giuliano

domenica 28 novembre 2021

LA VISTA (29)

 










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Meccanica e meccanismo (28)


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Dogmatismo e Dogmatica  







[ *Ed io a lui:

 

Privilegiando nella volontà tradotta dell’artista una ‘luce’ con la quale miriamo un aspetto della stessa nella totalità dell’Opera compiuta da quando nato il pittogranma di cui futura parola, riducendo però la vastità della prospettiva evidenziata ad una tecnica figlia del suo e nostro tempo. L’evoluzione detta non scorre al contrario nella scelta di un singolo aspetto che fanno della luce, con la sua micro e macro suddivisione, anima dell’arte, riducendo ad un formalismo la bellezza di quanto ammirato ed evoluto, ma bensì nel puntinato di quanto ugualmente scorto adeguando i parametri nell’ottica più congeniale alla volontà del termine il quale sottintende, altrimenti ridurremmo l’esperienza della puntinata visione ad un accademico principio, di cui io e la mia guida riconosciamo in cotal salita e discesa, la volontà di comprendere più di quanto nell’enunciato raccolto e postulato…




 Adottando lo stesso principio formale ci adeguiamo quanto dal Gould postulato e lo adattiamo alla nostra ‘Gallerie di stampe’ ed esuliamo dal punto prospettico di questa in infiniti crescendi e certe prospettive della stessa evoluzione letta ed ammirata. Giacché il Seraut  svela non volendo la manifesta coscienza dello scienziato ponendo il nostro essere ad un nuovo (quanto antico) confino, di cui ogni sapere, e ciò che ne deriva, formare quelle ortodossie o eterodossie in seno ad ogni dottrina, riproponendo ugual espressioni di intolleranza…; ma al contrario, riprospettiamo ed adeguiamo il traguardo per ogni opera maturata dalla e nella ricerca per ogni nuova teoria in conformità alla vastità prospettica la qual vuole conferire al dono dell’universale sapere… verità agognata… Rapportando la lunga stasi documentata, e non solo dal Gould, ad una singola evoluzione in merito alla stessa prospettiva la qual però, come detto, esula e sfugge (come direbbe Godel) dal progressivo contesto in cui enumerata…




Infatti nella logica di una immobilità postulata muoviamo e rileviamo Pensiero di una perenne stasi dallo gnosticismo ampiamente rivelata… La progressione nasce e muove l’intento dallo scienziato quanto dal pittore detto preso qual esempio, per conferire alla ‘Galleria di stampe’ certezza di stasi nel momento in cui la luce, così come per il Brunelleschi la prospettiva, divengono immagine ed arte confacenti al dono della vista più completa nella dimensione cui la stessa prospetta… Però, pur essendo punti di fuga in statici principi protratti nei secoli, riconosciamo in cotal evoluzioni un circoscritto intento delimitare le scientifiche dottrine reclamate e suddivise e giammai specchio prospettiva e luce di universale ingegno.




 Mi spiego ancor meglio: se il puntinato e la sua manifestazione nella duratura o limitata stasi assieme alla prospettiva con il suo punto di fuga e la luce per il post impressionista rappresentano evoluzioni nella materia che sottintendono, abbiamo perso, però, quella capacità di rapportare il tutto dal tutto nato all’universale essere evoluto motivo e principio di questo e/o altro studio, giacché questo intende (o fors’anche ed ancor meglio sottintende) nel progresso del detto ingegno anche corrispondenza e certa appartenenza alla spirale di cui specchio… 

Delimitando ed enunciando il confino tra stasi ed il successivo cammino nato in ragione di quanto fin qui raccolto al fossile di cui specchio da quando il Tempo… Ragion per cui se ad oggi il pixel adotta ugual evoluzione dello scienziato da un artista nato ed evoluto, in difetto però, della medesima stasi che rapporterà e tradurrà quanto di concretamente ‘accertato’ entro i più reali termini di quanto non propriamente ‘assommato’ o meglio ‘risolto’ dalla stessa geologica dottrina la quale spiega il conformarsi della vita da una cellula nata e poi fino ad un pensiero prima glutterato e poi più ampiamente cogitato… 




Poi di nuovo frammentato in ‘pittogramma’ di limitato contenuto alla parete di cui compone statico e puntinato motivo… cui il pixel conferisce immagine appropriata… alla luce nata… Riducendo l’universale evoluzione detta ed il simmetrico presunto suo sapere ad un puntinato contenuto enunciato, però, nella stasi di un battito di ciglia qual certa e reale comprensione circa il tutto… In quanto successioni graduali di una stasi protratta nel senso gnostico del Tempo e non certo punti di equilibrio di saggia evoluzione, e con questo penso di aver tradotto l’arcana parola rilevata, in quanto lo abbiamo più volte detto, in verità e per il vero, se pur il Tempo nello Spazio scorre ed enumeriamo i secoli e l’uomo un Secondo rispetto alla consistenza di quanto presidiato, da quando cioè, pone parola e pensiero, in verità siamo fermi in stasi protratte nel fattore dello stesso (tempo)… 

Così non facciamo che dar ragione della nostra universale pazzia nell’aver confermato che non è sufficiente prospettiva e luce per svelare qual si voglia mistero ma una capacità di coniugare ed elevare la dimensione a ciò di cui non visto, solo percepito, nel contesto che fanno della vera evoluzione un gradino più elevato per la globale comprensione… nella stasi cui l’opera compone la propria visione… Giuliano Lazzari; L’Eretico Viaggio; punti di equilibrio ]


  

Una proiezione del medesimo principio (orientato però in una direzione diversa) è offerta dalle fotografie realizzate attraverso tre filtri luminosi e il successivo congiungimento delle tre immagini mediante una lanterna magica oppure mediante la loro scomposizione per mezzo di un retino, con successiva stampa in tre colori (la comune fotografia tricromatica).

 

Gli esempi qui citati dimostrano come gli strumenti da noi presi in esame siano effettivamente delle organoproiezioni. Ma se le cose stanno davvero così (e non per una coincidenza casuale, bensì in virtù dell’essenza stessa della produzione tecnica), occorre ritenere che tutti gli strumenti siano tali e non soltanto “taluni” e che nella natura medesima dell’utensile sia insita la necessità di essere la proiezione di questo o quell’organo.

 

In tal caso, dovremo porci una duplice domanda: in primis, proprio tutti i nostri organi hanno la loro proiezione nella tecnica umana?

 

E, in secundis: davvero ogni strumento è la proiezione di uno dei nostri organi?




 Com’è evidente, la risposta alla prima questione non potrà essere che negativa. La nostra tecnica si evolve continuamente. Non intendo con questo affermare che essa si evolva senza soluzione di continuità in tutta la durata storica, ma solo che appaiono strumenti che in una certa fase della storia e presso una data cultura non esistevano; inoltre, compaiono strumenti costruiti secondo nuovi principi.

 

E non c’è motivo di credere che una tale produzione debba essere limitata e non possa proseguire indefinitamente. Di conseguenza, ogni stadio dell’evoluzione tecnica non è definitivo e, pertanto, in un dato momento storico non tutti gli organi e non tutte le parti degli organi trovano la loro proiezione nella tecnica.

 

Il compito storico della tecnica consiste nel continuare deliberatamente con le proprie organoproiezioni, fondandosi sulle soluzioni fornite inconsapevolmente dalla germinazione corporea dell’anima.




Come la natura, – dichiara du Prel – risolve i suoi compiti organici in base al principio della dispersione minore di forze, delineandosi come archetipo della tecnica, così quest’ultima dovrà imitare la natura, come del resto ha sempre fatto inconsciamente. Ma, per raggiungere la soluzione ideale dei fini che si propone, essa dovrà innalzarsi fino all’imitazione consapevole della natura […] Solo se la tecnica prenderà a imitare consapevolmente la natura, potrà sorgere la speranza che la sua evoluzione non dipenda dal caso, simile a una caccia a occhi bendati e che si realizzi la profezia di Francis Bacon, barone di Verulam: ‘Insieme all’invenzione andrà perfezionandosi anche l’arte d’inventare’.

 

E questa è la risposta alla prima domanda; una risposta dal carattere meramente preliminare, poiché il suo contenuto si amplierà in misura considerevole non appena prenderemo in esame anche la seconda delle questioni da noi poste, vale a dire: davvero tutti gli strumenti sono la proiezione dei nostri organi?

 

Fu proprio quest’interrogativo (concepito in maniera erronea) a spingere Ernst Mach a replicare alla teoria sulla produzione tecnica di Kapp, affermando che essa ‘avvolge di una fitta nebbia il pensiero di Spencer e che per suo tramite ‘si potrà pervenire soltanto a una ‘filosofia’ fantastica’ della tecnica. ‘È incerto – obietta Mach – quale organo si proietti nella vite, nella dinamo, nel rifrattometro a cristallo e così via. Quel che è certo è che attraverso lo studio della tecnica possiamo arrivare a comprendere taluni organi del nostro corpo.




La risposta a questa domanda, così com’è stata posta, non può essere che negativa.

 

Innanzitutto, siamo ancora ben lungi dal conoscere tutti gli organi del nostro corpo. Il nostro corpo non può essere considerato come qualcosa di noto; ciononostante, questo non impedisce all’immaginazione creativa di proiettare nella tecnica anche quelle parti del corpo o quegli organi che risultano ancora sconosciuti all’anatomia macroscopica e microscopica, nonché alla fisiologia. Di conseguenza, non solo è ammissibile, ma addirittura auspicabile attendersi dalla tecnica quegli strumenti il cui prototipo organico non è stato ancora rinvenuto.

 

Inoltre, molti dei nostri organi sono rudimentali, non si sono ancora completamente sviluppati o finanche formati, dal momento che la corrente vitale si è allontanata da loro, fluendo via verso altri esseri. Ciò tuttavia non impedisce a tali organi di esistere, almeno in linea di principio, nel nostro corpo o, piuttosto, nel principio vitale del nostro corpo.




Per conservare l’integrità del nostro organismo è necessario che esso si stilizzi in una direzione determinata, ovvero nello sviluppo degli organi è fondamentale una certa unilateralità. Ma questo non significa che, anche nell’ambito degli strumenti che prolungano o non prolungano il nostro corpo secondo il nostro arbitrio e in base alle esigenze del momento e che possiamo unire a esso o staccare, sia necessario anche un certo grado di specializzazione, se la consideriamo nella sua interezza.

 

In virtù dell’arbitrarietà dell’unione o della non unione di un dato strumento al corpo, in virtù della loro incomunicabilità reciproca (senz’altro maggiore di quella tra gli organi del corpo), gli strumenti sono caratterizzati da un minor livello di coordinamento e, quindi, da una grande eterogeneità di funzioni.

 

Per esprimersi più esattamente, gli strumenti sono creati dalla vita nella sua profondità, non al livello di una specializzazione superficiale.

 

Ognuno di noi nel suo profondo è potenzialmente dotato di una pluralità di organi che non si sono rivelati nel suo corpo, ma che tuttavia possono manifestarsi in forma di proiezioni tecniche.




 E viceversa: la vita può realizzare tecnicamente la proiezione di un dato organo prima che quest’ultimo diventi noto da un punto di vista anatomico e fisiologico, rivelandosi in noi stessi o, perfino, in altri organismi, in altre manifestazioni vitali manifestamente non umane e in seguito forse anche nell’uomo in forma di embrione.

 

Se lo studio degli organismi è la chiave che apre all’invenzione tecnica, al contrario le invenzioni tecniche possono essere interpretate come una sorta di reagente della nostra autoconoscenza.

 

La tecnica può e deve risultare una provocazione per la biologia, così come la biologia per la tecnica. Noi scopriamo in noi stessi e, in generale, nella vita gli strumenti tecnici finora non realizzati e nella tecnica – gli aspetti ancora ignoti della vita.

 

La linea della vita e quella della tecnica fluiscono parallele; ma i punti corrispondenti dell’una o dell’altra possono fare un balzo in avanti e distanziarsi.




 E ciò ci consente di fare congetture su queste due linee, su distanze maggiori di quelle che ci sono date effettivamente, per la linea della vita nella coscienza e quella della tecnica nella realtà.

 

Così, per esempio, i presupposti per il volo umano sono insiti nello studio del volo degli uccelli; o meglio, fu proprio quest’ultimo che instillò nell’uomo fin dai tempi più remoti (già all’epoca di Minosse) la convinzione che l’aeronautica fosse possibile.

 

In altri casi, non sono ancora stati conseguiti risultati tecnici, benché essi si profilino all’orizzonte. Ad esempio, fondandosi sulla nostra conoscenza degli organi dei pesci elettrici (il pesce siluro, la torpedine, l’anguilla e l’ossirinco, il pesce sacro degli Egizi), si può e si deve prevedere la possibilità di fabbricare armi elettriche come prolungamento del corpo. Compito che non è stato ancora realizzato – se eccettuiamo le fantasie di Jules Verne nel romanzo Ottantamila leghe sotto i mari (sic! V.P.), dove si descrive il fucile elettrico del capitano Nemo.

 

(P. Florenskij; La proiezioni degli organi)








lunedì 22 novembre 2021

BOSCHI (25)

 











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Boschi  (24)


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Paesaggio & Memoria [26]


& 25 NOVEMBRE [27]









Come ho più volte detto, non si può misurare il valore di nessuno di quegli elementi di perturbazione climatica, innalzamento o abbassamento della temperatura, aumento o diminuzione dell'umidità, né si può dire che in una stagione, in un anno o in un ciclo fisso, lungo o breve che sia, si equilibrano e si compensano a vicenda. A volte, ma certamente non sempre, sono contemporanei nella loro azione, sia che la loro tendenza sia nella stessa direzione o in direzioni opposte, e quindi la loro influenza è a volte cumulativa, a volte conflittuale; ma, nel complesso, il loro effetto generale è quello di mitigare gli estremi del caldo e del freddo atmosferici, dell’umidità e della siccità.

 

Servono come equalizzatori di temperatura e umidità, ed è molto probabile che, in analogia con la maggior parte delle altre opere e lavori della natura, essi, in periodi certi o incerti, ristabilire l’equilibrio che, sia come masse senza vita, sia come organismi viventi, possono aver temporaneamente turbato.

 

Con la questione dell’azione delle Foreste sulla temperatura e sull’umidità atmosferica è intimamente connessa quella della loro influenza sulle precipitazioni, che possono influenzare aumentando o diminuendo il calore dell’aria e assorbendo o esalando gas non combinati e vapore acqueo. Essendo il bosco un assetto naturale, si presume che eserciti un’azione conservativa, o almeno compensativa, e di conseguenza che la sua distruzione debba tendere a produrre perturbazioni pluviometriche oltre che variazioni termometriche.

 

E questa è l’opinione forse del maggior numero di osservatori.




 Infatti, è quasi impossibile supporre che, in determinate condizioni di tempo e di luogo, la quantità ei periodi di pioggia non dipendano, più o meno, dalla presenza o meno di Foreste; e senza insistere sul fatto che la rimozione della Foresta ha diminuito la somma totale di neve e pioggia, possiamo ben ammettere che ha diminuito la quantità che cade annualmente entro limiti particolari.

 

Diverse considerazioni teoriche rendono questo probabile, l’argomento più ovvio, forse, essendo quello tratto dal fatto generalmente ammesso, che l’estate e anche la temperatura media della foresta è inferiore a quella dell’aperta campagna alla stessa latitudine.

 

[….] Nelle pagine precedenti abbiamo visto che l’azione elettrica e chimica della Foresta, benché oscura, esercita probabilmente un’influenza benefica, non certo dannosa, sulla composizione e sullo stato dell’atmosfera; che serve da protezione contro la diffusione delle esalazioni miasmatiche e dei veleni malarici; che svolge una funzione importantissima come riparo meccanico dai venti esplosivi ai terreni e alle colture a ridosso di esso; che, come conduttore di calore, tende ad eguagliare la temperatura della terra e dell’aria; che i suoi prodotti morti formano un mantello sulla superficie, che protegge la terra dal caldo e dal freddo eccessivi; che l’evaporazione dalle foglie degli alberi viventi, mentre raffredda l’aria intorno a loro, diffonde attraverso l’atmosfera un mezzo che resiste alla fuga di calore dalla terra per irraggiamento.




 Abbiamo visto, inoltre, che il Bosco è ugualmente utile come regolatore dell’umidità terrestre e dell’umidità atmosferica, impedendo con la sua ombra il prosciugamento della superficie da parte dei venti aridi e dei raggi cocenti del sole, intercettando una parte delle precipitazioni, e riversando nell’atmosfera una grande quantità di vapore acqueo; che se non aumenta la quantità di pioggia, tende a uniformarne la distribuzione sia nel tempo che nel luogo; che conserva un equilibrio igrometrico negli strati superiori della superficie terrestre; che mantiene e regola il flusso di sorgenti e ruscelli; che controlli lo scarico superficiale delle acque di precipitazione e di conseguenza tenda a prevenire l’innalzamento improvviso dei fiumi, la violenza delle piene, la formazione di torrenti distruttivi, e l’abrasione della superficie per azione dell’acqua corrente; che impedisce la caduta di valanghe e di sassi, e smottamenti distruttivi degli strati superficiali delle montagne; che è una salvaguardia contro l’allevamento delle locuste, e infine che fornisce nutrimento e rifugio a molte tribù di vita animale e vegetale che, se non necessarie all’esistenza dell’uomo, sono favorevoli al suo razionale godimento.

 

Infine, nelle regioni ben boscose e nei paesi abitati dove una debita proporzione di suolo è dedicata alla crescita di foreste distribuite con giudizio, le tendenze distruttive naturali di ogni tipo vengono arrestate o compensate, e quindi, uomini, uccelli, animali, pesci e allo stesso modo i vegetali trovano una costante uniformità di condizione più favorevole alla regolare ed armoniosa convivenza di tutti loro.




I boschi inoltre impediscono la caduta di valanghe e di sassi, e smottamenti distruttivi degli strati superficiali delle montagne; e infine fornisce nutrimento e rifugio a molte tribù di vita animale e vegetale che, se non necessarie all’esistenza dell’uomo, sono favorevoli al suo razionale godimento.

 

Con l’estirpazione della Foresta, tutto è cambiato, in una stagione, la terra si separa con il suo calore per irraggiamento in un cielo aperto, in un’altra riceve un calore smodato dai raggi non ostruiti del sole. Quindi il clima diventa eccessivo, e il suolo è alternativamente arso dai fervori dell’estate, e bruciato dai rigori dell’inverno. I venti cupi spazzano senza resistenza sulla sua superficie, portano via la neve che lo riparava dal gelo e asciugano la sua scarsa umidità.

 

La precipitazione diventa tanto irregolare quanto la temperatura; le nevi che si sciolgono e le piogge primaverili, non più assorbite da un terriccio vegetale sciolto, si precipitano sulla superficie ghiacciata e si riversano nelle valli verso il mare, invece di riempire un letto ritentivo di terra assorbente e accumulare una scorta di umidità per nutrirsi primavere perenni. Il suolo è spogliato della sua copertura di foglie, spezzato e allentato dall’aratro, privato delle radichette fibrose che lo tenevano insieme, essiccato e polverizzato dal sole e dal vento, e infine stremato da nuove combinazioni.




 La faccia della Terra non è più una spugna, ma un mucchio di polvere, e le piene che le acque del cielo riversano su di essa si precipitano veloci lungo le sue pendici, portando in sospensione grandi quantità di particelle terrose che ne accrescono il potere abrasivo e la meccanica forza della corrente, e, accresciuta dalla sabbia e dalla ghiaia degli argini cadenti, riempiono i letti dei torrenti, li deviano in nuovi canali e ostruiscono le loro uscite. I rivoli, mancando l’antica regolarità di approvvigionamento e privati ​​dell’ombra protettrice dei boschi, si riscaldano, evaporano, e così si riducono nelle loro correnti estive, ma si gonfiano a impetuosi torrenti in autunno e in primavera.

 

Da queste cause, vi è un costante degrado degli altipiani, ed un conseguente innalzamento dei letti dei corsi d’acqua e dei laghi per la deposizione delle sostanze minerali e vegetali trasportate dalle acque. I canali dei grandi fiumi diventano impraticabili, i loro estuari sono ostruiti e i porti che un tempo riparavano grandi flotte sono intasati da pericolosi banchi di sabbia. La Terra, spogliata della sua gleba vegetale, diventa sempre meno produttiva e, di conseguenza, meno capace di proteggersi tessendo una nuova rete di radici per legare insieme le sue particelle, un nuovo tappeto erboso per ripararla dal vento e dal sole e pioggia battente.

 

A poco a poco diventa del tutto sterile.




Il lavaggio del suolo dalle montagne lascia spoglie creste di roccia sterile, e la ricca muffa organica che le ricopriva, ora spazzata giù nei terreni umidi e bassi, promuove un rigoglio di vegetazione acquatica, che genera febbre, e forme più insidiose di malattie mortali, con il suo decadimento, e così la terra è resa non più adatta all’abitazione dell’uomo.

 

FORESTE D’ITALIA

 

Secondo le statistiche più recenti, l’Italia ha il 17,64 per cento di bosco, una proporzione che, considerando il carattere del clima e della superficie, potevano essere vantaggiosamente raddoppiati.

 

Prendendo l’Italia nel suo insieme, si può dire che essa è eminentemente adattata, per clima, suolo e formazione superficiale, alla crescita di una variegata e rigogliosa vegetazione arborea, e che nell’interesse dell’autotutela, la promozione dell’industria a tutela della Foresta è tra i primi doveri del suo popolo.

 

Vi sono nelle valli del Piemonte occidentale dove l’abbattimento dei boschi ha prodotto conseguenze geograficamente ed economicamente disastrose come nel sud-est della Francia, e vi sono molte altre contrade delle Alpi e degli Appennini dove l’imprudenza umana è stata quasi altrettanto distruttiva. Alcune di queste regioni devono essere abbandonate all’assoluta desolazione, e per altre l’opportunità della restaurazione fisica sta rapidamente svanendo.

 

Ma ci sono ancora milioni di miglia quadrate che potrebbero essere piantate con profitto con alberi da foresta, e migliaia di acri di colline aride e aride, in vista di quasi tutti i capoluoghi di provincia italiani, che potrebbero essere facilmente e presto rivestiti di boschi verdeggianti.




La moltitudine di denominazioni geografiche in Italia che indicano l’antica esistenza delle Foreste mostra che anche nel Medioevo esistevano boschi dove ora non si trovano alberi forestali. Ci sono centinaia di nomi di città medievali derivati ​​da abete, acero, carpino, castagno, faggio, frassino, pino, quercia e altri nomi di alberi.

 

Le Alpi Orientali, l’Appennino Occidentale e le Alpi Marittime tutelarono le proprie foreste molto più tardi; ma anche qui la mancanza di legname, e il danno alle pianure e la navigazione dei fiumi da parte dei sedimenti portati dai torrenti, portarono alla legislazione per la protezione delle Foreste, da parte della Repubblica di Venezia, in vari periodi tra il XV e il XV secolo. e il XIX secolo.

 

Non troviamo nella legislazione Forestale veneta molte prove che gli argomenti geografici fossero presi in considerazione dai legislatori, che sembrano aver avuto un occhio solo alle considerazioni economiche.

 

Secondo Hummel, la desolazione del Carso, l’altopiano a nord di Trieste, oggi uno dei quartieri più aridi e aridi d’Europa, è dovuta all’abbattimento dei Boschi, secoli fa, per costruire le marine di Venezia.

 

Dove il miserabile contadino del Carso ora non vede altro che nuda roccia spazzata e perlustrata dalla furiosa Bora, la furia di questo vento era un tempo domata da possenti Abeti, che Venezia abbatteva sconsideratamente per costruire le sue flotte.




 Dall’antico statuto di Genova del XVII sec., e successivamente quello di Venezia, apprendiamo (anche in data odierna) il comportamento adottato di entrambi questi governi, che, come molti altri, se da un lato approvarono leggi che obbligavano i proprietari delle terre di montagna a ripiantare i boschi, dall’altro,  sembrano essere poco attenti circa la comune necessità del Bosco, quindi tendono a privilegiare opposte forme edilizie simmetriche al turismo, simmetriche all’industria del legname, le quali necessitano dei suddetti incensanti continui disboscamenti, privando l’intera comunità, e non solo montana, del beneficio del Bosco. Adottando tal forma di mal governo ne continuano a chiedere la necessaria sussistenza tutte le volte che una improvvisa imprevista calamità affligge la Regione, dacché osserviamo, che il prevenire meglio del dover curare, soprattutto quando taluni amministratori locali beneficiano - in senso del tutto privato - di tal meccanismo calcolato di intervento, arricchendosi a spese dello Stato.

 

Sebbene nessun paese abbia prodotto scrittori più abili dell’Italia sul valore della Foresta e sulle conseguenze generali della sua distruzione, tuttavia la specifica importanza geografica dei Boschi, se non come protezione contro le inondazioni, non è stata così chiaramente riconosciuta in quel paese come negli Stati confinanti a nord e ad ovest.


Il concerto d’azione su tale argomento, tra una moltitudine di gelose egoistiche piccole sovranità, era ed è ancor presente a tutt’oggi, e nient’altro che l’unione permanente di tutti gli Stati italiani sotto un unico governo può rendere praticabile l’istituzione a tutela di necessari accordi per la conservazione e il restauro delle Foreste, e la regolazione della loro sopravvivenza per un diverso principio applicato di Economia a breve scadenza.


(G. P. Marsh)










venerdì 19 novembre 2021

(la Natura modificata) DALL'AZIONE UMANA (23)

 























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La Terra modificata (22)


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Racconto della Domenica:


IL LIBRO RITROVATO


& Nei boschi (24/5)








Il fatto che, di tutti gli esseri organici, solo l’uomo sia da considerarsi essenzialmente un potere distruttivo, e che eserciti energie per resistere alla quale la Natura, quella natura alla quale obbediscono ogni vita materiale e ogni sostanza inorganica, è del tutto impotente, tende a dimostrare che, pur vivendo nella natura fisica, non è di lei, che è di parentela più elevata, e appartiene a un ordine di esistenze più alto, di quelle che nascono dal suo grembo e vivono in cieca sottomissione ai suoi dettami.

 

Ci sono, infatti, bruti distruttori, bestie, uccelli e insetti da preda - tutta la vita animale si nutre e, naturalmente, distrugge altre forme di vita - ma questa distruzione è bilanciata da compensazioni. È, infatti, il mezzo stesso con cui l’esistenza di una tribù di animali o di vegetali è assicurata dall’essere soffocata dalle invasioni di un’altra; e le capacità riproduttive delle specie, che servono da cibo agli altri, sono sempre proporzionate alla domanda che sono destinate a soddisfare. L’uomo insegue le sue vittime con sconsiderata distruttività; e, mentre il sacrificio della vita da parte degli animali inferiori è limitato dalle brame dell’appetito, perseguita senza risparmio, fino all’estirpazione, migliaia di forme organiche che non può consumare.

 

La terribile distruttività dell’uomo è notevolmente esemplificata nella caccia ai grandi mammiferi e agli uccelli per singoli prodotti, accompagnata dall’intero spreco di enormi quantità di carne, e di altre parti dell’animale che sono suscettibili di usi preziosi.




I bovini selvatici del Sudamerica vengono massacrati da milioni di persone per la loro pelle e i loro peli; il bufalo del Nord America per la sua pelle o la sua lingua; l’elefante, il tricheco e il narvalo per le loro zanne; il cetaceo, e alcuni altri animali marini, per il loro osso di balena e per l’olio; lo struzzo e altri grandi uccelli, per il loro piumaggio.

 

Nel giro di pochi anni, le pecore sono state uccise nel New England, da interi greggi, solo per le loro pelli e il grasso, la carne viene gettata via; e si dice addirittura che i corpi degli stessi quadrupedi siano stati usati in Australia come combustibile per i forni da calce. Quale grande quantità di nutrimento umano, di ossa e di altri prodotti animali preziosi nelle arti viene così sperperata incautamente!

 

In quasi tutti questi casi, la parte che costituisce il motivo di questa distruzione totale, ed è l’unica salvata, ha essenzialmente un valore insignificante rispetto a ciò che viene gettato via. Le corna e la pelle di un bue non valgono economicamente una decima parte quanto l’intera carcassa. Durante l’anno in corso, grandi quantità di mais indiano sono state utilizzate come combustibile domestico, e persino per bruciare la calce, nell’Iowa e in altri Stati occidentali.




La terra non era, nella sua condizione naturale, completamente adattata all’uso e consumo dell’uomo, ma solo al sostentamento degli animali selvatici e della vegetazione selvaggia. Questi vivono, moltiplicano la loro specie in giusta proporzione e raggiungono la loro perfetta misura di forza e bellezza, senza produrre o richiedere alcun cambiamento importante nelle disposizioni naturali della superficie, o nelle tendenze spontanee l’uno dell’altro, eccetto quella mutua repressione dell’eccessivo aumento che può impedire l’estirpazione di una specie a causa delle invasioni di un’altra.

 

In breve, senza l’uomo, la vita animale inferiore e vegetale spontanea sarebbe stata praticamente costante per tipo, distribuzione e proporzione, e la geografia fisica della terra sarebbe rimasta indisturbata per periodi indefiniti, e sarebbe stata oggetto di rivoluzione solo per un lento sviluppo possibile e/o compatibile fra l’uomo e la Natura.




Ma l’uomo, gli animali domestici che lo servono, le piante da campo e da giardino i cui prodotti gli forniscono cibo e vestiti, non possono sussistere e raggiungere il pieno sviluppo compatibile delle loro superiori proprietà, a meno che non si combatta efficacemente la natura bruta e inconsapevole, e, in grande misura, vinta dall’arte umana. Quindi, diventa necessaria una certa misura di compatibile trasformazione della superficie terrestre, di soppressione di naturale e di stimolazione della produttività artificialmente modificata.

 

Questa misura l’uomo purtroppo l’ha ampiamente superata.

 

Ha abbattuto le foreste la cui rete di radici fibrose legava il terriccio allo scheletro roccioso della terra; ma se avesse permesso qua e là a una fascia di bosco di riprodursi per propagazione spontanea, la maggior parte dei danni causati dalla sua sconsiderata distruzione della protezione naturale del suolo sarebbe stata evitata.




Ha demolito le riserve montane, la cui percolazione delle acque attraverso canali invisibili forniva le fontane che rinfrescavano il suo bestiame e fertilizzavano i suoi campi; ma ha trascurato di mantenere le cisterne ei canali di irrigazione che una saggia antichità aveva costruito per neutralizzare le conseguenze della propria imprudenza. Mentre ha strappato la sottile gleba che delimitava la terra leggera di vaste pianure, e ha distrutto la frangia di piante semi-acquatiche che costeggiavano la costa e impedivano la deriva della sabbia marina, non è riuscito a impedire l’allargamento delle dune da rivestendoli di vegetazione propagata artificialmente.

 

L’umanità puramente ignorante, è vero, interferisce relativamente poco con le disposizioni della natura, è un fatto interessante e non sufficientemente notato, che l’addomesticamento del mondo organico, per quanto è stato ancora raggiunto, appartenga, non certo allo stato selvaggio, ma ai primi albori della civiltà, la conquista della natura inorganica quasi esclusivamente agli stadi più avanzati della cultura artificiale.




La civiltà ha aggiunto poco al numero di specie vegetali o animali coltivate nei nostri campi o allevate nei nostri ovili: il mirtillo rosso e l’uva selvatica sono quasi le uniche piante che l’anglo-americano ha recuperato dalla nostra flora più nativa e ha aggiunto alla sua raccolti, mentre, al contrario, la sottomissione delle forze inorganiche, e la conseguente estensione del dominio dell’uomo, non solo i prodotti annuali della terra, ma la sua sostanza e le sue sorgenti d’azione, è quasi interamente opera di età altamente raffinate e colte.

 

È noto a tutti coloro che si sono occupati della psicologia e delle abitudini delle razze più rozze e delle persone con intelletti imperfettamente sviluppati nella vita civile, che sebbene queste umili tribù e individui sacrifichino senza scrupoli la vita degli animali inferiori per la gratificazione dei loro appetiti e la fornitura degli altri loro bisogni fisici, eppure sembrano nutrire con i bruti, e anche con la vita vegetale, simpatie che sono molto più debolmente sentite dagli uomini civilizzati. Le tradizioni popolari dei popoli più semplici riconoscono una certa comunità di natura tra l’uomo, gli animali bruti e perfino le piante; e questo serve a spiegare perché l’apologo o favola, che attribuisce il potere della parola e la facoltà della ragione agli uccelli, ai quadrupedi, agli insetti, ai fiori e agli alberi…




È sostenuto dalle autorità dalla scienza moderna, che l’azione dell’uomo sulla natura, sebbene maggiore in grado, non differisce nel genere da quella degli animali selvatici.

 

È forse impossibile stabilire una distinzione radicale in genere tra le due classi di effetti, ma c’è una differenza essenziale tra il motivo dell’azione che richiama le energie dell’uomo civilizzato e il mero appetito che controlla la vita della bestia.

 

L’azione dell’uomo, infatti, è spesso seguita da risultati imprevisti e non desiderati, eppure è guidata da una volontà autocosciente che mira tanto spesso a oggetti secondari e remoti quanto a oggetti immediati. L’animale selvatico, invece, agisce istintivamente e, per quanto possiamo intuire, sempre nell’ottica di scopi singoli e diretti. Sia il boscaiolo che il castoro abbatterono alberi; l’uomo perché possa convertire la foresta in un uliveto che maturerà i suoi frutti solo per una generazione successiva, il castoro perché possa nutrirsi della corteccia degli alberi o utilizzarli nella costruzione della sua abitazione.




L’azione dei bruti sul mondo materiale è lenta e graduale, e di solito limitata, in ogni caso, a una ristretta estensione di territorio. Alla natura è concesso tempo e opportunità per mettere all’opera i suoi poteri riparatori, e l’animale distruttivo si è appena ritirato dal campo delle sue devastazioni prima che la natura abbia riparato i danni causati dalle sue operazioni. Infatti, viene espulso dalla scena proprio per gli sforzi che lei compie per restaurare il suo dominio.

 

L’uomo, al contrario, estende la sua azione su vasti spazi, le sue rivoluzioni sono rapide e radicali, e le sue devastazioni sono, per un tempo quasi incalcolabile dopo che ha ritirato il braccio che ha dato il colpo, irreparabili.

 

La forma della superficie geografica, e molto probabilmente il clima di un dato paese, dipendono molto dal carattere della vita vegetale che vi appartiene. L’uomo, per addomesticamento, ha grandemente cambiato le abitudini e le proprietà delle piante che alleva; ha, per scelta volontaria, immensamente modificato le forme e le qualità delle creature animate che lo servono; ed ha, nello stesso tempo, sradicato completamente molte forme di essere animale se non vegetale.




Qualunque cosa si possa pensare della modificazione delle specie organiche per selezione naturale, non vi è certamente alcuna prova che gli animali abbiano esercitato su qualsiasi forma di vita un’influenza analoga a quella della domesticazione su piante, quadrupedi, e uccelli allevati artificialmente dall’uomo; e questo vale tanto per i miglioramenti imprevisti quanto per i miglioramenti intenzionalmente effettuati, ottenuti mediante la selezione volontaria di animali da riproduzione.

 

Le devastazioni commesse dall’uomo sovvertono i rapporti e distruggono l’equilibrio che la natura aveva stabilito tra le sue creazioni organizzate e le sue creazioni inorganiche, e si vendica dell’intruso, scatenando sulle sue province deturpate energie distruttive finora tenute a freno da forze organiche destinate a essere i suoi migliori ausiliari, ma che ha incautamente disperso e cacciato dal campo d’azione.

 

Quando la foresta non c’è più, il grande serbatoio di umidità immagazzinato nel suo terriccio vegetale evapora, e ritorna solo in diluvi di pioggia per lavare via la polvere riarsa in cui quello stampo è stato convertito. Le colline boscose e umide si trasformano in creste di roccia secca, che ingombra i bassi fondali e soffoca i corsi d’acqua con i suoi detriti, e — eccetto nei paesi favoriti da un’equa distribuzione delle piogge durante le stagioni e da una moderata e regolare inclinazione della superficie — tutta la terra, a meno che l’arte umana non sia sottratta alla fisica il degrado a cui tende, diviene un insieme di montagne spoglie, di colline aride e prive di zolle e di pianure paludose e malariche.




Vi sono parti dell'Asia Minore, dell’Africa settentrionale, della Grecia e perfino dell’Europa alpina, dove l’azione delle cause messe in atto dall’uomo ha portato la faccia della terra ad una desolazione quasi completa come quella della luna; e sebbene, in quel breve lasso di tempo che chiamiamo ‘periodo storico’, siano noti per essere stati ricoperti di boschi rigogliosi, pascoli verdeggianti e prati fertili, ora sono troppo deteriorati per essere recuperabili dall’uomo, né possono tornare adatti all’uso umano, se non attraverso grandi cambiamenti geologici o altre misteriose influenze o agenti di cui non abbiamo conoscenza attuale e su cui non abbiamo alcun controllo futuro.

 

La terra sta rapidamente diventando una dimora inadatta per il suo più nobile abitante, e un’altra epoca di pari delitto umano e umana imprevidenza, e di pari durata con quella per cui si estendono le tracce di quel delitto e di quella imprevidenza, la ridurrebbe a una tale condizione di impoverita produttività, di superficie frantumata, di eccesso climatico, tanto da minacciare la depravazione, la barbarie e forse anche l’estinzione della specie.




E si può notare che, poiché il mondo è passato attraverso questi diversi stadi di lotta per produrre una cristianità, così, rilassandosi nelle imprese che ha imparato, tende verso il basso, per gradi invertiti, alla selvatichezza e di nuovo allo spreco. Lascia che un popolo rinunci alla sua gara con il male morale; trascurare l’ingiustizia, l’ignoranza, l’avidità, che possono prevalere tra loro, e partecipare sempre più all’elemento cristiano della loro civiltà; e nel declinare questa battaglia con il peccato, inevitabilmente si immischieranno con gli uomini.

 

Minacce di guerra e rivoluzione puniscono la loro infedeltà; e se poi, invece di tornare sui loro passi, cedono di nuovo, e sono sospinti davanti alla tempesta, le stesse arti che avevano creato, le strutture che avevano innalzato, gli usi che avevano stabilito, sono spazzate via; ‘in quello stesso giorno i loro pensieri periscono’. La parte che avevano strappato all’asprezza della giovane terra è perduta. 


(George P. Marsh)