giuliano

domenica 28 marzo 2021

(l'ecologia) DELLA LIBERTA' (11)

 










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L'Ecologia... (10)


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Capitolo [quasi] completo (12)


& L'industria anarchica (13/4)








L’inizio del secolo aveva visto l’emergere di un’arte intensamente sociale e messianica (il futurismo, l’espressionismo, il Bauhaus, per citare solo i più famosi) che era spiccatamente tecnologica, sia per ciò che esaltava sia nel suo sprezzante distacco dalle più pacate, riflessive e organiche tradizioni di tipo artigianale. L’influenza che, a quel tempo, la tecnica aveva sull’immaginario sociale era più feticista che razionale.

 

Perfino la prima guerra mondiale, durante la quale si fece un uso massiccio di nuove invenzioni tecnologiche per ammazzare milioni di persone, non intacca questo mito della tecnologia. Solo dopo la seconda guerra mondiale, con tutte le sue spaventose conseguenze, cominciano ad apparire nell’opinione pubblica i primi raggelanti dubbi sulla saggezza dell’innovazione tecnica.

 

Probabilmente, le armi nucleari, più di qualsiasi altro fattore, hanno contribuito a creare questa diffusa paura verso la tecnologia impazzita. Ma è solo con gli anni Sessanta che comincia a emergere uno spiccato orientamento anti-tecnologico, che si è evoluto nel complesso confronto tra le tecnologie pesanti (quelle dei combustibili fossili e nucleari, dell’agricoltura industrializzata e delle materie sintetiche) e le cosiddette tecnologie leggere o appropriate (quelle basate sull’energia solare, eolica e idrica, sulla coltivazione biologica e sull’industria di tipo artigianale, a misura umana).




Palesemente, ciò che oggi rende sempre più attraente la tecnologia appropriata non sono, in positivo, le sue promesse e le sue realizzazioni, ma piuttosto, in negativo, la crescente paura di starci irreparabilmente compromettendo con il distruttivo sistema della produzione di massa e dell’inquinamento ambientale.

 

 Gli artisti-messia della società tecnocratica sono scomparsi.

 

L’umanità sembra ora rendersi conto di essere stata irretita dalla tecnologia, di essere più una sua vittima che una sua beneficiaria. Se la prima metà del ventesimo secolo ha visto affermarsi l’alta tecnologia, la tecnologia pesante, come forma d’arte popolare (grazie al fatto che la grande maggioranza della popolazione del mondo industrializzato viveva ancora in piccole comunità, con una strumentazione tecnica quasi antiquata), la fine del secolo ha invece visto affermarsi la tecnologia appropriata come forma d’arte popolare (grazie al fatto che l’alta tecnologia ha rinchiuso in una gabbia dorata milioni di persone che ora si ammassano nelle metropoli e nelle autostrade del mondo occidentale).

 

Il cupo fatalismo che sta lentamente permeando l’atteggiamento degli occidentali nei confronti della tecnica deriva in larga parte dalla loro ambivalenza verso l’innovazione tecnologica. Alla mente moderna è stato insegnato a identificare la sofisticazione tecnica con il vivere bene e con una tendenza socialmente progressiva che culmina nella libertà umana. Ma nessuna di queste immagini è stata convenientemente chiarita, quanto meno non in una prospettiva storica.




Oggi, la grandissima maggioranza delle persone identifica il vivere bene (un termine che risale ad Aristotele) con la sicurezza materiale, se non addirittura con la vita opulenta.

 

Per quanto logica questa conclusione possa apparire ai nostri giorni, essa contrasta fortemente con le sue origini elleniche. La classica distinzione aristotelica tra il vivere soltanto (una vita in cui la gente è insensatamente spinta a un’acquisizione illimitata di ricchezze) e il vivere bene, cioè entro limiti dati, compendia il concetto di vita ideale dell’antichità classica (al di là del fatto che poi venisse effettivamente applicato).

 

Il vivere bene implica una vita etica in cui ognuno si preoccupa non solo del benessere della propria famiglia e dei propri amici, ma anche della polis e delle sue istituzioni sociali. Vivere bene, accettando limiti, voleva dire cercare di raggiungere l’equilibrio e l’auto-sufficienza, una vita piena e controllata. Ma l’auto-sufficienza, che per Aristotele sembra comprendere questa costellazione concettuale di ideali, non significa ciò che è auto-sufficiente per un uomo solo, per un uomo che vive una vita solitaria, ma anche per i suoi genitori, per i suoi figli, per sua moglie e, più in generale, per i suoi amici e concittadini, giacché l’uomo è nato per la vita civica.




La dicotomia tra l’immagine moderna di una vita materialmente opulenta e l’ideale classico di una vita che si auto-pone dei limiti corre parallela alla dicotomia tra il concetto moderno e il concetto classico di tecnica.

 

Per la mente moderna, la tecnica è semplicemente l’insieme di materie prime, di strumenti, di macchine e di congegni necessari a produrre un oggetto utilizzabile. Il giudizio ultimo sul valore e sulla desiderabilità di una tecnica è di tipo operativo: si basa sull’efficienza, sulle competenze e sul costo. In realtà, il costo riassume in sé quasi tutti i fattori che comprovano la validità di un risultato tecnico.

 

Al contrario, per la mente classica, la tecnica (o techné) aveva un significato molto più ampio. Esisteva in un contesto sociale ed etico nel quale, rifacendosi ai termini aristotelici, ci si chiedeva non solo come venisse prodotto un valore d’uso, ma anche perché. Dal procedimento al prodotto, la techné forniva sia il quadro di riferimento generale sia l’illuminazione etica dalla quale derivare un giudizio metafisico sul come e sul perché dell’attività tecnologica.

 

All’interno di questo quadro di riferimento etico, razionale e sociale, Aristotele distingueva tra i maestri artigiani di ogni mestiere, i più degni di rispetto, che conoscono in un senso più vero e sono più saggi dei lavoratori manuali e i loro subordinati, strettamente operativi, che agiscono senza sapere ciò che fanno, proprio come il fuoco brucia.




 I maestri artigiani, al contrario, agiscono con una lucidità e una responsabilità etica che rendono razionale il loro mestiere. La techné, oltretutto, copriva uno spettro di esperienze più ampio di quello coperto oggi dalla parola tecnica. Come spiega Aristotele nell’Etica nicomachea:

 

Ogni arte (techné) concerne il porre in essere, vale a dire l’inventare e il riflettere sul come possa essere posto in essere qualcosa che può essere o non essere, e le cui origini sono in chi produce e non nella cosa prodotta.

 

 Egli distingue il manufatto, comprese le opere artistiche come i capolavori architettonici e le sculture, dai fenomeni naturali che hanno origine in se stessi. Di conseguenza, la techné è la condizione del fare, che implica un vero e proprio procedimento razionale. È potenza, un tratto essenziale che la techné condivide con il bene etico.

 

Tutte le arti, cioè le forme produttive di conoscenza, sono potenze; esse infatti determinano la trasformazione in un altro oggetto o nello stesso artista considerato come altro.

 

Osservazioni etiche e metafisiche di così vasta portata indicano quanto sia diversa l’immagine classica di techné dalla moderna immagine di tecnica.

 

Il fine della techné non è ristretto al solo vivere bene, cioè al vivere nel limite, esso include una vita etica basata su un principio creativo e ordinativo concepito come potenza.




Vista anche in senso strumentale, la techné comprende non solo le materie prime, gli strumenti, le macchine e i prodotti, ma anche il produttore; in breve, un soggetto altamente sofisticato dal quale si origina tutto il resto. Per Aristotele, il maestro artigiano si distingue soggettivamente dai suoi assistenti e dai suoi apprendisti in virtù dell’onore, del senso del perché i prodotti vengono creati e, più in generale, per la sua conoscenza delle cose e dei fenomeni. Partendo dalla razionalità del soggetto Aristotele stabilisce anche un punto di partenza per introdurre la razionalità nella produzione dell’oggetto.

 

La produzione industriale moderna funziona esattamente nel senso inverso.

 

Non solo l’immagine moderna di techné è limitata alla mera tecnica, nel senso strumentale del termine, ma oltretutto i suoi fini sono inestricabilmente legati con la produzione illimitata. Lo stesso vivere bene è concepito come consumo illimitato all’interno di un quadro di riferimento contrassegnato solo dall’interesse privato. La tecnica, inoltre, non comprende il produttore e i suoi criteri etici (i proletari, dopotutto, servono in completo anonimato il moderno apparato industriale), bensì il prodotto e le sue componenti.

 

L’epicentro della tecnica si sposta dal soggetto all’oggetto, dal produttore al prodotto, dal creatore al creato. L’onore, il senso del perché e la più generale conoscenza delle cose e dei fenomeni non hanno più posto nel mondo voluto dall’industria moderna. Ciò che conta realmente nella tecnica sono l’efficienza, la quantità e un’intensificazione del processo lavorativo. Il tipo di razionalità speciosa utilizzata nella produzione dell’oggetto viene abilmente introdotto nella razionalizzazione del soggetto, al punto che la soggettività del produttore è totalmente atrofizzata e ridotta a oggetto tra oggetti.




In effetti, l’oggettivazione della soggettività è la conditio sine qua non per la produzione di massa. Non appena un pensiero o una parola diventano uno strumento, si può fare a meno di ‘pensarli’, cioè di compiere gli atti logici impliciti nella formulazione verbale di essi osserva Horkheimer, e aggiunge: Come spesso e giustamente si è fatto notare, il vantaggio della matematica – modello di tutto il pensiero neo-positivista – sta proprio in questa economia intellettuale.

 

Complicate operazioni logiche vengono eseguite senza ripercorrere le operazioni intellettuali su cui si fondano i simboli logici e matematici. Una meccanizzazione del genere è certamente essenziale all’espansione industriale; ma se investe tutti i processi intellettuali, se la ragione stessa è ridotta alla funzione di strumento, essa assume una sorta di materialità e di cecità, diventa un feticcio, un’entità magica accettata più che intellettualmente sperimentata.

 

Le osservazioni di Horkheimer, pur se apparentemente si riferiscono all’impatto avuto da una nuova tecnica su una soggettività tradizionale in declino, potrebbero essere altrettanto facilmente lette come una descrizione degli effetti prodotti dall’impatto di una nuova soggettività su una tecnica tradizionale in declino, con ciò non intendo sostenere che la tecnica derivata da questa soggettività non l’abbia a sua volta rinforzata; ma se leggo correttamente i fatti della storia, è lecito affermare che già molto tempo prima che la produzione di massa facesse la sua comparsa, si era ampiamente verificata la disintegrazione della vita comunitaria e si erano formate le prime masse sradicate, atomizzate e spodestate, precorritrici del moderno proletariato.




Questo sviluppo procede parallelo al formarsi di una nuova raffigurazione del mondo evocata dalla scienza: un mondo fisico senza vita, composto di materia e di moto, che precede le imprese tecniche della rivoluzione industriale.

 

La tecnica non esiste nel vuoto e non ha vita autonoma.

 

Il pensiero ellenico, che aveva giustamente unificato arte e mestiere sotto la voce techné, aveva altresì legato entrambi al sistema di valori e alle istituzioni della società. Secondo questa impostazione, la sensibilità, le relazioni sociali e le strutture politiche sono componenti essenziali della tecnica tanto quanto le intenzioni materiali del produttore e i bisogni materiali della società. In effetti, la techné veniva concepita in modo olistico, nel senso che noi oggi usiamo per descrivere un ecosistema.

 

Le competenze, i congegni e le materie prime erano in varia misura collegati a quell’insieme razionale, etico e istituzionale su cui si basa la società, costituendo un tutt’uno integrato. Se oggi quegli aspetti extra-tecnici come la razionalità, l’etica e le istituzioni sociali appaiono sterili e più inorganici di quelli di un tempo, è perché la tecnologia, nel senso moderno del termine, è essa stessa più inorganica. E non già perché la tecnica moderna oggi determini il sovratecnico, ma piuttosto perché la società si è spinta verso l’inorganico per quanto concerne il proprio tessuto sociale e le proprie forme strutturali.




 Oggi si rivela necessaria un’immagine più chiara di ciò che si intende per tecnica: dei problemi di sensibilità che solleva, delle funzioni che assolve e, naturalmente, dei pericoli e delle promesse latenti nell’innovazione tecnica. Limitare la discussione ai soli progressi nelle competenze, nella strumentazione e nella scoperta di materie prime vuol dire accettare un approccio molto superficiale al problema. Se non si esaminano i cambiamenti verificatisi nella società, che l’hanno in diversa misura aperta o chiusa all’innovazione tecnica, troveremo grosse difficoltà a spiegare perché quel vasto insieme di conoscenze tecniche di recente scoperta non sia riuscito a influenzare le interrelazioni sociali, pur essendo apparentemente riuscito a determinare la loro forma in un altro luogo e in un altro tempo.

 

Affermare che una data società era pronta per la bussola, per la stampa a caratteri mobili o per la macchina a vapore mentre un’altra non lo era, vuol palesemente dire che non si tiene conto dei rapporti che intercorrono tra società e tecnologia.

 

(M. Bookchin; Ecologia e Libertà)









RACCONTI DELLA DOMENICA (9)


















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Stabilità!













....Nell’abisso Trovatori e Eretici pensatori e rimatori che gli erano stati aperti nemici o non lo avevano favorito, e glorificato in cielo quelli che gli si erano mostrati ligi; i poeti tennero altro modo e fecero altra scelta, ed ebbero agio di mordere acremente l’avarizia, la simonia, la scostumatezza del clero quanto della corrotta società detta civile nonché fervida credente.
Di qual Dio ci sorge questio…
E così, l’arma che il sacerdozio podestà e re  avevano maneggiato a loro difesa, eragli volta contro ad offesa; e quei racconti dei quali fino allora il popolo aveva avuto terrore, davano occasione alle grasse risate che si rinfrancavano della sofferta paura. Anche qui il campo è assai vasto, e debbo contentarmi di alcuni esempi, tratti da quelle letterature che i Trovatori e i Cantores diffusero ben presto nelle corti e nelle piazze della nostra penisola.
Taluna volta il soggetto dall’inferno e del paradiso e la forma della visione porgono modo al poeta di esporre, per mezzo di simboliche personificazioni, com’era vezzo di quell’età, un certo ordine di morali dottrine; e in tal caso si direbbe ch’ei voglia soltanto provare le forze della sua fantasia e la copia della scienza.
Ma scusatemi proprio mentre mi diletto in questa breve commedia senza pretesa si sente colpo del loro ardire…




- Accorri accorri accorri, uom, a la strada!
- Che ha’, fi’ de la putta? - I’ son rubato.
- Chi t’ha rubato? - Una che par che rada
come rasoio, si m’ha netto lasciato.
- Or come non le davi de la spada?
- I’ dare’ anz’a me. - Or se’ ’mpazzato?
- Non so che 'l dà, così mi par che vada.
- Or t’avess’ella cieco, sciagurato!
- E vedi che ne pare a que’ che ’l sanno?
- Di’ quel che tu mi rubi. - Or va con Dio,
ma anda pian, ch’i’ vo’ pianger lo danno,
ché ti diparti. - Con animo rio!
- Tu abbi ’l danno con tutto ’l malanno!
- Or chi m’ha morto? - E che diavol sacc’io?


Quanto un granel di panico è minore
del maggior monte che abbia veduto;
e quanto è ‘l bon fiorin de l’or migliore
di qualunca denaro più minuto;
e quanto m’è più pessimo el dolore
ad averlo, e l’ho, ch’a averlo perduto:
cotant’è maggio la pena d’amore,
ched io non averei mai creduto.
Ed or la credo, però ch’io la provo
en tal guisa che, per l’anima mia,
di questo amor vorrìa ancor esser novo.
Ed ho en disamar quella bailìa
c’ha’ pulcinello ch’è dentro da l’ovo,
d’uscir ‘nnanzi chied el’ suo tempo sia.




Eccomi di nuovo in cella con Secondo secondino ed il suo elmetto spaziale vede quanto a noi non concesso, spazia nell’altrui natura e noi creiamo quanto a lui fa difetto in ciò che lui tortura - strano homo se pur ama odia la sua Beatrice - e con Lei ragionevole Intelletto…
Tutto lo contrario dello sano amore…
Lo dicono anco cacciatore e non certo nobile recc…   
Si riconosce per il colpo violento non certo antico al fuoco nato e condiviso come quelle scimmie donde deriva la propria falsa ragione di vita nell’odissea di una vista con cui le stelle sono soliti comporre le Visioni alla Parabola della nuova creazione…
Secondo secondino urla scalcia e del Convivio ne fa banchetto la sua è pur moderna scienza… ed io Standing ritorno bambino e medito la Memoria, quella cosa, cioè, con cui si dimentica, c’è un quid in più di quel granello di verità che s’annida anche nelle cose sbagliate come dicea l’amico Cecco…
Se riuscire a dimenticare è segno di sanità mentale, il ricordare senza posa è ossessione e follia. Di conseguenza, il problema che mi trovai ad affrontare in isolamento e la piena dei ricordi che cercava di impossessarsi di me, era l’oblio. Tutti i ricordi che cercano cancellare o ancor peggio abdicare ad un falso e contrario ordine dell’Intelletto… giacché cadere in ugual errori non comportamento da stolti ma forse più da idioti…




Così ragionavo fra me e me, e saprete presto con quale esito. Prima, però, voglio narrarvi di queste esperienze di altri mondi che ebbi da fanciullo. Avevo brillato in quelle nuvole di gloria che mi portavo dietro da precedenti vite. Come tutti i ragazzi, ero stato perseguitato dagli esseri che avevo fuggito in altri tempi. Ciò avveniva nel corso del mio processo di formazione, prima che il flusso di tutto quanto ero stato prima si addensasse nello stampo di quella personalità che gli altri uomini avrebbero conosciuto – per non molti anni – come Darrell Standing.
Permettetemi di raccontare una Visione risalente a quando vivevo nel Minnesota, nella fattoria della mia infanzia. Avevo quasi dieci anni. Aveva trascorso la notte da noi un missionario che era stato in Cina e, una volta tornato negli Stati Uniti, era stato inviato dal Consiglio delle Missioni a raccogliere fondi presso gli agricoltori. La cosa accadde in cucina, subito dopo cena mia madre mi aiutava a spogliarmi prima di andare a letto ed il missionario mostrava alcune fotografie della Terra Santa.
…Ti metterò alla prova con una fotografia, disse il prete, guarda e osserva…
‘E’ tutto diverso, qui’, risposi, scrutando la fotografia con aria di disappunto. ‘Non c’è nulla, tranne questa collina, e quelle altre là. In questo punto dovrebbe esserci una strada campestre, là invece ci dovrebbero essere giardini, alberi e case riparate dietro grossi muri di pietra. Laggiù, dall’altro lato, dovrebbero trovarsi i buchi scavati nella roccia in cui venivano seppelliti i morti. Lo vedete questo punto? Qui scagliavano pietre contro gli uomini, finché non li uccidevano. Personalmente non l’ho mai visto, me lo hanno raccontato’.
‘E la collina?’ chiese il prete indicando la parte centrale dell’immagine, dove si innalzava la collina che sembrava il vero soggetto della fotografia. ‘Ci sai dire come si chiama?’.
Scossi il capo.




‘Non ho mai avuto nomi. Vi uccidevano la gente. L’ho visto più di una volta’.
‘Su questo il ragazzo è in pieno accordo con la maggioranza degli esperti’, disse il prete con aria di soddisfazione. ‘La collina è il Golgota, - il luogo dei teschi -, forse detto così perché, come potete vedere, somiglia a un teschio. Qui crocifiggevano…’.
A questo punto si interruppe e si volse verso di me.
‘Chi crocifiggevano, mio piccolo erudito? Dicci che altro vedi’.
‘Non ve lo voglio dire, poiché voi vi fate beffa di me. Ho visto mettere a morte un gran numero di uomini, in questo posto. Li inchiodavano ad una croce… ci voleva molto tempo… ma non ve lo voglio dire. Io non dico bugie, chiedetelo a mamma e papà…
‘Diventerà certamente un ottimo studioso della Bibbia’, disse il missionario a mio padre e a mia madre…’.
Tutto ciò ci dimostra fino a che punto ci si può sbagliare con le profezie….
…Io sono qui, nel braccio della morte degli assassini, intento a scrivere queste righe sui miei ultimi giorni di vita, o, per dir meglio, sugli ultimi giorni di vita di Darrell Standing, prima che lo tirino fuori dalla cella per metterlo su una croce in questa collina dove mi trovo…. 
Questa bella collina con tanto di cascata ove il teschio coltiva medesima passione….




Poi il capobraccio Jamie e il dottor Jackson abbozzarono un sogghigno ...beffardo... ed il direttore, sbuffando, aprì la marcia e i quattro uscirono dalla mia cella.
Rimasto solo, non vedevo l’ora di immergermi nell’oscurità e di tornare a Nephi, ai carri della carovana sistemati in circolo. Non mi importava nulla di quel sudicio eremita che si strofinava le costole contro la roccia e beveva da un fetido otre né tantomeno del prete e delle sue fotografie: volevo conoscere la fine della fatale avanzata dei quaranta carri attraverso una terra desolata e ostile.
Riuscii a tornare indietro, non a Nephi né al Nilo, ma…
 ... Ma a questo punto, caro lettore, devo interrompere il racconto e spiegare alcune cose che ti renderanno più agevole la comprensione del tutto. Sono costretto a farlo, perché il tempo che mi resta per completare la storia di quello che mi è successo quando ero nella camicia di forza è limitato. Fra non molto, anzi fra pochissimo tempo, mi condurranno fuori, i bulli hanno deciso la triste sorte. Del resto, anche se potessi disporre di mille vite, non potrei mai ricostruire nei dettagli quelle esperienze.
Pertanto, debbo accorciare il racconto...




Voglio dire innanzitutto che Bergson ha ragione: la vita non si può descrivere in termini puramente razionali. Come ha detto Confucio tanto tempo fa: ‘Se della vita conosciamo così poco, che cosa possiamo sapere della morte?’.
Proprio così, visto che non riusciamo a descrivere l’esistenza in termini razionali. La conosciamo ‘fenomenicamente’, allo stesso modo in cui un selvaggio può conoscere una mano, ma non sappiamo nulla della sua essenza noumenica, nulla della natura ultima della vita.
Io affermo - e tu, lettore, sai che ho l’autorità per farlo - che la materia altro non è che illusione…
...La vita è molto di più che semplice e rozza materia chimica, che nelle sue fluttuazioni assume quelle forme elevate che ci sono note. La vita persiste, passando come un filo di fuoco attraverso tutte le forme prese dalla materia.
Lo so!
Io sono la vita...
Sono passato per diecimila generazioni, ho vissuto per milioni di anni, ho posseduto numerosi corpi.
Io, che ho posseduto tali corpi, esisto ancora, sono la vita, sono la favilla mai spenta che tuttora divampa, colmando di meraviglia la faccia del Tempo, sempre padrone della mia volontà, sempre sfogando le mie passioni su quei rozzi grumi di materia che chiamiamo corpi e che io ho fuggevolmente abitato.




Guardate: questo dito, così sensibile,così delicato nelle sue molteplici abilità, fermo e forte a sufficienza per flettersi, piegarsi o irrigidirsi per mezzo di leve straordinarie, ebbene questo dito non sono io.
…Mozzatelo...
IO CONTINUERO’ A VIVERE!
E’ il corpo ad essere mutilato, non io.
Lo spirito, che coincide con il mio io, resta intatto
...MOLTO BENE...
E ora tagliatemi tutte le dita (voi ne siete capaci, lo sappiamo..).
IO RESTO ‘IO’.
LO SPIRITO RIMANE INTEGRO.
Tagliatemi tutte e due le mani, tutte e due le braccia (lo avete già fatto per secoli...) all’altezza dell’attaccatura delle spalle, tagliatemi (pure) le gambe all’altezza dei fianchi…
ED IO SOPPRAVVIVERO!
Indomito e indistruttibile...
FORSE CHE VOI PENSATE che queste mutilazioni, queste sottrazioni di carne, tolgono qualcosa al mio io?
CERTAMENTE NO!
Radetemi i capelli a zero, toglietemi a rasoiate le labbra, il naso, le orecchie (e ridete mentre lo fate, vi do’ questo umile consiglio),sì, cavatemi gli occhi fino alla radice: entro quel teschio informe attaccato a un tronco mutilato e mozzo ancora vive una cellula di carne chimica che è il mio io intatto, integro...
PIU’ FORTE DI PRIMA...
 MA IL CUORE BATTE ANCORA (non lo sentite....)!
Molto bene, strappatemelo…
Meglio ancora, infilate ciò che resta della mia carne in una macchina provvista di mille lame, fatene brandelli ed io…
…NON CAPITE?!
IO, vale a dire lo SPIRITO, IL MISTERO, IL FUOCO VITALE, la mia stessa vita, RESTERANNO LIBERI.
IO NON SONO PERITO!
IO SONO LA VITA!

(J. London, Il vagabondo delle stelle)

















martedì 23 marzo 2021

(curare il futuro) NAUFRAGIO... (8)

 

























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Del Viaggio... (7/1)


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Capitolo completo...(9)


& l'Ecologia della libertà (10/12)








Quei bilanci di chiusura, buoni per guardare serenamente a una umanità tutta unita e pacificata lasciandosi alle spalle barriere identitarie e rancori nazionalistici, cozzavano sempre più con una esplosione incontrollabile di etnie, religioni e tradizionalismi chiusi, intolleranti e arcigni verso chi bussava alla porta del ricco Occidente.

 

Un fatto è certo: siamo davanti a un mutamento profondo.

 

Cambiano le generazioni e i figli assomigliano ai loro tempi più che ai loro padri, come scrisse Marc Bloch. La prospettiva delle nuove generazioni si è fatta diversa da quella dei loro padri, il mondo umano è cambiato, gli spazi e i tempi nuovi sono diversi dagli antichi, quelle che sembravano conquiste ferme e indiscutibili devono di nuovo sottoporsi alla prova della nuova configurazione del mondo. E chi profetizzava la fine della storia è stato presto disingannato. Quello che invece si è fatto sempre più evidente è un processo che potremmo definire di distruzione del passato.




La definizione non ci appartiene.

 

È stato Eric Hobsbawm nel suo celebre Secolo breve a individuare questo fenomeno con parole degne di attenta lettura:

 

La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più brutali degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.

 

Da quando sono state scritte queste parole il fenomeno si è fatto sempre più evidente, tanto da suscitare diversi allarmi dando vita a diagnosi di vario genere.




Oggi si va dicendo che una nuova malattia sociale incomberebbe su di noi: quella della Memoria. Inevitabile pensare per analogia alla patologia individuale dell’Alzheimer. Ma mentre questa suscita angoscia al solo evocarla, l’offuscarsi della coscienza e della conoscenza storica nella società sembra passare quasi inavvertito.

 

Eppure è un fenomeno diffuso in molti ambienti e in diverse fasce sociali, minaccia specialmente le nuove generazioni e il mondo della scuola e devasta quello della politica. La cosa non riguarda solo l’Italia: affligge anche altri Paesi di un’Europa formalmente unita eppure resa da questa malattia sempre più fragile e spesso irriconoscibile.

 

È l’Europa in primo luogo colei che appare oggi nel mondo come smarrita e dimentica della sua grande eredità culturale. Da molti anni la delusione per la costruzione europea nasce soprattutto davanti alla perdita di Memoria di una grande realtà risorta dalle macerie e dalle ceneri di milioni di vittime col proposito di restaurare il ricordo e il rispetto dei suoi valori ideali ma che sembra tornare sempre più indietro: tanto indietro da  scambiare per valori europei quelli finanziari di borse e banche….





C’è voluto il ritorno del flagello biblico del Covid-19 o altrimenti detto coronavirus perché voci isolate richiamassero alla consapevolezza dell’esistenza di valori superiori a quelli della finanza e della produzione di ricchezza: per esempio, quello della tutela della semplice e nuda vita umana, la si ritenga dono divino o frutto del caso.

 

Oggi la minaccia di una pandemia globale costringe credenti e no, cultori del Vangelo o dei valori illuministici, a incontrarsi e riconoscersi d’accordo sulla vera scala dei valori.

 

Ma intanto bisogna fermarsi a riflettere sul problema della perdita del senso della Storia e del generale declino di questa dimensione, negli studi e nella società. È da tempo che i sociologi mandano segnali d’allarme e parlano di perdita di Memoria collettiva e di ignoranza della nostra storia recente e delle sue tragedie. Ma è anche da tempo che si moltiplicano segni di allarme davanti a precisi segnali di una tendenza diffusa, con ripetute quanto vane denunzie delle responsabilità delle classi dirigenti e dei poteri pubblici.




Il fenomeno è aggravato dalla poca cura dedicata (alla Natura e con essa) alle biblioteche, archivi e musei, considerati enti inutili e non redditizi, colpiti da continue riduzioni di personale, mezzi e strumenti. Ed è rimasta inascoltata la voce di un grande storico e combattente per la libertà come Franco Venturi che nel lontano 1968 scriveva queste parole: 

 

L’Italia è […] uno dei paesi in cui è più difficile e faticoso giungere a contatto con i testi e i documenti […] Siamo l’unico paese civile a non possedere una biblioteca nazionale, una biblioteca, intendo, in cui ci si possa ragionevolmente attendere di trovare qualsiasi libro e foglio apparso in ogni angolo del proprio paese, dall’invenzione della stampa ad oggi.

 

La questione della Memoria difettosa o deformata rende di nuovo attuali le esperienze e i suggerimenti ereditati da culture diverse o più antiche, facendoci scoprire quanto delicata e preziosa sia sempre stata considerata questa facoltà della nostra specie, che essendo priva dell’istinto ereditato dalle altre specie viventi ha dovuto inventare tecniche apposite per rimediare.

 

Così si è riaccesa la curiosità per le arti della memoria, nel tentativo di capire che cosa le abbia fatte ritenere importanti nel passato della grande tradizione occidentale.




La loro caratteristica fondamentale era quella di connettere parole e immagini. Oggi quella più sviluppata e che ci è più familiare nella vita quotidiana sembra essere la connessione tra luoghi e memoria: a lei hanno dedicato la loro attenzione antropologi come Mary Douglas e Pierre Bourdieu.

 

Ma c’è una soglia fondamentale che divide il mondo moderno dall’età preindustriale. Come ha ricordato Paul Connerton rifacendosi a Karl Marx,

 

il mondo moderno è il prodotto di un gigantesco processo di lavoro e la prima cosa che viene dimenticata è proprio questo processo.

 

Questo perché il modo di produzione capitalista ha reificato il tempo del lavoro incorporato nel prodotto trasformandolo nel ‘feticcio della merce’. E il processo di cancellazione della Memoria del lavoro e dei luoghi e delle storie di chi vi è impiegato è diventato travolgente con l’avvento della finanziarizzazione dell’economia capitalistica e col trionfo del neoliberismo.


[Prosegue nel Capitolo completo]

 

(A. Prosperi, un tempo senza Storia)








domenica 21 marzo 2021

RACCONTI DELLA DOMENICA ovvero un naufragio psicologico (Seconda parte) (6)

 






















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Del Naufragio... (5/1)


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Domani!


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Racconti della Domenica (8/9)








Giacevo in una cuccetta circondato dall’ambiente familiare della cabina di lusso di un piroscafo. Su un divano di fronte a me era seduto un uomo, semisvestito per andare a letto, che stava leggendo un libro. Riconobbi il volto del mio amico Gordon Doyle, che avevo incontrato a Liverpool il giorno del mio imbarco, quando anch’egli stava per salire a bordo del piroscafo Città di Praga, sul quale mi aveva pregato di accompagnarlo.

 

Dopo qualche istante pronunciai il suo nome.

 

Si limitò a dirmi: Bene e voltò pagina senza distogliere lo sguardo dal libro.




Doyle,

 

ripetei

 

l’hanno salvata?

 

A quel punto si degnò di guardarmi e sorrise divertito.

 

Evidentemente pensava che fossi mezzo addormentato.

 

L’hanno salvata? A chi ti riferisci?

 

A Janette Harford.




 La sua espressione divertita si trasformò in stupore; mi fissò senza aprire bocca.

 

Me lo dirai tra un po’,

 

proseguii

 

penso che me lo dirai tra un po’.

 

Un attimo dopo gli chiesi:




Che nave è questa?

 

Doyle mi fissò di nuovo.

 

Il piroscafo Città di Praga, diretto da Liverpool a New York, in viaggio da tre settimane con un albero spezzato. Primo passeggero, signor Gordon Doyle; secondo, e pazzo da legare signor William Jarrett. Questi due viaggiatori di riguardo si sono imbarcati insieme, ma sono sul punto di dividersi,  avendo il primo preso la ferma decisione di gettare in mare il secondo.

 

Mi misi a sedere dritto come un fuso.




 Intendi dire che sono a bordo di questo piroscafo da tre settimane?

 

Si, più o meno; oggi è il 3 luglio.

 

Non sono stato bene?

 

Sei sempre stato benissimo, e puntuale ai pasti.




Mio dio! Doyle, qui c’è qualcosa che non torna; cerca di essere serio. Non mi hanno salvato dal naufragio della nave Domani?

 

Doyle cambiò colore, e avvicinandosi mi prese per un polso. Un attimo dopo mi chiese con calma:

 

Che cosa sai di Janette Harford?

 

Prima dimmi cosa ne sai tu di lei.

 

Il signor Doyle mi guardò per un attimo come se stesse riflettendo sul da farsi, poi, risedendosi sul divano, disse:




 Perché no? Sto per sposare Janette Harford, che ho conosciuto a Londra l’anno scorso. La sua famiglia, una delle più ricche del Devonshire, ha reagito in malo modo e noi siamo fuggiti insieme… anzi, stiamo fuggendo, perché il giorno in cui io e te ci recavamo sul pontile per imbarcarci su questo piroscafo, lei e la sua fedele cameriera negra ci hanno superati, mentre si dirigevano verso la nave Domani. Non voleva viaggiare sulla mia stessa nave, e abbiamo ritenuto più opportuno che si imbarcasse su un veliero, per evitare che la vedessero e per ridurre il rischio che la scoprissero. Adesso temo che questo maledetto guasto ai macchinari ci faccia perdere così tanto tempo che il Domani arriverà a New York prima di noi, e quella povera ragazza non saprà dove andare.

 

 Giacevo immobile nella cuccetta, così immobile che respiravo a mala pena. Ma, evidentemente, l’argomento non dispiaceva a Doyle, che, dopo una breve pausa riprese:




 A proposito, Janette è solo una figlia adottiva degli Harford. La madre morì a casa loro in seguito a una caduta da cavallo durante una battuta di caccia, e il padre, pazzo di dolore, la fece finita quel giorno stesso. Nessuno venne a cercare la bambina, e dopo un ragionevole lasso di tempo, l’adottarono. È cresciuta con la convinzione di essere figlia loro.» «Doyle, che libro stai leggendo?

 

Oh, si intitola Le meditazioni di Denneker. È un libro bizzarro, me l’ha dato Janette; per caso, ne aveva due copie. Lo vuoi vedere?

 

Mi passò il volume, che, cadendo, si aprì.




 Su una delle pagine aperte c’era un paragrafo sottolineato:

 

A molti è concesso di staccarsi e di separarsi temporaneamente dal corpo; poiché, come nei ruscelli il cui corso s’incrocia il più debole viene trascinato dal più forte, così in certi soggetti affini, le cui strade si incontrano, le anime si fanno compagnia, mentre i corpi, ignari, seguono strade decise in precedenza.

 

Aveva… ha… degli strani gusti letterari

 

riuscii a dire dominando l’agitazione.




 Sì. E adesso, forse, sarai così gentile da spiegarmi come facevi a conoscere il suo nome e quello della nave su cui si è imbarcata.

 

 Hai parlato di lei nel sonno

 

…dissi.


 Una settimana dopo venimmo trainati nel porto di New York.

 

Ma non si ebbero più notizie del Domani.

 

(A. Bierce)