giuliano

domenica 7 giugno 2020

VERSO IL VELOCIPEDE (34)



















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Di una grande 'invenzione' (33)














...Altra data storica e memorabile è quella del ’29 Floreale anno 12°’ (19 marzo 1804), che vide rappresentata in un teatro parigino – il Vaudeville – una commedia intitolata ‘I Velociferi’.

Finalmente, nel 1809, la nuova macchina è anche consacrata alla pubblica utilità, e viene usata ‘per servizio’ dagli impiegati amministrativi. Giungiamo ora fino al 1818. Per passare dal celerifero primitivo al velocipede, era indispensabile che nel campo della tecnica venissero risolti due problemi di capitale importanza: render mobile la ruota anteriore affinché l’apparecchio potesse convenientemente diretto; adattare poi ad una delle ruote un sistema di propulsione che rendesse tale propulsione continua.





Logicamente i due perfezionamenti dovettero seguirsi nell’ordine indicato, poiché l’equilibrio sulla bicicletta è dato appunto dalla mobilità della ruota anteriore, che permette lo sviluppo delle forze centrifughe necessarie alla stabilità. Questo principio indispensabile, di rendere articolata la ruota anteriore alla macchina la libertà di direzione, venne per la prima volta applicato da un barone badese, agricoltore e ingegnere: Drais de Sauerbron. E dal suo nome il nuovo apparecchio venne chiamato draisienne. In fondo, la draisienne non era che un velocifero articolato: il cavaliere sedeva sopra una sella e dirigeva la macchina mediante una specie di manubrio adattato alla ruota anteriore.

Il barone Drais – a quanto riferiscono le cronache del tempo – credette veramente di aver fatta una meravigliosa scoperta, e si dilettò a annunziarla, ‘urbi et orbi’, con non troppa modestia. E come ogni eccesso chiama reazione, così la prima troppo vantata draisienne, presentata in pubblico a Parigi, nel giardino di Tivoli, ottenne più che altro un successo d’ilarità.





La Germania considerava il barone Drais come l’inventore del velocipede: è però certo in ogni modo che la sua invenzione fu molto conosciuta. Egli nacque a Karlsruhe nel 1780 e vi morì nel 1851; indubbiamente fu una caratteristica figura del suo tempo. Fece viaggi a Vienna, a Parigi, a Londra ed anche in America per far conoscere la sua invenzione, ma essa non ebbe, in nessuna parte del mondo, gran favore presso i suoi contemporanei.

In Francia si volle poi contestata al barone Drais la paternità dell’invenzione a lui attribuita. Il ‘Petit Journal’ cita come suo predecessore Achille Vivot, mentre un giornale inglese, ‘The Well World’, rivendica alla Gran Bretagna l’onore della scoperta, attribuendola a Denis Johnson. Pare che l’una e l’altra versione siano dovute a ‘chauvinismes’ locali; è però certo che non si trattava di macchine la cui concezione fosse dovuta a eccessiva genialità. Così infatti può dirsi del successore immediato della ‘draisienne’, il ‘pedestrian hobby-horse, ideato e costruito in Inghilterra verso la fine del 1818, da certo Krnight.





Di nuovo e di notevole l’hobby-horse non poteva vantare che il fatto d’essere costruito interamente di ferro, e d’essere quindi il primo ‘velocipede’ metallico apparso, per quanto ci consti, sulla faccia della Terra. Si ricorda altresì che questa nuova macchina ben che atrocemente perseguitata dai caricaturisti di allora – primo il celebre Cruikshank – ottenne perfino le graziose preferenze delle misses londinesi, che non esitarono – historia docet – a mostrarsi in pubblico graziosamente atteggiate sul novissimo cavallo non ancora d’acciaio.

L’hobby-horse morì, se così storicamente può dirsi, nel 1820, e nessuna delle applicazioni del vecchio principio, tentate negli anni successivi, val la pena d’essere riportata. Ritroviamo nel 1839, una vettura ‘manomotiva’ inventata in Inghilterra, che però non ebbe applicazioni pratiche, e nel 1853 una nuova macchina, composta di una unica ruota gigantesca, portante due persone – pur che fossero di identico peso – su di una sorta di prolungamento del suo assecentrale, dall’uno e dall’altro lato. Questo apparecchio, chiamato ‘pedocaedro’, sembra pure non sia mai stato costruito.





1855: questa data segna una importante pietra miliare della storia del velocipedismo, come quella che vide per la prima volta le emancipazioni dell’antico e vieto sistema, incomodo e inefficace, della spinta con i piedi contro il suolo. L’ingegnoso e semplice perfezionamento della applicazione dei pedali alle ruote è dovuto al fabbro meccanico Michaux di Parigi. Prescindendo dalla infantilità della prima applicazione, che una stampa dell’epoca ci rappresenta in modo rudimentale ma evidente, è certo che lo storico disposto a una certa larghezza di vedute non può a meno di riconoscervi il ‘principio’ di una fase completamente nuova.

L’invenzione di Michaux, non appena i contemporanei ne ebbero riconosciuta l’importanza, suscitò polemiche aspre ed ebbe acerrimi nemici denigratori. Al fabbro parigino si volle contestare la paternità della idea geniale, che venne invece attribuita a certo Pietro Lallement, operaio carrozziere, nato a Pont-a-Moussou. Costui avrebbe fatte in Francia, nel 1863, le prime prove che sortirono esito infelice; emigrato in America nel 1866, avrebbe ritentata l’applicazione del suo trovato, e non con fortuna migliore. Ritornato in patria, quando Mchaux già erasi affermato inventore del pedale, ebbe partigiani e fautori che vollero rivendicargli la gloria, allora assai futura, di aver creato il velocipede a pedali.





Se dobbiamo credere a una incisione del tempo, la macchina di Lallement aveva anche non dubbi pregi di estetica, e certo rappresentava un miglioramento notevole del rozzo tipo meccanico di Michaux. D’altronde oggi ancora può solo dirsi che la maggioranza riconosce in Machaux l’inventore del pedale, mancando gli elementi per una unanimità di giudizio.

Il 1867 segna il principio di un periodo importante: il periodo industriale.

Lallement, al suo ritorno, trova che Michaux, industrialmente dotato di non comune iniziativa, ha munita la sua macchina di un freno – un volgare freno a paletta, agente sulla ruota posteriore. Ma è tuttavia un nuovo utilissimo elemento che ritrova la sua pratica applicazione. L’esposizione del 1867 rivela al gran pubblico il nuovissimo sport, e le prime macchine a pedale di ‘marca’ francese sono vendute in Inghilterra al modesto prezzo di 25 sterline!





Lallement ne imprende la fabbricazione, pubblica dei… cataloghi, riceve ordinazioni di macchine ‘su misura, secondo la lunghezza delle gambe del cavaliere’; insegna finalmente ai velocipedisti di allora – e per la prima volta – di premere sui pedali con la parte anteriore del piede. Intanto certo James Carrol, ex socio di Lallement, lancia per suo conto la macchina francese nel Nuovo Mondo. Lellement morì nel 1870, dopo aver conseguita, per tutto il suo lavoro e non senza l’aiuto di un processo giudiziario, la somma di 10.000 franchi. E Michaux padrone del campo fonda la più importante fabbrica di velocipedi dell’epoca, sotto la ragione sociale ‘Michaux & C’. (più tardi Compagnie Parisienne), che impiegò fin da principio 500 operai.

Ben che da questo punto possa veramente iniziarsi la storia del velocipede trasformato per successivi miglioramenti in veicolo sufficientemente pratico nella sua concezione generale, e tuttavia lecito ricordare come e quanto noi dobbiamo oggi riconoscere, in questo breve sguardo retrospettivo, che la macchina lanciata in quei tempi dalla ‘Compagnie Parisienne’ non poteva essere considerata se non un principio, grossolanamente completo del concetto meccanico del velocipede moderno non solo, ma anche dei monumentali congegni oggi scomparsi, e che pure segnavano sul primo tipo di macchina a pedale, un progresso notevolissimo. E gioverà per ciò ricordare che tutte le parti   del velocipede Michaux, nel 1870, erano di legno, con cerchi di ferro alle ruote, costituendo un complesso pesantissimo.





Ma i perfezionamenti furono rapidi e radicali. Si cominciò con l’applicazione di un freno, agente, come già dicemmo, sulla ruota posteriore: nel mezzo de manubrio era attaccata una cinghia di comunicazione con la paletta del freno medesimo il quale si poteva stringere facendo girare il manubrio, mobile nel suo asse, a mezzo delle manopole. Intanto nuove modificazioni erano indispensabili; diminuire le trepidazioni e i sobbalzi della macchina, che ne rendevano faticosissimo l’uso, ed alleggerirne il peso, allora di circa 40 chilogrammi.

Certamente la genialità degli inventori, nel 1870, non trovò l’appoggio e il conforto di una opzione pubblica favorevole; anzi i fautori del nuovissimo mezzo di trasporto ebbero a sostenere asprissime lotte e persecuzioni vere e proprie. Il misoneismo inconsulto dei governanti d’allora – che d’altronde sotto alcune forme rivive ancora oggi, forse meno ingiustificato, in alcune contrade d’Europa, contro lo sport automobilistico – non poté tuttavia opporsi, per nostra fortuna, al graduale progredire della nuova industria.

(U. Grioni, Il ciclista)












sabato 6 giugno 2020

L'INCONTRO CON I CIUKKI (tribù nativa) (32)
















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Della 'Grande Depressione' (31)

Prosegue in...:

Bicicletta (33/4) 














Il ‘finto’ Capitano, al contrario, era piccolotto, quasi nano, tanto che ai tempi dell’Arena veniva chiamato Salgarello. Nel terzo dei tre necrologi che Salgari scrisse in occasione del suicidio dell’esploratore vengono raccontati nel dettaglio l’arrivo della bara alla stazione di Verona e la partenza verso il Piemonte. Un quarto di secolo dopo, compiendo lo stesso identico percorso – ma in direzione opposta - anche la bara del suicida Salgari passerà dalla stessa stazione, diretta al cimitero di Verona.

Quel mattino di agosto di 130 anni fa, Salgari aveva preso il testimone da Bove. E la realtà dal primo stava per scivolare nel mondo di fantasia del secondo…

Leggendo le biografie dei personaggi di cui stiamo seguendo le tracce, mi imbatto in una matassa di altre coincidenze che ha come fulcro proprio il suicidio.

Strano, penso di fronte a ciò che sembra diventare un vero e proprio tormentone: non solo Bove e Salgari si sono ammazzati. Si suicideranno anche i figli di Salgari, Romero e Omar, e anche il padre Emilio si era tolto la vita gettandosi dalla finestra a Verona. Così pure si suiciderà il futuro marito di Luisa, vedova Bove. E si suiciderà anche Furio, primogenito di un altro personaggio che incontreremo in queste pagine, Edmondo De Amicis: Furio De Amicis si sparerà un colpo di pistola alla tempia sotto un albero (come Bove) al parco del Valentino, a Torino.




Indecifrabili tutti questi suicidi, rifletto davanti ai libri, alle fotografie e alle fotocopie di altri libri sparpagliati sulla mia scrivania. Non riesco più a raccapezzarmi di fronte a tutte queste morti volontarie.

Strano, tanto più che a quel tempo non si era ai primi dell’Ottocento, quando togliersi la vita invocando la propria amata era divenuto un gesto alla moda, mettendo in atto ciò che gli psichiatri hanno poi definito ‘effetto Werther’.

Non c’era pietà per i suicidi nella bigotta Italia di allora.

Le spoglie del Capitano Bove vennero portate a Genova dalla vedova. Ma a Genova la bara fu rifiutata:

‘Niente funerale per un suicida da noi’

le risposero!

‘No, non c’è posto per lui insieme agli altri al campo santo’.




La vedova decise allora di ripiegare su Aqui Terme, la cittadina vicino a Maranzana, paese natale del Capitano. Ma anche qui resistenze a non finire che sfociarono in un clima di tensione. Dicono le cronache riportate dalla Gazzetta di Aqui che il giorno della tumulazione, domenica 14 agosto, il prete non volle officiare il funerale. Alla vedova tra le lacrime venne persino rifiutato di apporre una lapide sulla tomba del marito.

Chi si credeva quello per decidere di andarsene per suo conto?

Lungo la strada del cimitero era accorsa una folla silenziosa: Bove era pur sempre una celebrità nazionale, allora. Curiosi che volevano veder passare la bara del famoso esploratore. Ma tra i presenti non figurava il sindaco di Aqui, tal avvocato Accusani del Partito clericale. E suonava molto stridente, quasi beffardo, ciò che aveva dichiarato Bove nella sua lettera di addio, come avesse ribaltato l’ordine delle cose:

‘Ringrazio Dio di avermi spinto al triste passo’.

Ma sapeva ciò che stava scrivendo? O era talmente disperato da non rendersene conto? Ci vuole una certa dose di presunzione per decidere autonomamente la propria uscita di scena (qualcuno lo pensa ancora oggi).




La vita non appartiene a noi stessi, si sa: c’è ben altro che sovraintende alla nostra esistenza! Colpevole di una tale offesa, la damnatio memoriae cadde inesorabile come una scure sul poveretto. E presto il grande pubblico si dimenticò di lui e del suo significativo passaggio tra i vivi durato trentacinque anni, tra il 1852 e il 1887.

Rimosso per colpa di quell’ultimo, imperdonabile, gesto, Bove entrò nel buio. Eppure un ghiacciaio, un monte e un fiume in Patagonia oggi portano il suo nome. Così come un promontorio sull’isola Dickson oltre il circolo polare artico, e anche una vecchia base scientifica italiana in Antartide. Nel mondo occidentale Giacomo Bove significa qualcosa.

In Italia molto meno.

Ma non penso sia stato solo il velo nero della Chiesa ad aver sancito la definitiva rimozione dell’esploratore piemontese. Forse ha concorso in misura maggiore un certo disinteresse degli italiani per lo studio della geografia, di cui esploratori e vecchi alpinisti sono i portabandiera. Nelle scuole della Gran Bretagna si studiano le esplorazioni ai poli come da noi si studiano le guerre d’indipendenza, e si tengono appassionanti lezioni sulle vicende di Shackleton a bordo dell’Endurance. L’esploratore polare e premio Nobel per la pace Fridtjof Nansen è, in Norvegia, un eroe nazionale come da noi lo sono Mazzini o Garibaldi.

E Bove, in Italia, chi lo conosce? 

(Marco Albino Ferrari, La via incantata) 




           

VISITA DI MENKA, CAPO DEI CIUKKI


Questa mattina fummo visitati dal capo dei Ciukki della Penisola omonima, il quale dimora a Markowa e trovasi da queste parti per riscuotere il tributo delle popolazioni poste lungo la spiaggia di questa penisola. Wassily Menka, non appena messo piede a bordo, ci presentò un ‘ukase’ scritto in russo nel quale era considerato come il capo dei Ciukki della parte orientale della baia di Coliucin, i quali dovevano ubbidirgli e pagargli quei tributi che egli sarebbe andato a riscuotere.

Questo ‘ukase’ portava il timbro della Cancelleria imperiale di Ircutsk. Fu fatto scendere nel quadrato, ed egli, vedendo alcuni quadri appesi lungo le parti e credendoli santi, cominciò a gesticolare dinanzi ad essi facendosi a più riprese il segno della croce e borbottando certe preghiere senza darsi il minimo pensiero delle persone che gli stavano intorno. Finita che ebbe la sua preghiera dinanzi ad un quadro che rappresentava una visita notturna di Romeo, ci salutò con lunghi ‘probasci’ (unica parola che sapesse di russo e che vuol dire buongiorno).




Nordquist, che giunge già a farsi capire in ciukkcio, gli rivolse diverse domande. Rispose che veniva da Markowa, distante dieci giorni, e che, lasciate le sue renne ad una giornata di marcia a monte di Pitlekai, s’era spinto con una slitta e due schiavi a detto villaggio, non tanto attiratovi dal tributo che doveva riscuotere dagli abitanti di Pitlekai, quanto dalla notizia del nostro arrivo, che a quest’ora credo abbia già fatto il giro di tutta la penisola. Gli furono offerti dei sigari, che egli fumò colla voluttà che impiega un barbaro quando arriva a mettersi in bocca uno di questi malanni dell'umanità; ma ciò che gli stava a cuore era la bottiglia di cognac.

Il Menka, di capo non ne ha certamente la presenza: è piccolo e con una faccia delle più brutte che si possano immaginare. Gli si domandò quando ripartiva per Markowa, rispose: dopodomani; allora il professor Nordenskiold lo pregò di portare una lettera al Governatore di Anadirsk, ove si diceva che la ‘Vega’ era giunta all’est della Biaia di Coliucin, e si attendeva che le acque si facessero libere per continuare il nostro viaggio.




Gli furono consegnate, chiuse tra due tavolette, anche delle lettere personali, e Hovgaard e Nordquist seguirono Menka sino al suo prossimo accampamento. Menka volle vedere quello che le tavolette contenevano e apertele tirò fuori la lunga lettera al Governatore, la spiegazzò dinanzi al popolo e cominciò con un sangue freddo ammirabile a leggere, benché il brav’uomo non si fosse accorto che il foglio era capovolto.

Menka gode di tutta l’autorità di un capo e su di questo pare non voglia transigere. Ed invero, sia che si trovi nella tenda che lo ha ospitato, sia fuori di essa, i restanti stanno a rispettosa distanza e si fanno un dovere se non un piacere di prevenire qualunque suo desiderio. Del resto la nostra presenza nella rada di Pitlekai deve aver servito non poco ad aumentare la sua autorità, poiché egli ebbe l'onore di scendere nel nostro quadrato.




Intanto Menka non è partito; alle 9 viene nuovamente a bordo e, nel mentre stava nel nostro quadrato, gli fu annunziato l’arrivo di tre distinti personaggi. Si slanciò sulla prua per riceverli e senza avvedersene pose il suo trono presso un luogo poco decente. I tre signori montarono a bordo e levatisi il berretto baciarono per tre volte Menka, che li abbracciò affettuosamente e restituì loro il bacio. Dopo aver salutato anche noi, questi uomini cominciarono con Menka una lunga chiacchierata.

Questi tre Ciukki vengono dal Colima e sono diretti allo stretto di Bering per fare acquisto di pellicce. Vestono finissime pellicce di renna come veste Menka, il quale oggi però ha pensato bene di indossare una lunga ‘zimatra’, che, a giudicare a lume di naso, doveva essere una volta bianca, ma che oggidì darebbe dieci punti alla famosa camicia della non meno famosa Regina Isabella.

Menka è appassionatissimo della musica e della danza: gli basta di sentire strimpillare uno strumento qualunque che si anima di una gioia quasi selvaggia, e comincia a dimenare le gambe, piedi, testa, sì da farlo credere invaso dal…demonio…

Ed invero, per lui deve essere ben qualche cosa più di un demonio quella piccola scatola la quale senza dar segno alcuno di vita manda suoni che gli scendono fin nel profondo del cuore…