giuliano

giovedì 28 settembre 2023

GIUSEPPE TUCCI (16)

 









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Giuseppe Tucci  (15/1)  


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corsa alla vetta  (17)







I monaci sono lieti di concedere questa ospitalità, che non solo è opera umana e caritatevole, ma frutta ad essi ed al convento non dispregevoli prebende. Ché anche qui i Lama sono avidi di danaro e bramosi di mercatare. Ecco perché i monasteri sono quasi deserti: i monaci sono scesi nelle fiere a vendere, barattare, fare affari, impartire benedizioni e strologare.

 

Del monastero di Ciocu, piantato su una rupe che si sbriciola in sassi e macigni precipitanti in una immane rovina sul fiume, non conosco vicende particolari; per lo meno se n’è perduta ogni memoria. Ma in quelli di Tindipu e Zuprul vissero niente meno che Cozampa e Milarepa, due dei più celebri asceti della tradizione mistica ed iniziatica del Tibet. Il secondo, non solo grande santo, ma anche sommo poeta, la cui biografia, scritta da uno dei suoi immediati discepoli, può senza dubbio considerarsi come uno dei capolavori letterari dell’Oriente.




Da Ciocu e da Tintipu, il Kailasa appare in tutta la sua gloria; sopra una muraglia gialla come oro, tutta a grandi strati paralleli tagliati a intervalli irregolari da forre gigantesche che disegnano ombre strane e salgono tortuose e frastagliate, s’erge la guglia nevosa, su cui le frequenti valanghe solcano striature profonde come strade che scendano dal cielo. Il silenzio dei luoghi è solo interrotto dal rombo delle superbe cascate che precipitano a valle dalla sommità di dirupi che, a vederli dal basso, danno quasi la vertigine, tanto sono ardui e a perpendicolo.




Per la pista, tutta borri e sassi, che passa e ripassa da una riva all’altra del fiume, sale e scende la folla dei pellegrini: persone di tutte le età, di tutte le fedi e di ogni parte del mondo buddistico e indù. Vanno salmodiando, recitando preghiere, invocando i loro Dei, genuflettendosi ad ogni sasso su cui siano incisi simboli sacri, snocciolando i grani del rosario e facendo girare vertiginosamente il ‘mulino delle preghiere’, quel comodo strumento che i Tibetani hanno inventato per poter innalzare al cielo la loro preghiera tenendo la mente intenta in altri pensieri.




Ci sono ricchi mercanti di Lasa e alti funzionari arrivati con le loro carovane cariche di té, che nel Tibet è monopolio di Stato e viene distribuito nelle varie province da appositi funzionari che ci lo vendono a prezzi stabiliti mendicanti che ostentano tutte le malattie e arrampicano rantolando, nella speranza di ritornare guariti o di esalare l’estremo respiro, su queste rocce; sadhu indiani, che marciano silenziosi, seguiti da gruppi di fedeli che cantano in coro inni a Sciva.

 

La pista sale su un costone che raggiunge 5800 metri e che, dal nome della Dea della salvazione cui è consacrato, è conosciuto come il Dolmala (Passo di Dolma). Su mucchi di sassi accatastati i pellegrini hanno piantato dei pali, hanno steso sulla cima una corda, e sulla corda hanno appeso banderuole di stoffa colorata, sulla quale sono stampate, con inchiostri neri o rossi, formule e preghiere.




Il vento le agita, e chi ha appeso quelle bandetuole alla corda è come se recitasse le preghiere ad ogni soffio d’aria che spira. L’ascesa di questa strada aspra e lunga è anch’essa un simbolo: simbolo della disciplina della vita, che prepara le beatitudini del Nirvana. I più la compiono con animo raccolto e meditante: essi proiettano quasi, in questo breve spazio di tempo, il loro soffrire terreno, e arrivati alla sommità del Passo si concentrano immobili, anticipando le estasi delle supreme beatitudini.

 

Nello spirito di questa gente, in cui profondo è il senso religioso e connaturato il ragionare per simboli, nell’ascesa della montagna sacra si ripete quasi il dramma della vita. E solo quando il passo di Dolma sia raggiunto con questa fede, la fatica dell’ascesa diventa purificazione dell’anima. Ma nella turba dei pellegrini, che ogni giorno qui passa, pochi sono quelli nei quali le tradizioni spirituali dell’antica religiosità indo-tibetana sopravvivono ancora nella loro primitiva purezza.




Luoghi sacri in deplorevole abbandono, dopo il passo, si scende sulle rive di un breve laghetto ghiacciato: quasi diamante incastrato in un cerchio di ferro, ché nera è la roccia, emergente a spuntoni e guglie e piramidi intorno alle acque gelate.

 

Secondo i Tibetani, questa è porta di un palazzo sotterraneo in cui albergano fate e deità esoteriche; secondo gli indù, il lago è consacrato a Parvati, la sposa di Sciva. Altre soste ed altre genuflessioni per le colonne dei pellegrini: i più devoti fendono la crosta ghiacciata e si tuffano nelle acque freddissime. Poi si scende al terzo dei monasteri, quello di Zuprul: il nome significa ‘il miracolo’ e ricorda che in questo luogo Milarepa fece contesa di magia con i maestri bonpo e li vinse con i suoi poteri taumaturgici.




Da allora il lamaismo prese definitivo possesso di questa contrada. Luogo, dunque, celebre nelle tradizioni del Tibet, eppure caduto in miserevole abbandono. Povero e maltenuto è il monastero ci vivono appena due o tre monaci, i quali sono ben lontani da quelle perfezioni morali e mistiche che aveva raggiunto il taumaturgo, di cui ai pellegrini attoniti essi recitano oggi con monotonia e indifferenza un breve sunto biografico, mostrando certi segni sulla roccia come impronte del santo, e chiedendo alla fine, con petulanza, obolo e offerte. Nessuno di loro sa più leggere e scrivere, e ancor meno intendere la nobiltà e la profondità di vita del loro grande maestro.

 

Alle falde del Kailasa, a sud est, c’è un altro monastero, il più grande di tutti. Si chiama Gyantrag, e per arrivarvi bisogna ritornare a Darchin, risalire una forra per un sentiero difficile, che d’un tratto sbuca su una valle larga, tutta cinta all’intorno da dirupi ferrigni coperti sulla cima da nevi perenni. In mezzo alla valle, sopra un colle isolato, il monastero innalza la sua mole superba, quasi a continuare lo slancio del terreno.

 

Tutto intorno, silenzio e solitudine.




Ci siamo arrivati in un giorno di tempesta, tutto era grigio e triste: il nostro mondo lontano come un sogno. Ai piedi del monastero, tombe di asceti che vennero qui a meditare e a trapassare nell’indiscriminato fondo delle cose.

 

Il convento ha una grande storia: nell’interno delle cappelle, vicino a statue e a pitture religiose, troviamo appese corazze e spade, prese forse a predoni uccisi dai monaci soldati nella difesa dei loro templi. Sebbene così pietoso sia il decadimento spirituale delle sette religiose che hanno ereditato la custodia di questi templi, i luoghi, e per la solitudine e per la bellezza alpestre, e soprattutto per le memorie dei santi che vi abitarono, esercitano sul visitatore un fascino, che anche quando se n’è lontani non si può cancellare.




Folle infinite di devoti, che dalla notte dei tempi  passano per pregare, per implorare e per morire, hanno circondato queste rocce così superbe e gloriose di un’aura sacra che ogni spirito religioso non può non sentire. In luoghi come questi, io pensavo come grande e vero è il detto di Ramakrishna:

 

‘inginocchiati dove gli altri si inginocchiano perché Dio è presente dove tanti hanno pregato’.

 

Durante questo pellegrinaggio, che è durato parecchi giorni, ho avuto l’occasione di incontrare molti rappresentanti delle scuole mistiche dell’India e del Tibet; e sebbene questa gente sia per natura restia a parlare di se medesima o della sua fede, conoscendo a fondo le loro dottrine e le loro lingue, e soprattutto la loro psicologia, ho potuto stringere amicizia con molti di questi asceti che quassù traggono a meditare e a pregare. Evidentemente non è questo il luogo di entrare in particolari che interessano specialmente lo studioso di storia delle religioni e delle esperienze mistiche, ma posso francamente dire che, se uno vuole vedere come le teorie ascetiche e yoga dell’Oriente si inverino ancora specialmente e straordinariamente dotate, deve venire in queste solitudini.




Così, con una quotidiana convivenza con alcuni dei più celebri custodi dell’antica sapienza indiana e tibetana, si è conclusa la prima parte del mio nuovo viaggio nei deserti dell’altopiano dell’Himalaya, oltre la grande barriera che, con i suoi ghiacci e le sue cime immacolate, separa l’India dal tetto del mondo.

 

Poi, salutati con un addio che, confesso, mi fu grave al cuore, il lago di turchese e la montagna di Sciva, ripresi il mio cammino attraverso i deserti del Tibet Occidentale, deserti che un giorno interrompevano grandi oasi di cultura ed ora intristiscono nel silenzio e nell’abbandono. Ché, quanto non è roccia arida, son rovine e grotte trogloditiche disabitate, e templi abbattuti, e castella diroccate: un soffio sterminatore si è abbattuto dove un giorno ferveva la vita. Rovine dopo rovine ho pazientemente esplorato, cappelle dopo cappelle ho visitato, e col prezioso concorso del mio compagno, il capitano Ghersi, ho conservato nel ricordo fotografico le opere d’arte, specialmente pittoriche, che ancora restano di tanta gloria.




Ed è così che presso i dirupi argillosi che fanno da sponda al torbido fiume Mangnan la Missione italiana poteva scoprire in un tempio quasi abbandonato pitture ed affreschi dell’undicesimo secolo, che aprono nuovi capitoli nello studio dell’arte indiana: quella superba meraviglia che sono le grotte di Ajanta, nelle quali artisti sconosciuti hanno consegnato in affreschi ammirevoli la loro abilità e la loro pietà insieme, non è più sola: seguaci di quelle scuole vennero sul pianoro tibetano, oltre le aspre giogaie himalayane e, favoriti dall’ardore religioso dei Re di Guge, trapiantarono e continuarono sul tetto del mondo le tradizioni più gloriose delle scuole indiane.

 

Giacquero colà inavvertite per secoli stanno ora per sparire; ma prima che l’ingiuria del tempo e l’abbandono degli uomini ne cancellino le ultime tracce, una Missione scientifica italiana ha avuto la ventura di fotografarle e di rivelarle al mondo degli studiosi.









 

sabato 23 settembre 2023

IL SACRO... (14)

 



















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....di Settembre...  (13/1) 


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Giuseppe Tucci (15/6)  







Quando, alcuni giorni dopo, tornammo a Diri-pu per la seconda volta, vedemmo due giovani lama impegnati nel pellegrinaggio di prostrazione intorno alla montagna, venivano da Kham, e da quella parte del paese ‘dove abitano gli ultimi uomini’, ed erano stati un anno sulla strada per il Kailas. Erano poveri e cenciosi, e non avevano niente da portare, perché vivevano dell’elemosina dei fedeli. Erano arrivati ​​in nove giorni da Tarchen a Diri-pu, e calcolavano di avere ancora undici giorni per finire il loro giro. Li ho accompagnato per mezz’ora a piedi per osservare la loro procedura.

 

Questa consisteva in sei movimenti. Supponiamo che il giovane lama in piedi sul sentiero con la fronte leggermente abbassata e le braccia penzoloni lungo i fianchi, (1) unisca i palmi delle mani e li sollevi in ​​cima alla testa, piegando allo stesso tempo testa un po’ in basso; (2) posa le mani sotto il mento, alzando di nuovo la testa; (3) si inginocchia a terra, si piega in avanti e si sdraia a terra per tutta la sua lunghezza con le braccia tese; (4) si passa le mani congiunte sopra la testa; (5) allunga la mano destra in avanti fino a che può raggiungere, e graffia un segno nel terreno con un pezzo di osso, che mostra la linea che deve essere toccata con le dita dei piedi al prossimo avanzamento; e (6) si alza con le mani, fa due o tre passi fino alla boa e ripete le stesse azioni.




E così fa il giro di tutta la montagna.

 

È un lavoro lento e non hanno fretta!

 

Fanno tutto il pellegrinaggio con compostezza, ma perdono il fiato, soprattutto durante la salita al passo, e scendendo dal Dolma-la ci sono punti così ripidi che deve essere un’impresa ginnica sdraiarsi a testa in giù. Uno dei giovani monaci aveva già compiuto un giro e ora era al secondo. Quando ebbe finito, in dodici giorni, intendeva recarsi in un monastero sullo Tsangpo e rimanervi murato per il resto della sua vita.

 

E aveva solo vent’anni!

 

Noi, che nella nostra superiore saggezza sorridiamo a queste esibizioni di fanatismo e di auto-mortificazione, dobbiamo confrontare la nostra fede e le nostre convinzioni con le loro. La vita oltre la tomba è nascosta a tutti i popoli, ma le concezioni religiose l’hanno rivestita di forme differenti tra i diversi popoli. ‘Se guardi da vicino vedrai che la speranza, figlia del cielo, indica ad ogni mortale - con mano tremante - verso le oscure altezze’. Qualunque siano le nostre convinzioni dobbiamo ammirare coloro che, per quanto erronee possano essere le loro opinioni, secondo il nostro limitato giudizio, tuttavia possiedono una fede sufficiente per muovere le montagne.




Saliamo su un crinale con ruscelli che scorrono su entrambi i lati. Su ogni roccia, che ha una cima a tutti i livelli, si accumulano piccole pietre e molti di questi cumuli piramidali sono stipati così strettamente che non c’è spazio per un’altra pietra. Grazie a questi ometti il ​​pellegrino può trovare la sua strada nella tempesta di neve e nella nebbia, anche se senza di loro non potrebbe trovarla facilmente al sole.

 

Alla fine vediamo davanti a noi un gigantesco masso, il cui contenuto cubico ammonta forse a 7.000 o 10.000 piedi cubi; si erge come un’enorme pietra miliare sulla sella di Dolma-la, che raggiunge l’incredibile altezza di 18.599 piedi. Sulla sommità del blocco, pietre più piccole, sono ammucchiate in una piramide che sostiene un palo, e dalla sua estremità corde decorate con stracci e stelle filanti sono tese ad altri pali fissati nel terreno. Corna e ossa, principalmente scapole di pecora, sono qui depositate in grande quantità: omaggi al passo che dovrebbe segnare la metà del pellegrinaggio. Quando il pellegrino arriva qui, spalma un po’ di burro sul lato della pietra, si strappa una ciocca dei suoi stessi capelli e la incolla nel burro. Così ha offerto parte di sé e dei suoi averi. Di conseguenza la pietra assomiglia a un enorme blocco di parrucca, da cui svolazzano al vento ciocche nere di capelli. Col tempo sarebbe completamente ricoperta di pelo tibetano, se non fosse che le ciocche ogni tanto cadono e vengono portate via dal vento. I denti sono conficcati in tutte le fessure del blocco Dolma, formando interi rosari di denti umani. Se hai un dente cariato, dedicalo agli spiriti del passo. Purtroppo Tsering era sdentato, altrimenti si sarebbe conformato volentieri a questo regolamento.




Mucchi di stracci giacciono tutt’intorno, perché il pellegrino ne ha sempre un brandello di riserva da appendere a un filo o da stendere ai piedi del blocco. Ma non solo dà, ma prende. Il nostro vecchio prese uno straccio dal mucchio e aveva una grande quantità di tali reliquie al collo, perché ne aveva preso uno da ogni tumulo.

 

La vista è grandiosa, anche se il Kailas stesso non è visibile. Ma si può vedere l’affilata cresta nera che giace abbastanza vicina sul lato sud con un manto di neve e un ghiacciaio pensile, il suo margine blu tagliato perpendicolarmente al laghetto morenico sul lato orientale del passo.

 

Mentre sedevo ai piedi dell’isolato, facendo osservazioni e disegnando il panorama, un lama si avvicinò passeggiando appoggiandosi al suo bastone. Portava un libro, un tamburo, una dorche e una campana, e allo stesso modo un bambino dall’aspetto malaticcio in un cesto sulla schiena. I genitori, nomadi nella valle sottostante, gli avevano dato tsamba per due giorni per portare il bambino intorno alla montagna, in modo che avrebbe recuperato la sua salute. Molti pellegrini si guadagnano da vivere con tali servizi e alcuni fanno il pellegrinaggio solo a beneficio di altri. Il lama con il bambino si lamentò di aver fatto il giro della montagna solo tre volte e di non possedere abbastanza soldi per fare il giro tredici volte. Gli ho fatto l’elemosina.




Poi si sedette sul passo, girò la faccia nella direzione dove era nascosta la sommità del Kang-rinpoche, unì le mani e cantò un’interminabile successione di preghiere, dopodiché si avvicinò al blocco e posò la fronte a terra, quante volte non so, ma era ancora lì quando scendemmo tra i massi al minuscolo lago rotondo Tso-kavála. Abbiamo seguito la sua sponda settentrionale e il nostro vecchio amico mi ha detto che il ghiaccio non si rompe mai.

 

Ma il tempo scivola via e dobbiamo affrettarci. Camminiamo, scivoliamo e ci arrampichiamo su ripidi pendii dove sarebbe facile cadere a capofitto. Il vecchio ha il passo sicuro e questi pendii sono vecchie conoscenze. Ma guai a lui se si voltasse e andasse nella direzione opposta. Finalmente raggiungiamo la valle principale, chiamata nella sua parte superiore Tselung, e nella sua parte inferiore Lam-chyker. Attraverso la grande valle, che entra nella valle principale sul lato destro, ed è chiamata Kando-sanglam, guardiamo ora verso est sul pinnacolo più alto della vetta del Kailas, che ha uno spigolo acuto verso nord-est sembra ancor più un cristallo.




Marciamo a sud-ovest e bivacchiamo in cima al monastero Tsumtul-pu. Per tutto il giorno e in tutti i luoghi di riposo, non ho sentito altro che un mormorio infinito delle parole Om mani padme hum, e ora, finché sono sveglio, Om mani padme hum suona nelle mie orecchie da tutti gli angoli.

 

Il tempio non aveva altra curiosità se non una statua di Duk Ngavang Gyamtso, alta 5 piedi, seduto come a uno scrittoio, due zanne di elefante non molto grandi e un lampadario a cinque bracci di Lhasa. La nostra visita, quindi, non durò a lungo, e ci incamminammo giù per la valle in cui il fiume - a poco a poco - aumentò di dimensioni. Anche qui vengono eretti manis e chhorten, e alla fine della valle, dove si accumulano ancora numerosi massi di granito, vediamo ancora una volta il Langak-tso e il grande gruppo di Gurla.

 

Con questo pellegrinaggio intorno al monte santo, che avevo potuto compiere per un’inaspettata fortunata occasione, avevo avuto un’idea della vita religiosa dei tibetani. Era stata anche, per così dire, una revisione di tutte le esperienze che avevo già raccolto a questo proposito.




La nostra conoscenza del Tibet è ancora carente e qualche futuro viaggiatore troverà materiale sufficiente per mostrare su una mappa dell’intero mondo lamaistico tutte le grandi vie di pellegrinaggio verso innumerevoli santuari. Su tale mappa numerose strade convergerebbero, come i raggi di una ruota, a da Kuren, il tempio di Maidari a Urga. Ancora più vicini i raggi provenienti da ogni luogo abitato dell’immenso territorio del lamaismo si sarebbero uniti al loro fulcro principale, Lhasa. Un po’ meno densamente si sarebbero uniti a Tashi-lunpo. Innumerevoli strade e sentieri tortuosi partirebbero dai paesi di confine più lontani del Tibet, tutti tendenti verso il sacro Kailas. Sappiamo che esistono e non è necessaria una grande immaginazione per concepire come apparirebbero su una mappa.

 

Ma è per le rotte dei pellegrini come per il volo delle oche selvatiche: non sappiamo nulla del loro corso preciso.

 

Inoltre, tra i principali fuochi sono sparsi un certo numero di centri minori da cui i raggi divergono verso un santuario, ove nelle orecchie dei tibetani risuona un altro detto, la formula mistica Om mani padme hum, non solo nelle peregrinazioni verso la meta del suo pellegrinaggio, ma per tutta la vita.

 

Buddha seduto o in piedi all’interno di un fiore di loto.




È il dio protettore del Tibet e il controllore della metempsicosi.

 

E non c’è da stupirsi che questa formula sia così popolare e costantemente ripetuta sia dai lama che dai laici, ovunque uno si giri in Tibet, vede incisi o cesellati i sei caratteri sacri e li sente ripetere ovunque. Si trovano in ogni tempio in centinaia di migliaia di copie, anzi, in milioni, perché nei grandi mulini di preghiera sono stampate a lettere fini su carta sottile. Sui tetti dei monasteri, sui tetti delle case private e sulle tende nere, sono incise su svolazzanti festoni. Su tutte le strade attraversiamo quotidianamente ciste di pietra simili a muri ricoperte di lastre, su cui è scolpita la formula Om mani padme hum.

 

Raramente il sentiero più solitario conduce a un passo dove nessun tumulo è eretto per ricordare al viandante la sua dipendenza per tutta la vita dall’influenza di spiriti buoni e cattivi. E in cima a ogni ‘altare’ del genere è fissato un palo o un bastone con delle bandierine, ognuno che proclama dentro lettere nere la verità eterna.




A rocce sporgenti chhortens o lhatos cubicistare lungo la strada in bianco e rosso. Ai lati delle rocce di granito levigate dal vento e dalle intemperie vengono spesso tagliate figure di Buddha, e sotto di esse, così come sui massi caduti, si leggono in caratteri giganteschi Om mani padme hum. Sui moli tra i quali si estendono ponti a catena sul Tsangpo o su altri fiumi, si accumulano cumuli di pietre, e su tutti questi innumerevoli ometti votivi giacciono teschi di yak e crani di pecore selvatiche e antilopi. Nelle corna e nelle ossa frontali sbiancate dello yak viene tagliata la formula sacra e i caratteri incisi sono riempiti di rosso o di qualche altro colore sacro. Li ritroviamo in innumerevoli esemplari e in molte forme, specialmente sulle strade maestre che portano a templi e luoghi di pellegrinaggio, così come in tutti i luoghi dove c'è pericolo, come sui passi di montagna e sui guadi dei fiumi.

 

Le parole mistiche risuonavano costantemente nelle mie orecchie. Le ho sentite quando è sorto il sole e quando ho spento la mia luce, e non sono sfuggito loro nemmeno nel deserto, perché i miei stessi uomini hanno mormorato Om mani padme hum. Appartengono al Tibet, queste parole; ne sono inseparabili: non riesco a immaginare le montagne innevate ei laghi blu senza di loro. Sono strettamente legati a questo paese come il ronzio dell’alveare, come lo svolazzare delle stelle filanti con il passo, come l’incessante vento di ponente con i suoi ululanti.




La vita del tibetano dalla culla alla tomba è intrecciata con una moltitudine di precetti e costumi religiosi. È suo dovere contribuire con il suo tributo al mantenimento dei monasteri e all’obolo di Pietro dei templi. Quando passa davanti a un tumulo votivo aggiunge una pietra alla pila come offerta; quando vede un monte santo, non manca mai di posare la fronte per terra in omaggio; in tutte le imprese importanti deve, per amore della sua salvezza eterna, chiedere consiglio ai monaci dotti nella legge; quando un lama mendicante viene alla sua porta, non rifiuta mai di dargli una manciata di tsambao un pezzo di burro; quando fa il giro delle sale del tempio, aggiunge il suo contributo alla raccolta nelle coppe votive; e quando sella il suo cavallo o carica uno yak, canticchia di nuovo l’eterno Om mani padme hum.

 

Più frequentemente di un’Ave Maria o di un Paternoster nel mondo cattolico, Om mani padme hum accompagna la vita e le peregrinazioni dell’umanità in mezza Asia.

 

(S. Hedin, primi anni del 900)








martedì 19 settembre 2023

L’UOMO CHE CERCO’ DI SALVARE UOMINI SPELONCHE E CAVERNE (11)

 










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tra spelonche 


e caverne  (10/1) 


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taluni 


approfondimenti   [12]







Nei suoi scritti destinati a un grande pubblico, sempre basati non solo sul suo lavoro sul campo e sulla sua competenza linguistica e storica, ma sempre con un approccio razionalistico oltre che rispettoso, Tucci cercò anche di valutare lo stato della pratica buddista in Tibet, aspettandosi serietà da una religione e da una cultura di cui aveva una profonda comprensione e che teneva in grande stima: ‘L’idea attuale è che il lamaismo è un miscuglio di riti magici privi di sostanza spirituale. Lama e mago sono mescolati nella mente della maggior parte delle persone. Bisogna essere chiari al riguardo. C’è del vero in queste affermazioni in quanto il Buddismo sta attraversando un periodo di decadenza in Tibet; l’istituzione di grandi monasteri è stata fatale allo sviluppo e alla purezza della religione. I grandi monasteri si sono diffusi come organismi parassiti, dove troppo spesso l’interesse pratico sostituisce la sincerità dell’ispirazione religiosa; il monaco vegeta attraverso la sua vita tranquilla al riparo del monastero, sostenuto da donazioni, lasciti, possedimenti.




La crescita enorme della comunità ha agito come una forza contraria all’affinamento dell’ascesi o alla purezza della meditazione. Si sono organizzate scuole in grandi monasteri e tutt’al più, oltre all’innumerevole popolo del clero ignorante, si sono formati medici e dialettici che conoscono tutte le sottigliezze della letteratura e del rito, [che] sono molto abili nell’affermare i postulati del loro sistema contro quelli di sette rivali in discussioni logiche ben congegnate, che sono insomma la copia tibetana dei sapientoni o studiosi indiani, miracoli del sapere e della memoria’. 

 

Altrove lo studioso italiano spiega:


‘Sicuramente, ad un viaggiatore che non ha avuto l’opportunità di soggiornare a lungo in Tibet o, non conoscendone la lingua, non rendendosi conto di ciò che vede, l’impressione data dal buddismo tibetano è quella di una farraginosa idolatria: tutti quei riti che vengono eseguiti meccanicamente, senza un’intelligente partecipazione dei monaci, quella lettura dei testi sacri di cui si vede subito che la maggior parte dei ‘sacerdoti’ non capiscono nulla, quella moltitudine di idoli, non tutti sereni o casti nell’aspetto, ammassati sugli altari, quella folla di monaci avidi di guadagni e sospetti, fanno pensare che la religione sia veramente scesa in basso, ma bisogna ricordare che un tale Buddismo è, per così dire, il trapianto in Tibet di una delle ultime propaggini del Buddismo del Grande Veicolo e specificamente di quelle scuole che si chiamano Mantrayana e Vajrayana (…).




Se non si comprende questo valore dell’iconografia e della liturgia del buddismo tantrico, che è appunto quello introdotto in Tibet, non si può comprendere il significato più intimo di questa religione, che però, proprio per quel suo carattere prevalentemente iniziatico, non è stato fatto per diffondersi nella gigantesca organizzazione monastica del Tibet e tanto meno nella sua folla laica. In definitiva si trattava di una religione adatta ad una cerchia ristretta di popolo eletto in grado di comprendere il rito nel suo significato profondo (…): ma una volta entrato in contatto con la massa, quel Buddismo non riusciva a mantenere la purezza delle sue concezioni (…): ma questo non dovrebbe portarci a condannare tutto il Buddismo tibetano, perché in effetti c’erano, e in effetti ci sono anche oggi, anche se in proporzioni sempre minori, persone molto nobili nelle quali il Mantrayana diventa vero nella sua purezza.




Poi il pletorico sviluppo delle istituzioni monastiche fece perdere in qualità ciò che si guadagnava in quantità: maggiore era il numero dei monaci, minore era la loro preparazione intellettuale e spirituale. Piuttosto che rivivere la religione nella sua profondità interiore, si accontentarono da un lato di formule e riti oppure, dall’altro, di aride discipline logiche e dialettiche che sostituivano l’ansia di una palingenesi spirituale con il ragionamento teologico. E allora cominciò la decadenza o meglio, per meglio dire, aumentò negli ambienti monastici poiché fin dai primi tempi si era manifestata una certa tendenza al formalismo e al culto del senso letterale, a scapito della comprensione spirituale’.




Avendo chiarito che ‘i monasteri tibetani, che in genere si sono trasformati in rumorosi vivai di monaci non sempre dotti e puri, sorsero originariamente come eremi’ e che ‘il nome stesso che li designa in tibetano significa ‘solitudine, ritiro’”, Tucci descrive la situazione dei monasteri nella zona del Monte Kailasa nei seguenti termini:




‘Ora, nel generale decadimento che ha soffocato ogni slancio di vita spirituale e distrutto ogni gloria politica in questa terra sacra alla memoria del Buddismo, i monaci scarseggiano e gli asceti ancor di più: i custodi sfruttano i luoghi affidati alla loro cura e vivono sfruttando la tradizione religiosa e le memorie di quegli eremiti che raggiunsero la perfezione spirituale nei secoli passati.

 

Il timore dei predoni che infestano le valli vicine e che possono scendere da un momento all’altro dai passi sovrastanti spinge i pellegrini a cercare rifugio in questi monasteri, che si trasformano in rumorosi ostelli e dormitori, in cui lingue e religioni si fondono e si uniscono in amicizia sotto il minaccia dei briganti. I monaci sono lieti di concedersi questa ospitalità, che non è solo un atto umano e caritativo, ma frutta a loro e al monastero non trascurabili prebende. Perché anche qui i lama sono avidi di denaro e desiderosi di commerciare. Ecco perché i monasteri sono quasi deserti: i monaci sono scesi alle fiere per vendere, barattare, commerciare, impartire benedizioni e fare oroscopi’.




Ovviamente Tucci si aspettava una maggiore serietà religiosa in un Paese che considerava erede delle tradizioni buddiste dell’India, che teneva in grande stima, e che aveva studiato molto approfonditamente grazie anche alla sua vasta competenza linguistica, compresa la conoscenza del sanscrito. e tibetano. Si potrebbe obiettare che nel suo Paese non sempre la religione ufficiale era praticata seriamente nei monasteri e nelle chiese, e che forse si aspettava di più dal clero tibetano che da quello italiano. Tuttavia aveva ragione nel mettere in relazione la decadenza della pratica religiosa in Tibet con la sua situazione politica: la stessa decadenza politica che ha devastato il Paese si riflette nella sua vita religiosa.




Per quanto riguarda lo stato di conservazione dei siti, delle immagini e dei testi religiosi nel Tibet occidentale, i giudizi di Tucci non lasciano quasi alcun dubbio sulla sua decadenza culturale trent’anni prima della Rivoluzione Culturale, come si evince dai seguenti passaggi:

 

‘A Ri il tempio di Rinchenzangpo sta per crollare: il tetto lascia passare l’acqua, consumando i dipinti e sfaldando le statue in stucco. E dovunque, gettati alla rinfusa, una grande quantità di manoscritti di tutte le dimensioni e di tutte le epoche’.




A proposito delle grotte di Mang-nang, sito che lo studioso italiano esplorò dal 15 al 17 agosto 1935 e alle cui pitture murali in stile indiano dedicò un articolo, scrive: ‘Camminiamo su mucchi di manoscritti gettati alla rinfusa uno sull'altro, a centinaia, a migliaia, spesso anche per pochi metri di spessore’.

 

Trovò una situazione ancora peggiore nelle grotte di Dung-dkar, luogo che visitò il 25 agosto 1935, e dove perse la pazienza:




‘un’opera d’arte gettata lì come un rottame; non sopporto di vedere dipinti secolari – dipinti minuziosamente con tanta dedizione da una scuola di artisti per i quali dipingere era sinonimo di pregare – spiegazzati, logori, buchi, quelle statue di legno portate forse dall’India dai primi apostoli del buddismo, ammucchiati uno sopra l’altro, con la testa e le mani mozzate: quei libri gettati negli angoli più bui in un groviglio dal quale è quasi impossibile districare e ricomporre i volumi.




E quando questi monaci che non capiscono più niente, che non conoscono il valore delle cose di cui sono stati affidati in custodia, si fingono coscienziosi, mi diventano veramente odiosi. quelle statue di legno portate forse dall’India dai primi apostoli del buddismo, accatastate una sopra l’altra, con la testa e le mani mozzate: quei libri gettati negli angoli più bui in un groviglio da cui è quasi impossibile districare e ricomporre i volumi.




Qui dimorò un popolo che visse nella propria fede, vi furono anime nobili che si sublimavano nell’ascesi e nella contemplazione, estatiche nell’esaltazione mistica; c’erano artisti che seppero realizzare opere degne di reggere il confronto con i migliori dell’Oriente, re pii sotto il cui governo il paese prosperò e si raffinò. Ora non solo è cancellata ogni traccia di vita, non solo il deserto con le sue sabbie e il suo silenzio distrugge le ultime opere dell’uomo, ma la decadenza spirituale offusca e attanaglia l'anima dei pochi sopravvissuti’.