giuliano

domenica 15 marzo 2015

SILENZIO BIANCO (2)



















Precedenti capitoli:

Silenzio Bianco &

l'uomo peloso (il regno dell'odio) (4/1)













Così trascorse il giorno.
Il fiume si piegava in una larga ansa, e Mason diresse la sua muta verso
la scorciatoia attraverso la stretta lingua di terra.
Ma i cani si arrestarono di fronte al ripido argine.
A più riprese scivolarono indietro, nonostante Ruth e Malemute Kid spin-
gessero la slitta. Poi si concentrarono in un ultimo sforzo. Le povere be-
stie, deboli per la fame, ce la misero tutta. Più in alto - più in alto - la slit-
ta era già in bilico sul bordo della sponda, ma il cane di testa tirò sulla de-
stra la fila di cani che lo seguivano, inciampando nelle racchette di Mason.
Il risultato fu disastroso.....
Mason finì per terra; uno dei cani cadde impigliato nei finimenti; e la slitta
rotolò indietro trascinadosi tutto appresso....
Splash! la frusta si abbatté selvaggiamente sui cani, e con maggior forza
su quello che era caduto.
- Lascia perdere, Mason,
implorò Malemute Kid;
- la povera bestia non sta in piedi. Aspetta che attacchiamo la mia muta.




Mason trattenne ostentatamente la frusta fintantoché l'amico ebbe pronun-
ciato l'ultima parola, e poi la sferza sibilò un'altra volta, arrotolandosi com-
pletamente intorno al corpo del colpevole.
Carmen - perché di Carmen si trattava - si accucciò terrorrizzata e treman-
te nella neve, guaì pietosamente, poi rotolò sul fianco.
Fu un momento tragico, un penoso incidente della traversata: un cane mo-
rente, due compagni infuriati l'uno contro l'altro.
Ruth guardò preoccupata dall'uno all'altro. Ma Malemute Kid li trattenne,
e, gli occhi carichi di rimprovero, piegandosi sul cane, tagliò i finimenti.
Non fu pronunciata parola.
Le mute vennero accoppiate e la difficoltà superata; le slitte ripresero ad
andare, mentre il cane morente si trascinava dietro la fatica. Finché un
animale è in grado di camminare, non gli si dà il colpo di grazia, e gli si
concede quest'ultima possibilità: trascinarsi  fino all'accampamento, se ci
riesce, nella speranza che sia stato ucciso un alce.




Già pentito del suo gesto d'ira, ma troppo orgoglioso per scusarsi, Mason
faticava alla testa della processione, lungi dall'immaginare il pericolo che
imcombeva su di lui.
Gli alberi erano fitti nel riparato fondovalle, attraverso il quale stavano
aprendosi una strada. A una quindicina di metri dalla pista si ergeva un
pino maestoso.
Stava lì da secoli, e da secoli il destino lo teneva pronto per quest'ora;
lo stesso destino che aveva decretato la fine di Mason. Egli si chinò per
legarsi un laccio del mocassino.
Le slitte si fermarono e i cani si lasciarono andare nella neve senza un
gemito. La quiete immobile sembrava quasi soprannaturale; non un re-
spiro percorreva la foresta incrostata di ghiaccio: il freddo e il silenzio
dello spazio esterno avevano gelato il cuore e percosso le tremule lab-
bra della Natura.




Un sospiro vibrò nell'aria; più che udirlo essi lo percepirono, come pre-
monizione di movimento in un vuoto immobile.
Poi il grande albero, affaticato dal suo peso di anni e di neve recitò la
sua ultima parte nella tragedia della vita.
Mason udì l'avvisaglia dello scricchiolio, tentò di porsi in salvo fuggendo,
ma ancora non si era rimesso in piedi che fu colpito in pieno, su una spal-
la.
Il pericolo imprevisto, la morte repentina, quante volte Malemute Kid a-
veva dovuto affrontarli!
Gli aghi di pino non avevano ancora finito di vibrare che già era entrato in
azione e dava ordini. Né dal canto suo la giovane indiana svenne o comin-
ciò a lamentarsi, come avrebbero fatto molte sue sorelle bianche.
Al suo ordine, si appoggiò con tutte le forze all'estremità di una leva im-
provvisata, alleggerendo la pressione dell'albero; poteva udire i gemiti del
marito, mentre Malemute Kid attaccava l'albero con l'accetta.




L'acciaio cantava gaio penetrando nel tronco gelato; ogni colpo era accom-
pagnato da un profondo respiro e dallo 'Huh!', 'Huh!' del boscaiolo.
Alla fine Kid adagiò sulla neve il penoso oggetto che una volta era stato un
uomo. Ma più penosa della sofferenza del suo compagno era la muta ango-
sciata dipinta sul volto della donna, l'espressione incredula, in cui si mesco-
lavano speranza e disperazione.
Si scambiarono poche parole: quelli del Nord imparano presto la futilità delle
parole, l'inestimabile valore dei fatti. A 50° sotto zero un uomo non può gia-
cere per molti minuti nella neve e...sopravvivere.
Furono quindi tagliati i finimenti della slitta, e il ferito avvolto nelle pelli, ven-
ne adagiato su un giaciglio di rami. Davanti a lui crepitava un fuoco, fatto con
lo stesso legno che aveva provocato l'incidente.
Dietro e e in parte al di sopra gli venne steso un riparo primitivo - un pezzo
di  tela, che tratteneva e gli rimandava il calore radiante - un trucco che im-
pararono a conoscere coloro che studiano la fisica alla sorgente.
E gli uomini che hanno condiviso il letto con la morte sanno quando l'ora è....
suonata.




Mason aveva tutte le ossa fracassate: bastava un'occhiata a capirlo.
Rotti il braccio e la gamba destra e la schiena; la parte inferiore del corpo
paralizzata dalla vita in giù: e con ogni probabilità anche gravi lesioni inter-
ne.
Qualche raro lamento era il suo unico segno di vita.
Nessuna speranza.
Niente da fare.
La notte impietosa avanzava furtiva e lenta su Ruth, chiusa nel disperato
stoicismo della sua razza e su Malemute, che aggiungeva nuove rughe sul-
la sua faccia di bronzo. In effetti, Mason era quello che soffriva di meno
di tutti, perché si trovava ora nel Tennessee orientale, sulle Great Smoky
Mountains, intento a rivivere scene della sua fanciullezza. E più patetica di
tutto era la melodia del dialetto del Sud, da lungo tempo dimenticato, men-
tre delirava di nuotate nelle marrane e cacce al racoon e furti di meloni.
Era arabo per Ruth, ma Kid capiva e sentiva rimescolarsi dentro, provava
ciò che può provare soltanto chi è stato tagliato fuori, per anni, da tutto
ciò che significa civiltà.....
Al mattino l'uomo colpito riprese conoscenza, e Malemute Kid si chinò
più vicino per afferrare i suoi bisbigli.




- Ti ricordi quando ci incontrammo sul Tanana quattro anni fa per la corsa
sul ghiaccio? Non mi importava tanto di lei allora. Era carina, certo, e la
cosa era emozionante.
Ma sai, ci ho pensato molto. E' stata una buona moglie sempre al mio fian-
co nei momenti difficili. E nel commercio, nessuno la batte!
Ti ricordi quando affrontò le rapide di Moosehorn per tirarci giù da quella
roccia, mentre le pallottole frustavano l'acqua come grandine? E il periodo
della carestia a Nuklukyeto? O quando correva, sul fiume ghiacciato per
portare le notizie?
Sì, è stata una buona moglie per me, meglio dell'altra. Non sapevi che mi
era già capitato? Non te l'avevo mai detto, eh? Be', ci avevo provato una
volta, giù negli Stati Uniti. E' per questo che sono qui. Eravamo pure cre-
sciuti insieme. Sono venuto via per darle la possibilità di ottenere il divor-
zio.
L'ha avuta.




- Sono un uomo finito, Kid.... Tre o quattro sonni al massimo. Tu devi
proseguire..... Io ti supplico, come ultimo desiderio, di andare avanti....
- Dammi tre giorni,
implorò Malemute Kid.
- Forse migliori; può succedere qualcosa.
- No.
- Solo tre giorni.
- Devi proseguire. Devi proseguire......
- Un giorno.
- No, no! Ti ordino....
- Solo un giorno. Con il cibo ce la possiamo fare, e poi potrei imbat-
termi in un alce.
- No... va bene; un giorno, ma non un minuto di più.......

(Jack London....)















 

venerdì 13 marzo 2015

L'UOMO PELOSO (il regno dell'odio...) (4)










































Precedenti capitoli:

L'uomo peloso (3)

Prosegue in:

Silenzio bianco













Sotto la tutela della divinità folle Zanna Bianca diventò un demonio.
Era tenuto incatenato in un recinto dietro il forte dove Bellezza Smith
lo maltrattava e pungolava, esasperando la sua indole selvaggia.
L'uomo aveva scoperto subito la suscettibilità di Zanna Bianca se de-
riso e ne approfittava, provocandolo prima, e poi mettendosi a ridere.
La sua risata era larga e sprezzante e aveva l'abitudine di additarlo scher-
nendolo, cosa che esasperava il furore di Zanna Bianca. In quei momenti
il lupoperdeva del tutto la ragione e nei suoi trasporti di collera diventava
ancora più folle di Bellezza Smith.




In precedenza era stato un accanito nemico della propria specie, ma ora
stava diventando nemico di tutti e di tutto, più spietato e feroce che mai.
I tormenti che gli venivano inflitti lo condussero a un odio cieco e assolu-
to, irragionevole fino alla pazzia.
Odiava la catena che gli impediva i movimenti, gli uomini che lo guardava-
no con curiosità attraverso le sbarre del recinto, i cani che accompagnava-
no gli uomini e che gli ringhiavano contro, deridendo la sua impotenza.
Odiava persino il legno del recinto che gli faceva da prigione. Prima di tut-
ti, però, dopo tutti, sopra tutti, odiava Bellezza....




Ovviamente Bellezza aveva un suo scopo preciso nel trattare Zanna Bian-
ca a quel modo. Un giorno attorno al recinto si raccolse un gruppo di uo-
mini, Bellezza Smith vi entrò brandendo un bastone, e tolse la catena dal
collo di Zanna Bianca.
Appena l'uomo fu uscito, Zanna Bianca prese a girare liberamente e si
scagliò con forza contro le sbarre nel tentativo di raggiungere gli uomini
che se ne stavano fuori.
Era magnifico e terribile....




Lungo almeno un metro e mezzo e alto settantacinque centimetri al garre-
se, era più robusto e più poderoso di un normale lupo della sua età. Dalla
madre aveva ereditato le più imponenti proporzioni del cane e così, senza
un briciolo di grasso superfluo, arrivava a pesare oltre quaranta chili.
Era tutto muscoli, ossa, nervi, quindi nelle migliori condizioni per combatte-
re. La porta del recinto si stava aprendo di nuovo, Zanna Bianca si fermò
e si fece attento: stava accadendo qualcosa di insolito.




La porta fu aperta quasi del tutto per far entrare un enorme cane, quindi fu
richiusa con violenza. Zanna Bianca non aveva mai visto un cane simile
(un mastino...), ma nemmeno le dimensioni eccezionali e l'aspetto feroce
dell'intruso lo sgomentarono. Ecco qualcosa, né di legno né di ferro, su cui
sfogare il odio represso.
Con un balzo gli fu addosso, un turbinio di zanne s'abbatté contro il masti-
no, aprendogli una larga ferita di lato. Il bestione (ben addestrato) scosse
la testa e con un sordo brontolio si scagliò a sua volta contro Zanna Bianca.
Ma Zanna Bianca era qua, e poi là, era dovunque e inafferabile, sempre in
grado di sfuggirgli e di evitarlo, sempre pronto ad azzannare, ferire e riti-
rarsi fulmineamente.




Gli uomini fuori gridavano e applaudivano, Bellezza seguiva gongolante, in
beata estasi, l'atroce esibizione offerta da Zanna Bianca. Fin dall'inizio non vi
era stata alcuna speranza per il mastino, che, lento e pesante, esitava troppo
prima di attaccare. Infine, mentre Bellezza, con in mano il bastone, teneva a
distanza Zanna Bianca, il mastino fu trascinato fuori e consegnato al legittimo
proprietario.
Quindi gli scommettitori fecero i conti e le monete tintinnarono nelle mani di
... Bellezza....

(J. London) 



Prosegue in:










 La Natura: ciao... 'Bellezza'...


















giovedì 12 marzo 2015

L' UOMO PELOSO (2)












































Precedente capitolo:

l'uomo peloso &

Alcatraz Island (6)

Prosegue in:

l'uomo peloso (3)














Gli piaceva correre nei letti asciutti dei torrenti, e strisciare
spiando la vita del bosco.
Riusciva a restare disteso per un giorno intero, nel sottobo-
sco, dove poteva vedere le pernici che si pavoneggiavano
becchettando avanti e indietro.
Ma, soprattutto, gli piaceva correre nel pallido crepuscolo
della mezzanotte estiva, ascoltare il mormorio sonnolento e
soffocato della foresta, leggere i rumori come gli uomini leg-
gono in un libro, in cerca di quell'alcunché misterioso che lo
richiamava: che chiamava, nella veglia e nel sonno, tutti i
momenti, per farlo andare.




Una notte balzò nel sonno con un sussulto, l'occhio sbarrato,
le narici che fremevano annusando, e la criniera che si riz-
zava a ondate successive.
Dalla foresta era giunto il richiamo (o una sua nota, poiché
il richiamo consisteva di molte note, - non le note dell'uomo
peloso, ma le vere note della vita -) chiaro e distinto come
mai lo era stato: un lungo ululato simile (ad un temporale
improvviso), e tuttavia non identico, al suono emesso da
un cane eschimese (ammaestrato e ben educato dal suo...
padrone).
Come una nota o una diversa grammatica di vita, una
pagina diversa di letteratura, non era un cane ammaestra-
to del branco di un qualche padrone...non era la solita pa-
ginetta di letteratura, ma una rima strana un frammento
che desta spavento....




Egli lo riconobbe, in quel modo consueto, come un suono
già udito prima. Come se la vita e le sventure e anche le ...
fortune avessero diviso in un tempo passato, remoto, lon-
tano da quel... volgo....
Si lanciò attraverso il campo addormentato, e, rapido e
silenzioso, si precipitò attraverso i boschi. A mano a ma-
no che si avvicinava al grido, rallentava il passo, divenen-
do cauto a ogni movimento (l'uomo peloso intanto...);
finché giunse a uno spiazzo tra gli alberi.
Qui, osservandosi attorno, accucciato e col busto eretto,
il naso puntato verso il cielo, un lungo e magro lupo dei
boschi (che sembrava aver sofferto...).




Non aveva fatto rumore, e, tuttavia, il lupo cessò l'ulula-
to e si pose a fiutare la sua presenza.
Buck uscì nello spiazzo con passo misurato, il corpo rac-
colto e un po' abbassato, la coda rigida e dritta, e i piedi
che toccavano il terreno con insolita cautela.
Ogni mossa era, assieme, un atto di minaccia e una pro-
posta d'amicizia. Era la tregua minacciosa che segna l'in-
contro di bestie selvagge in cerca di libertà.
Ma, il lupo, fuggì dalla sua vista, ed egli lo inseguì con
balzi felini, in una frenesia di raggiungerlo.....
 
(J. London, Il richiamo della foresta)

(Prosegue...)























martedì 10 marzo 2015

LA FORZA DELLA POESIA (2)









































Precedente capitolo:

Non c'è vita notturna qui...













Nessuna idea può turbare la mia insana condotta
Né rimuovere la dura scorza del mio Spirito.
Non mi ferisci, la tua mano non può
Indurmi a ricordare e a esser triste.
Io ti prendo con me, dolce pena
E ti rendo più aspra e violenta col mio gelo (e col mio Silenzio),
Con la mia rete  che incomincia a rompere
Le fibre, o il filo dei sensi.
Nessun amore può forare
La spessa corazza di cuoio,
La dura crosta irrovesciabile
Che nasconde il fiore al profumo
E non mostra il frutto al sapore;
Nessuna onda può pettinare il mare
E incanalarsi in saldo sentiero.
Ecco l’Idea che viene
Come un uccello nella sua leggerezza,
Sulle vele delle esili ali
Bianche per l’acqua sollevata.
Vieni, stai per perdere la tua freschezza.
Vuoi scivolare da te nella rete,
O devo io trascinarti
Nella mia esotica compostezza?

(Dylan Thomas, No thought can trouble my unwholesome pose)






















domenica 8 marzo 2015

UN INCONTRO (..calcolato... lì vicino al mercato...) (15)







































Precedente capitolo:

Il ruolo dell'Intellettuale: la nausea (14)













I canaletti, le trincee, i sottili solchi che corrono tra le conchiglie, tra un
ora saranno strade, ed io camminerò in quelle strade, tra i 'muri'.
Quei minuscoli ometti neri che distinguo in via Boulibet, tra un'ora sarò
uno di loro.
Come mi sento distante da loro, dall'alto di questa collina.
Mi sembra di appartenere ad un'altra specie.
Escono dagli uffici, dopo la loro giornata di lavoro, guardano le case e
le piazze con un'aria soddisfatta, pensano che è la loro città, una 'bella
città borghese'.




Non hanno paura, si sentono a casa loro.
Non hanno mai visto altro che l'acqua addomesticata che esce dai rubinet-
ti, che la luce che sprizza dalle lampade quando si preme l'interruttore, che
gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali.
Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che
il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto




cadono tutti con la stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i
giorni alle sedici d'inverno, e alle diciotto d'estate, il piombo fonde a 335
gradi, l'ultimo tram parte dal Municipio alle 23 e 5.
Son pacifici, un po' melanconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente,
ad un altro oggi; le città non dispongono che d'una sola giornata che ritor-
na sempre uguale ogni mattina.
La si impennacchia un po' la domenica.




Che imbecilli.
Mi ripugna il pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di
sicurezza.
Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano, hanno l'estrema stupi-
dità di fare figli. E frattanto la grande natura incolta s'è insinuata nella loro
città, s'è infiltrata dappertutto, nelle loro case, nei loro uffici, in loro stesi.
Non si muove, si mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in pieno, la re-
spirano e non la vedano, credono che sia fuori, a venti miglia dalla città.




Io la vedo, questa natura, la vedo....
So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch'essa non ha leggi:
quella che scambiano per la sua costanza....
Non ha abitudini, e le può cambiare domani.
E se capitasse qualcosa?
Se d'un tratto si mettesse a palpitare?




Allora s'accorgerebbero della sua presenza e gli sembrerebbe di sentirsi
scoppiare il cuore. A che cosa gli servirebbero, allora, le loro dighe, i lo-
ro argini, le loro centrali elettriche, i loro alti forni, i loro magli a vapore?
Ciò potrebbe succedere in qualunque momento, magari subito: i presagi
ci sono.
Per esempio, un padre di famiglia a passeggio vedrà venire verso di lui,
attraverso la strada, uno straccio rosso come spinto dal vento. E quan-




do lo straccio gli sarà vicinissimo vedrà che è un pezzo di carne marcia,
imbrattato di polvere, che si trascina strisciando, a sbalzi, un pezzo di
carne torturata che si rotola nei rigagnoli proiettando a spasmi getti di
sangue.
Oppure una madre guarderà la guancia del suo bambino e gli doman-
derà: 'Che cos'hai, lì una pustola? e vedrà la carne gonfiarsi un poco,
screpolarsi, schiudersi, e in fondo alla screpolatura apparirà un terzo
occhio, un occhio beffardo.




Oppure si sentiranno dolci sfioramenti per tutto il corpo, come le carez-
ze che i giunchi dei fiumi fanno ai nuotatori. E si accorgeranno che le lo-
ro vesti son divenute cose viventi. E un altro s'accorgerà che qualcosa
lo solletica dentro la bocca.
S'accosterà ad uno specchio, aprirà la bocca: e la lingua gli sarà diven-
tata un enorme millepiedi vivo, che agiterà le zampe raschiandogli il pa-
lato.




Vorrà sputarlo, ma il millepiedi sarà una parte di lui stesso, e dovrà
strapparselo con le mani. E apparirà una quantità di cose per le qua-
li bisognerà trovare nomi nuovi, l'occhio di pietra, il gran braccio tri-
corno, l'allucegruccia, il ragno-mascella.
E colui che si sarà addormentato nel suo buon letto, nella sua dolce
camera calda si risveglierà tutto nudo......
(J.P. Sartre, La Nausea)










  











sabato 7 marzo 2015

AMMAZZARE IL TEMPO (meccanicismo e finalismo) (17)

















































Precedente capitolo:

Ammazzare il Tempo (meccanicismo e finalismo) (16) &

Ammazzare il Tempo (la vita nel suo progredire (15/14)

Prosegue in:

Nuova cosmologia compiuta (18)













….Ma in fondo poco importa, poiché essendo allo stesso tempo inevitabile e utile, il meccanicismo radicale l’avrà sempre vinta presso gli scienziati; essi continueranno a professare molto tempo dopo che avranno finito di crederci.
Poiché ha lasciato libero lo spazio un tempo occupato dalla forma, Bergson non ha fatto nulla di efficace per demolirlo. Eppure è lui che ha aperto la strada a un rinnovamento del finalismo.
La sua straordinaria incomprensione della vera natura dell’intelletto, in cui egli si ostinava a non vedere altro che la facoltà d’associare il simile al simile, di percepire e anche di produrre delle ripetizioni – insomma, una macchina calcolatrice – l’ha portato a situare altrove l’origine dell’invenzione, della creazione, di tutto ciò per cui la soluzione di un problema supera la pura somma dei suoi dati.





Egli l’attribuì quindi alla vaga entità che chiamò la Vita e che vedeva all’opera dal basso della scala degli esseri viventi, fino all’uomo. Riflettendoci, vide che ci sono delle attività umane in un certo senso artigianali, dunque analoghe a quelle che Aristotele citava come modelli di finalità, ma più nobili della fabbricazione di un letto, e per ciò anche più capaci di raffigurare una creatività simile a quella della vita. 
La creazione artistica offriva alla sua riflessione il modello desiderato. L’atto libero offriva un modello non meno soddisfacente, ma la creazione artistica è un atto libero la cui struttura e i cui effetti sono più visibili e più facili da osservare.
Si chiederebbe invano a Bergson di rinnegare ciò che egli considerava l’anima della sua dialettica, l’incapacità dell’intelligenza di creare cose nuove; il suo ambito naturale è la geometria. Lo spirito può muoversi in due direzioni opposte, e conseguentemente generare nel suo procedere due ordini opposti: uno, derivando da una sorta di allentamento della sua tensione naturale, lo conduce ‘all’estensione, alla determinazione reciproca necessaria degli elementi gli uni rispetto agli altri, in ultima analisi al meccanicismo geometrico’.




L’altro, che Bergson considera la sua ‘direzione  naturale’, è al contrario ‘il progresso sotto forma di tensione, la creazione continua (che nulla ha in comune  con l’arte della vita)’.
Dovendo collocare la finalità quale egli l’ha concepita, Bergson doveva inevitabilmente aggiudicarla alla direzione definita dell’intelligenza, che è quella della determinazione necessaria, della ripetizione, dell’automatismo.
E che dire della tensione creatrice in rapporto all’ordine?
In una frase curiosa, che tradisce forse un certo imbarazzo, Bergson dice di quest’ordine che esso ‘oscilla senza dubbio intorno alla finalità: non si può tuttavia identificarlo con essa, perché a volte ne al di sopra e a volte al di sotto’ E’ in particolar modo nelle sue forme più elevate, l’atto libero o l’opera d’arte, che è al di sopra della finalità, poiché esse manifestano l’ordine perfetto caratteristico del rapporto dei mezzi ai fini, e tuttavia non le si può analizzare in termini di mezzi e di fini che quando l’atto sia compiuto o l’opera realizzata.
In una dottrina in cui il finalismo non è che meccanicismo rovesciato, tutto ciò che supera il meccanicismo supera il finalismo. Allora, diremo anche noi che il finalismo supera sempre il meccanicismo, almeno in quanto stabiliscono o implica l’ordine a cui lo sottopone.




Tutto è meccanico in una macchina, tranne l’idea di costruirla che ne ha ispirato il progetto. Osiamo appena criticare le pagine luminose, traslucide, in cui ‘l’Evoluzione creatrice’ sviluppa idee ritenute assolutamente certe, nutrite di ogni tipo di verità, e tuttavia dominate da una sorta di manicheismo metafisico in cui l’intelligenza, implicando il finalismo, è condannata all’ambito della geometria e del male. Eppure, si chiederebbe invano a chiunque non sia Bergson la descrizione perfetta di una intelligenza che crea il finalismo e l’ordine che la sua opera esige. Cerchiamo dunque di risalire dall’estensione alla tensione:

“Ogni opera che racchiuda una parte d’invenzione, ogni atto volontario che racchiuda una parte di volontà, ogni movimento di un organismo che manifesti una spontaneità, porta qualcosa di nuovo nel mondo. Non sono, è vero, se non reazioni di forma: e come potrebbero essere altro? Noi non siamo la stessa corrente vitale; siamo questa corrente caricatasi già di materia, cioè di parti raggelate dalla sua sostanza, che essa scarica lungo il percorso. Per quanto noi, nel comporre un’opera geniale o nel prendere con libertà la più semplice decisione, tendiamo al massimo la molla della nostra attività, e creiamo qualcosa che una composizione pura e semplice di materiali non avrebbe potuto dare, non mancano tuttavia, anche qui, elementi che preesistono e sopravvivono alla loro organizzazione”.




Cosa si può opporre a questa analisi?

Nulla che non sia ciò che hanno di gratuito l’attribuzione della creazione alla Vita e l’esclusione dell’intelligenza che essa suppone. Bergson ha ragione, ‘noi cogliamo dal di dentro, noi viviamo in ogni istante una creazione di forma’, e questa creazione di forma ‘è un semplice atto di spirito’, che pone nell’essere contemporaneamente la forma, la materia e l’ordine di questa materia che ne fa poesia. Ma questa meraviglia si realizza in noi solo perché in noi la Vita è intelligenza. C’è vita ovunque intorno a noi, e un poeta potrebbe dire che l’albero è poesia, ma non lo scrive. Bergson, che pure la conosceva così bene, si perde per una volta sulla via discendente delle ipostasi plotiniane, mettendo la Vita al di sopra dell’Intelletto, figlio primogenito dell’Uno. 
Ma se l’intelligenza è in noi l’estrema punta d’avanguardia della vita nella scala degli esseri conosciuti, è attraverso essa che bisogna concepire la vita e non il contrario.Non c’è una ragione creatrice, ma c’è una intelligenza creatrice. E’ questa intelligenza che s’incarna nel linguaggio, da cui crea le forme, comprese quelle delle poesie, strutture verbali in cui il poeta crea contemporaneamente la forma, la materia e la finalità che impone la struttura.
Questo lavoro di crazione non è necessariamente cosciente; la testimonianza dei poeti invita a pensare che non lo sia, per la maggior parte almeno, ma non è un motivo per escluderlo dall’intelligenza. La molla del finalismo naturale ci sfugge; ciò che le assomiglia di più è il potere creatore dell’intelletto; non è dunque assurdo, è anzi ragionevole concepire la causa della finalità come affine all’intelligenza.E’ vero che non si tratta di una proposizione scientifica, ma non lo è neanche la sua negazione, e non sarebbe giusto, per rispetto alla scienza, negare un aspetto così importante della realtà. 

 (E. Gilson, Biofilosofia....)




(Dalla presente disquisizione, prendiamo atto, visto i risultati conseguiti dalla scienza del clima (e non solo tale 'disciplina' e riproponendo questo Post in riferimento al precedente 'oggettivare il male' e di conseguenze estendendo ed altresì motivando le ragioni del 'male'; dove si è stabilito attraverso attenti e curati (nonché attendibili..) monitoraggi dei climi passati, di un persistente ed accentuato squilibrio in-volutivo, causato dall’uomo, e da tutte le ragioni del progresso, specchio della sua (presunta) ‘Intelligenza’ evoluta sulle cose animate e non...., quindi 'oggettiviamo ed estendiamo ulteriormente i motivi e le cause finali del 'male' cioè di nuovo: 'oggettiviamo' il male.)
La presente ‘dialettica’ specchio di un pensiero filosofico di importanza notevole fra due ‘giganti’ in un dibattito fra scienza e fede, va riflessa nella realtà dei dati odierni, come l’involuzione climatica accennata. Se pur Bergson, riletto dall’occhio di Gilson, che certo sappiamo non essere una mente isolata: un occhio staccato dal complesso apparato visivo di cui si nutre la filosofia e la teologia, confrontate con la scienza moderna, ma bensì preciso e attento nelle analisi verso l'avversione ad ogni forma di radicalismo, sia esso finalismo o il suo opposto, meccanicismo, frutto di una formazione ‘scolastica’ non certo eterodossa, offre una chiave di lettura del non facile pensiero di Bergson, chiave di lettura equilibrata e accorta nelle presunte contraddizioni rilevate. Contraddizioni, che lette oggi, appaiono a favore del radicalismo criticato di Bergson. Quindi, a maggior ragione, il presente confronto prende ampia consistenza di una 'inattesa attualità', pur sapendo che ambedue gli scritti sono certamente datati, rispetto al progresso raggiunto nell’ultimo mezzo secolo.




Il presente dibattito prende consistenza forma ed immagine, dando per attuale una rilettura appropriata dell’Evoluzione Creatrice, cogliendone tutte quelle improprietà riflesse sia nel mondo della filosofia che in quello scientifico e cogliendo, altresì, tutte quelle sfumature nel difficile dibattito fra finalismo e meccanicismo. In questa ‘duplice’ chiave di lettura, Gilson(niana) e Bergson(niana) sappiamo l’uomo, nella totalità delle sue manifestazioni ‘Intelligenti’ ed ‘Evolute’ degli ultimi 200 anni (due secoli…), minuscoli frammenti di storia, Secondi riflessi nelle ore del Tempo; aver irrimediabilmente minato distrutto ed estinto la Prima Materia (creata o non…) sinonimo della Vita (privata della forma nominata Intelligenza…) in un principio ‘manicheo’ dove i presupposti sono rovesciati (come negli odierni concetti di Natura e progresso…) nella loro originaria condizione. Ciò che pensiamo ‘male’ nella sua condizione apparentemente assente o priva di intelligenza (o ciò che pensiamo tale…), quindi oggetto e mira di quel progresso di indiscusso dominio da parte dell’uomo (sia su motivazione divine e non…), in quanto tale, portatore della vita e principio attivo dell’intelligenza incarnata (disegno divino e non…), contro tutte le ragioni dell’istinto o della materia bruta; ed il ‘bene primo’ della nostra ‘apparente’ condizione di superiorità rispetto a chi privo del dono dell’Intelligenza. Noteremo che i risultati di questo rovesciamento giocano a favore di quella ‘Intelligenza’ forma e visione della presente disquisizione filosofica, dovendo porre i dovuti accenti sul concetto stesso di intelligenza, soprattutto oggi riflesso nei moderni concetti ‘progrediti’ ed ‘evoluti’, dove la bio-filofia ha abdicato il proprio pensiero a favore dell' 'intelligenza artificiale', e dove, se pur il ‘programmatore’ è e rimane l’uomo, la macchina sembra la naturale sua ‘finalità meccanicistica’ quindi portata e motivata verso quelle forme finaliste e meccaniciste di vita e società, traguardo di quel meccanicismo radicale a cui è bene opporre il concetto Primo di Vita insito nel suo contrario: quel Finalismo radicale di cui essa è motore e Principio sapendo cogliere non la negazione Bergson(niana) dell’Intelligenza, ma il principio primo della Vita quale Prima e vera… Intelligenza…)


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