavano la mandria i quali avrebbero dovuto guardarla. Al loro padrone facevano subito sapere che il lupo aveva predato, gli davano la pelle e parte della carne; essi poi se ne mangiavano il più e il meglio. Il padrone, da capo a rimproverarli, e da capo anche il castigo ai cani. Lupi non ce n’era e il branco scemava! Avrei ben voluto svelare la cosa, ma non avevo la favella; e tutto questo intanto mi riempiva di maraviglia e di amarezza.

‘Dio buono! dicevo fra me; chi potrà metterci riparo a questa iniquità? Chi sarà capace di far comprendere che il difensore è che offende, che le sentinelle dormono, che la fiducia è ladra e che colui che vi bada è quello che ammazza?’.

(Prosegue alla morte di don Chisciotte [capitolo completo] )