giuliano

martedì 3 ottobre 2023

3 OTTOBRE 1226 (18)

 









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volto della terribile 


Natura  (19)







San Francesco compone il Cantico circa un anno e mezzo prima della morte, che avvenne nella notte del 3 ottobre 1226. Posto alla fine della sua vita, esso ne costituisce una sintesi e un inno. Tutte le grandi intuizioni e i grandi temi della sua avventura umana e spirituale vi sono presenti. Tutta la sua storia vi rivive nello sfondo.

 

Francesco era allora gravemente ammalato, soggiornava, secondo la tradizione, a San Damiano presso Assisi; secondo alcuni studiosi più verosimilmente a San Fabiano nei dintorni di Rieti (secondo questi, la designazione di San Damiano sarebbe dovuta a un banale errore di trascrizione).




Ecco il racconto che ne fa la Leggenda perugina:

 

‘Non essendo più in grado di sopportare di giorno la luce naturale, né durante la notte il chiarore del fuoco, stava sempre nell’oscurità in casa e nella cella. Non solo, ma soffriva notte e giorno così atroce dolore agli occhi, che quasi non poteva riposare e dormire, e ciò accresceva e peggiorava queste e le altre sue infermità. Come non bastasse, se talora voleva riposare e dormire, la casa e la celletta dove giaceva (era fatta di stuoie in un angolo della casa) erano talmente infestate dai topi che saltellavano e correvano intorno e sopra di lui, che gli riusciva impossibile prendere sonno; le bestie lo disturbavano anche durante l’orazione. E non solo di notte, ma lo tormentavano anche di giorno; perfino quando mangiava gli salivano sulla tavola. […] Una notte, riflettendo Francesco alle tante tribolazioni a cui era esposto, fu mosso a pietà verso se stesso e disse in cuor suo: “Signore vieni in soccorso alle mie infermità, affinché io possa sopportarle con pazienza”. Giunto il mattino, chiamò i suoi compagni e, postosi a sedere, si concentrò a riflettere, e poi disse: 

 

Altissimo, omnipotente, bon Segnore….

 




Fece quindi venire a sé frate Pacifico, che chiamavano il ‘re dei versi’ e che era stato maestro di canto ‘gentilissimo’ e ‘assai attraente’, e, assieme a lui, compose la melodia, che insegnò agli altri compagni, ‘affinché andassero per il mondo a predicare e lodare Dio. Voleva che dapprima uno di essi, capace di predicare, rivolgesse al popolo un sermone e che, finito il quale, tutti insieme cantassero le lodi del Signore, come giullari di Dio’.

 

Secondo una tradizione consolidata, il Cantico, nella versione originaria, avrebbe dovuto concludersi al verso 22, con l’invito a lodare il Signore rivolto a ‘sora nostra matre Terra’, con l’aggiunta degli ultimi due versi che idealmente possono essere collegati a quelli iniziali.




Il Cantico, dunque, avrebbe dovuto riguardare soltanto le creature inanimate. I versetti del perdono, come è narrato nello Specchio di perfezione, sarebbero stati aggiunti da Francesco, quando, gravemente ammalato, nel suo soggiorno nei dintorni di Rieti, mandò alcuni dei suoi frati a comporre una controversia sorta tra il vescovo e il podestà di Assisi. I versi sulla morte, infine, li avrebbe composti quando gli venne annunciata prossima la fine e ‘dopo che si fece cantare le lodi da lui composte’.

 

Un problema sollevato dagli studiosi a proposito del Cantico è quello delle fonti, individuate in una lunga sequenza di riscontri biblici. Queste indicazioni si fondavano sull’abitudine che Francesco aveva di arricchire i suoi “scritti”, secondo il costume dell’epoca, con citazioni delle Sacre Scritture sia dal Nuovo sia dall’Antico Testamento.

 

A questo fine, ricorreva di frequente all’aiuto e alla collaborazione di qualche frate che aveva compiuto studi di teologia; non è, tuttavia, ciò che si verifica nel Cantico, per il quale si dovrebbe parlare piuttosto di testi che avrebbero ispirato il componimento nel suo complesso.




Abitualmente ne vengono indicati due: il Cantico dei tre fratelli nella fornace ardente (Daniele 3, 51-80) e il Salmo 148. Secondo lo studioso Giovanni Pozzi basterebbe il riferimento a quest’ultimo, citato nella liturgia con il termine latino Benedicite (Lodate) dalla parola di inizio. Il Pozzi sottolinea la somiglianza dello schema dei due cantici. Ambedue, infatti, potrebbero essere divisi in quattro parti: la lode a Dio in assoluto, l’invito alla lode rivolto a tutte le creature, l’invito alla lode rivolto specialmente all’uomo, la chiusa esortativa.

 

È vero: la partizione dei due cantici è analoga e li accomuna l’invito rivolto a tutte le creature, animate e inanimate, a lodare Dio. Tuttavia, quello di Francesco ha una particolarità che lo differenzia sostanzialmente dal testo biblico ed è, oltre all’assenza degli angeli e degli animali, l’assenza anche di qualunque catalogazione gerarchica delle creature.

 

Tutte le creature nel Cantico francescano sono poste sullo stesso piano, proprio in quanto creature. E, se una preminenza si dovesse ricavare, dovrebbe riguardare le creature inanimate.




Nel comporre il Cantico, Francesco certamente non poteva prescindere dalle forme letterarie allora in voga, né tantomeno dalla cultura del suo tempo e dalla frequentazione assidua dei testi sacri, ma riuscì a fondere tutto questo grazie a un particolarissimo entusiasmo creativo che si radicava in un’esperienza unica del divino. E sarà proprio questa esperienza a riportarlo prepotentemente a un rapporto d’amore con e per le cose che escludeva ogni desiderio di possesso e di dominio. In questo entusiasmo realizzerà un’inedita sintesi dei materiali e degli stili che l’epoca e la temperie letteraria gli mettevano a disposizione.

 

Dopo essersi spogliato d’ogni cosa e aver rinunciato anche al sapere (aveva definito sé e i suoi frati ‘idiotae et subditi omnibus’, ‘ignoranti e sottomessi a tutti’), può finalmente rivolgersi alle cose con quella trasparente acutezza che Pascal chiamò ‘esprit de finesse’, che nasce dalla disponibilità totale dell’intelletto e del sentimento a farsi catturare dagli oggetti che lo interpellano muti: la sua intelligenza – scriverà Tommaso da Celano, suo primo biografo – ‘pura da ogni macchia, penetrava l’oscurità dei misteri, e ciò che rimane inaccessibile alla scienza dei maestri era aperto all’affetto dell’amante’.




Francesco comunicava con le cose nel fondo del loro essere, a tutti comune, e poteva quindi parlare con esse chiamandole ‘col nome di fratello e sorella, intuendone i segreti in modo mirabile e noto a nessun altro’. Poteva rivolgersi agli animali, al lupo, agli uccelli, ed essere da loro compreso.

 

Il Cantico è, in qualche modo, la risposta gioiosa al richiamo del nulla. Del nulla inteso non in chiave nichilistica, ma come contenitore dell’essere, come la casa dell’essere. Del nulla dei significati e delle intenzioni di cui l’uomo spesso carica e riveste le sue azioni. Le cose nel Cantico sono invece considerate nella loro semplicità di cose, nella loro nudità di cose, di modi diversi e sempre inediti di esprimersi dell’essere in sé inenarrabile (‘nullo omo è digno te mentovare’).

 

Francesco, attraverso la pratica di una povertà assoluta, aveva fatto il vuoto attorno a sé e dentro di sé e ora tutte le cose di cui si era spogliato gli venivano restituite nella loro pura interezza e poteva cantarne inebriato la bellezza e lo splendore. Ne aveva rifiutato il possesso, aveva rifiutato di servirsene, di condizionarle alla sua utilità, ed ora tutte gli venivano offerte, gli venivano incontro perché ne fosse il cantore. E nel suo canto esse erano restituite a se stesse e trovavano la loro vera identità.




Scopriva che la salvezza non era nella rinuncia alle cose, ma nel loro abbraccio puro e disinteressato. L’uomo non è chiamato solo a lodare Dio attraverso le cose o in ringraziamento di esse, ma soprattutto a invitarle a lodare Dio assieme a lui. Il suo atteggiamento nei confronti delle cose era di sommo rispetto e di dialogo. In alcune circostanze non aveva osato spegnere il fuoco che si era appiccato al saio che indossava; non voleva che si cancellasse alcuna parola scritta, anche se sbagliata; raccomandava di portare obbedienza ‘alle bestie e alle fiere’, a Greccio strofinò la carne sulle pietre perché anch’esse partecipassero alla gioia del Natale…

 

La lettura del Cantico dona un sentimento di sorpresa, come di chi sbuchi da un incubo dentro un universo di luce e di trasparenza cristallina. Un universo innocente. Un universo riconciliato e rappacificato, che ha ritrovato la sua originaria armonia. Quando le cose sono considerate fuori dagli schemi utilitaristici, come avviene appunto nel Cantico, allora esse raggiungono la loro verità. E anche l’uomo raggiunge la sua.

 

Francesco si muove in un mondo riunificato. Non c’è più per lui una realtà materiale e una realtà spirituale. C’è la realtà e basta. Secondo una felicissima intuizione di Riccardo Tordoni nel suo Francesco polvere di Dio, quando Francesco avverte l’invito che gli viene rivolto dal Crocefisso di ‘riparare la sua chiesa’, non pensa, come avrebbe fatto uno dei tanti “eretici” del suo tempo, alla Chiesa universale, alla Chiesa di Roma, ma più semplicemente alla piccola chiesa di San Damiano che stava davanti a lui e che cadeva in rovina.




Egli non poneva le due opzioni in alternativa in quel momento esse si sovrapponevano, coincidevano. Erano la stessa cosa. Riparando la chiesetta campestre di San Damiano, Francesco è implicitamente convinto di contribuire al rinnovamento della Chiesa universale. Anzi, la questione non è nemmeno problematizzata: egli vuole semplicemente fare quello che sente come volontà del Signore. Questo genere di fraintendimenti saranno numerosi nella sua comprensione della realtà, come peraltro lo sono anche nel Vangelo, secondo la cui “forma” egli dichiara di voler vivere ‘sine glossa’, alla lettera.

 

Il Cantico è un eccezionale documento di “mistica laica”, del divino che si incarna nella creatura, del quale essa rappresenta uno dei nomi (il logos), e che perciò esclude il rinvio a qualcosa di diverso del suo essere qui e ora. La creatura è l’immagine visibile dell’invisibile. È qui e adesso che il Dio misterioso e irraggiungibile fa essere le cose chiamandole con il loro nome. È qui e adesso che egli chiede che esse, con il loro stesso essere, lo lodino. La lode diventa così la ragione profonda del creato.

 

‘Laudato si, mi Signore’.




 

  

Il Cantico delle Creature

 

 

 

Altissimo, onnipotente, bon

Signore, tue so le

laude, la gloria e

l’onore e onne

benedizione.

 

A te solo, Altissimo, se

confano e nullo omo è

digno te mentovare.

Laudato sie, mi Signore,

cun tutte le tue

creature, spezialmente

messer lo frate Sole,

lo quale è iorno, e

allumini noi per lui.

 

Ed ello è bello e radiante

cun grande splendore:

de te, Altissimo, porta

significazione.

 

Laudato si, mi Signore, per

sora Luna e le Stelle:

in cielo l’hai formate

clarite e preziose e

belle. Laudato si, mi

Signore, per frate

Vento, e per Aere e

Nubilo e Sereno e

onne tempo, per lo

quale a le tue creature

dai sostentamento.

 

Laudato si, mi Signore, per

sor Aqua, la quale è

molto utile e umile e

preziosa e casta.

 

Laudato si, mi Signore, per

frate Foco, per lo

quale enn’allumini la

nocte: ed ello è bello e

iocondo e robustoso e

forte.

 

Laudato si, mi Signore, per

sora nostra matre

Terra, la quale ne

sostenta e governa, e

produce diversi fructi

con coloriti fiori ed

erba.

 

Laudato si, mi Signore, per

quelli che perdonano

per lo tuo amore e

sostengo infirmitate e

tribulazione.

 

Beati quelli che ’l

sosterrano in pace, ca

da te, Altissimo,

sirano incoronati.

 

Laudato si, mi Signore, per

sora nostra Morte

corporale, da la quale

nullo omo vivente pò

scampare.

 

Guai a quelli che morranno

ne le peccata mortali!

Beati quelli che troverà ne

le tue santissime

voluntati, ca la morte

seconda no li farrà

male.

 

Laudate e benedicite mi

Signore, e rengraziate

e serviteli con grande

umilitate.

 

 



 

Cantico delle Creature*

 

 

(*Versione contenuta in Actus Beati Francisci in Valle Reatina)

 

 

 

Altissimo omnipotente bon

signore, toe so le

laude la gloria et

lonore et omne

benedictione ad te

solo se convengono

nullo homo è digno de

te nominare.

 

Laudato si mon signore da

tucte le creature,

specialmente da miser

lu frate sole el quale

iorna et illumina noi

per luj et ipso è bello

et radiante con gran

splendore de ti signore

porta significazione.

 

Laudato si mon signore da

sora luna et per le

stelle in celo l’hai

fermate clare pretiose

et belle.

 

Laudato si mon signore da

frate vento dariu1 da

nubilu et sereno et

omne tempo per le

quali alle toe creature

dai substentamento.

Laudato si mon signore da

sora aqua la quale è

multo humile et

preciosa et casta.

 

Laudato si mon signore da

frate focu per lu quale

tu illumini la nocte et

ello è bello et Jocondo

et rubostissimo et

forte.

 

Laudato si mon signore da

sora nostra matre

terra la quale ne

sostenta et governa et

produci diversi fructi

et colorati et erba.

 

Laudato si mon signore da

quelli che perdonano

per lo to amore et

sostengono infirmitate

et tribulatione beati

quilli che sostengono

tanto in pace che da te

altissimo serranno

incoronati.

 

Laudato si mon signore da

sora nostra morte

corporale dalla quale

niuno homo morto po

scampar et guai ad

quilli che moro in

peccato mortale.

 

Beati quilli che se trovano

nelle toi sancte

voluntatj che la morte

seconda nolli porra

fare male.

 

Laudato et benedico mio

signore et regratiatelo

et serviateli con

grande humilitate et

cum patientia et

iocunditate et nelle

temptationi so facte

forti et benedicti

sciate tucti in tanto

che omne bona gratia

vi conceda lu patre et

lu figlio et lu spiritu

 

Sancto Amen.

 

Amen







giovedì 28 settembre 2023

GIUSEPPE TUCCI (16)

 









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Giuseppe Tucci  (15/1)  


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corsa alla vetta  (17)







I monaci sono lieti di concedere questa ospitalità, che non solo è opera umana e caritatevole, ma frutta ad essi ed al convento non dispregevoli prebende. Ché anche qui i Lama sono avidi di danaro e bramosi di mercatare. Ecco perché i monasteri sono quasi deserti: i monaci sono scesi nelle fiere a vendere, barattare, fare affari, impartire benedizioni e strologare.

 

Del monastero di Ciocu, piantato su una rupe che si sbriciola in sassi e macigni precipitanti in una immane rovina sul fiume, non conosco vicende particolari; per lo meno se n’è perduta ogni memoria. Ma in quelli di Tindipu e Zuprul vissero niente meno che Cozampa e Milarepa, due dei più celebri asceti della tradizione mistica ed iniziatica del Tibet. Il secondo, non solo grande santo, ma anche sommo poeta, la cui biografia, scritta da uno dei suoi immediati discepoli, può senza dubbio considerarsi come uno dei capolavori letterari dell’Oriente.




Da Ciocu e da Tintipu, il Kailasa appare in tutta la sua gloria; sopra una muraglia gialla come oro, tutta a grandi strati paralleli tagliati a intervalli irregolari da forre gigantesche che disegnano ombre strane e salgono tortuose e frastagliate, s’erge la guglia nevosa, su cui le frequenti valanghe solcano striature profonde come strade che scendano dal cielo. Il silenzio dei luoghi è solo interrotto dal rombo delle superbe cascate che precipitano a valle dalla sommità di dirupi che, a vederli dal basso, danno quasi la vertigine, tanto sono ardui e a perpendicolo.




Per la pista, tutta borri e sassi, che passa e ripassa da una riva all’altra del fiume, sale e scende la folla dei pellegrini: persone di tutte le età, di tutte le fedi e di ogni parte del mondo buddistico e indù. Vanno salmodiando, recitando preghiere, invocando i loro Dei, genuflettendosi ad ogni sasso su cui siano incisi simboli sacri, snocciolando i grani del rosario e facendo girare vertiginosamente il ‘mulino delle preghiere’, quel comodo strumento che i Tibetani hanno inventato per poter innalzare al cielo la loro preghiera tenendo la mente intenta in altri pensieri.




Ci sono ricchi mercanti di Lasa e alti funzionari arrivati con le loro carovane cariche di té, che nel Tibet è monopolio di Stato e viene distribuito nelle varie province da appositi funzionari che ci lo vendono a prezzi stabiliti mendicanti che ostentano tutte le malattie e arrampicano rantolando, nella speranza di ritornare guariti o di esalare l’estremo respiro, su queste rocce; sadhu indiani, che marciano silenziosi, seguiti da gruppi di fedeli che cantano in coro inni a Sciva.

 

La pista sale su un costone che raggiunge 5800 metri e che, dal nome della Dea della salvazione cui è consacrato, è conosciuto come il Dolmala (Passo di Dolma). Su mucchi di sassi accatastati i pellegrini hanno piantato dei pali, hanno steso sulla cima una corda, e sulla corda hanno appeso banderuole di stoffa colorata, sulla quale sono stampate, con inchiostri neri o rossi, formule e preghiere.




Il vento le agita, e chi ha appeso quelle bandetuole alla corda è come se recitasse le preghiere ad ogni soffio d’aria che spira. L’ascesa di questa strada aspra e lunga è anch’essa un simbolo: simbolo della disciplina della vita, che prepara le beatitudini del Nirvana. I più la compiono con animo raccolto e meditante: essi proiettano quasi, in questo breve spazio di tempo, il loro soffrire terreno, e arrivati alla sommità del Passo si concentrano immobili, anticipando le estasi delle supreme beatitudini.

 

Nello spirito di questa gente, in cui profondo è il senso religioso e connaturato il ragionare per simboli, nell’ascesa della montagna sacra si ripete quasi il dramma della vita. E solo quando il passo di Dolma sia raggiunto con questa fede, la fatica dell’ascesa diventa purificazione dell’anima. Ma nella turba dei pellegrini, che ogni giorno qui passa, pochi sono quelli nei quali le tradizioni spirituali dell’antica religiosità indo-tibetana sopravvivono ancora nella loro primitiva purezza.




Luoghi sacri in deplorevole abbandono, dopo il passo, si scende sulle rive di un breve laghetto ghiacciato: quasi diamante incastrato in un cerchio di ferro, ché nera è la roccia, emergente a spuntoni e guglie e piramidi intorno alle acque gelate.

 

Secondo i Tibetani, questa è porta di un palazzo sotterraneo in cui albergano fate e deità esoteriche; secondo gli indù, il lago è consacrato a Parvati, la sposa di Sciva. Altre soste ed altre genuflessioni per le colonne dei pellegrini: i più devoti fendono la crosta ghiacciata e si tuffano nelle acque freddissime. Poi si scende al terzo dei monasteri, quello di Zuprul: il nome significa ‘il miracolo’ e ricorda che in questo luogo Milarepa fece contesa di magia con i maestri bonpo e li vinse con i suoi poteri taumaturgici.




Da allora il lamaismo prese definitivo possesso di questa contrada. Luogo, dunque, celebre nelle tradizioni del Tibet, eppure caduto in miserevole abbandono. Povero e maltenuto è il monastero ci vivono appena due o tre monaci, i quali sono ben lontani da quelle perfezioni morali e mistiche che aveva raggiunto il taumaturgo, di cui ai pellegrini attoniti essi recitano oggi con monotonia e indifferenza un breve sunto biografico, mostrando certi segni sulla roccia come impronte del santo, e chiedendo alla fine, con petulanza, obolo e offerte. Nessuno di loro sa più leggere e scrivere, e ancor meno intendere la nobiltà e la profondità di vita del loro grande maestro.

 

Alle falde del Kailasa, a sud est, c’è un altro monastero, il più grande di tutti. Si chiama Gyantrag, e per arrivarvi bisogna ritornare a Darchin, risalire una forra per un sentiero difficile, che d’un tratto sbuca su una valle larga, tutta cinta all’intorno da dirupi ferrigni coperti sulla cima da nevi perenni. In mezzo alla valle, sopra un colle isolato, il monastero innalza la sua mole superba, quasi a continuare lo slancio del terreno.

 

Tutto intorno, silenzio e solitudine.




Ci siamo arrivati in un giorno di tempesta, tutto era grigio e triste: il nostro mondo lontano come un sogno. Ai piedi del monastero, tombe di asceti che vennero qui a meditare e a trapassare nell’indiscriminato fondo delle cose.

 

Il convento ha una grande storia: nell’interno delle cappelle, vicino a statue e a pitture religiose, troviamo appese corazze e spade, prese forse a predoni uccisi dai monaci soldati nella difesa dei loro templi. Sebbene così pietoso sia il decadimento spirituale delle sette religiose che hanno ereditato la custodia di questi templi, i luoghi, e per la solitudine e per la bellezza alpestre, e soprattutto per le memorie dei santi che vi abitarono, esercitano sul visitatore un fascino, che anche quando se n’è lontani non si può cancellare.




Folle infinite di devoti, che dalla notte dei tempi  passano per pregare, per implorare e per morire, hanno circondato queste rocce così superbe e gloriose di un’aura sacra che ogni spirito religioso non può non sentire. In luoghi come questi, io pensavo come grande e vero è il detto di Ramakrishna:

 

‘inginocchiati dove gli altri si inginocchiano perché Dio è presente dove tanti hanno pregato’.

 

Durante questo pellegrinaggio, che è durato parecchi giorni, ho avuto l’occasione di incontrare molti rappresentanti delle scuole mistiche dell’India e del Tibet; e sebbene questa gente sia per natura restia a parlare di se medesima o della sua fede, conoscendo a fondo le loro dottrine e le loro lingue, e soprattutto la loro psicologia, ho potuto stringere amicizia con molti di questi asceti che quassù traggono a meditare e a pregare. Evidentemente non è questo il luogo di entrare in particolari che interessano specialmente lo studioso di storia delle religioni e delle esperienze mistiche, ma posso francamente dire che, se uno vuole vedere come le teorie ascetiche e yoga dell’Oriente si inverino ancora specialmente e straordinariamente dotate, deve venire in queste solitudini.




Così, con una quotidiana convivenza con alcuni dei più celebri custodi dell’antica sapienza indiana e tibetana, si è conclusa la prima parte del mio nuovo viaggio nei deserti dell’altopiano dell’Himalaya, oltre la grande barriera che, con i suoi ghiacci e le sue cime immacolate, separa l’India dal tetto del mondo.

 

Poi, salutati con un addio che, confesso, mi fu grave al cuore, il lago di turchese e la montagna di Sciva, ripresi il mio cammino attraverso i deserti del Tibet Occidentale, deserti che un giorno interrompevano grandi oasi di cultura ed ora intristiscono nel silenzio e nell’abbandono. Ché, quanto non è roccia arida, son rovine e grotte trogloditiche disabitate, e templi abbattuti, e castella diroccate: un soffio sterminatore si è abbattuto dove un giorno ferveva la vita. Rovine dopo rovine ho pazientemente esplorato, cappelle dopo cappelle ho visitato, e col prezioso concorso del mio compagno, il capitano Ghersi, ho conservato nel ricordo fotografico le opere d’arte, specialmente pittoriche, che ancora restano di tanta gloria.




Ed è così che presso i dirupi argillosi che fanno da sponda al torbido fiume Mangnan la Missione italiana poteva scoprire in un tempio quasi abbandonato pitture ed affreschi dell’undicesimo secolo, che aprono nuovi capitoli nello studio dell’arte indiana: quella superba meraviglia che sono le grotte di Ajanta, nelle quali artisti sconosciuti hanno consegnato in affreschi ammirevoli la loro abilità e la loro pietà insieme, non è più sola: seguaci di quelle scuole vennero sul pianoro tibetano, oltre le aspre giogaie himalayane e, favoriti dall’ardore religioso dei Re di Guge, trapiantarono e continuarono sul tetto del mondo le tradizioni più gloriose delle scuole indiane.

 

Giacquero colà inavvertite per secoli stanno ora per sparire; ma prima che l’ingiuria del tempo e l’abbandono degli uomini ne cancellino le ultime tracce, una Missione scientifica italiana ha avuto la ventura di fotografarle e di rivelarle al mondo degli studiosi.