giuliano

domenica 17 marzo 2024

UNA SCIENZA NUOVA

 




























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d'una medesima 


Storia







Incontrovertibilmente vero, che si prova sereno saggio benefico clima alla sua illuminata vista, concetto questo, che ci fa dimenticare la stessa Geografia al pericolo in cui esposta, e facendoci dimenticare coordinate rette e confini ove talvolta - smarriti - ci troviamo ad ammirare simmetrici panorami, perdendo il senso materiale della Storia nell’intento della Universale Conoscenza a cui l’Anima così come lo Spirito, si eleva all’Infinito.

 

Dacché traduciamo che i principi, anche se esplicitati entro la gravità geografica in cui dedotti o costretti, nella uguale specifica della materia in cui nati, Infiniti nel rispetto alla elevata Natura chi li ha ispirati, aliena alla Geografia così come al limite del materiale Dogma di questa ed ogni altra Scienza, e eternamente al di fuori e simmetrica ad ogni diversa Geografia spirituale che li ha elevati e ispirati. Se questa una condizione a sua volta assoggettata al Dogma della dottrina, sia essa psicologica filosofica teologica e scientifica, noi risolviamo la questione in conformità al principio dell’unione, ovvero non sussiste contrasto, così come fuoco o ghiaccio, negli Elementi così tradotti ed interpretati, ma semmai simmetrici al concetto che da essi nasce e per sempre nascerà per volontà divina, in quanto negli opposti riconosciamo la vita.




Con questo Principio ogni volta ove l’uomo ha modificato il proprio ‘paesaggio’ nell’intento di subordinarlo e dominarlo, noi lo edifichiamo di nuovo, riconoscendo nell’umiltà di un Dio la capacità non più del perdono, in quanto non scorgiamo peccato, semmai la capacità di comprensione nel vedere lo Spirito nel tentativo della Conoscenza, sia questa un atto gnostico che ortodosso; non rileviamo, simmetricamente come evoluto ogni panorama della Terra, divergenza fra il fuoco e il ghiaccio, neppure il principio fisico e bio-chimico che li caratterizza nella differenza, in quanto sappiamo che gli opposti climi e le condizioni in cui nati (anche se protratti da uno all’altro polo che li differenzia fra caldo e freddo) evolveranno secondo l’accordo del riconosciuto beneficio cui la Natura tende a migliorare, e di conseguenza, migliorare le condizioni necessarie al conseguimento oltre che dell’avversa sopravvivenza, anche dell’esistenza.

 

Leggere negli anelli dell’Albero con tutte le vicissitudini a cui il clima ed a cui alla sua vista l’occhio estasiato ed in qual tempo ispirato ne ha goduto (e gode ancora) i benefici frutti, oltre la bellezza e l’ombra da cui più sereno pensiero e respiro, è una Scienza molto più profonda se oltremodo adottata nei simmetrici principi formali della sua nuova dimensione in cui tale ricerca ci illumina.




Ovvero simmetricamente ‘rileviamo e riveliamo’ alterne condizioni cui l’Albero, così come le rocce su cui le radici, non meno del terreno, esposti ad una determinate Geografia - o meglio ancora Ecosistema -, ne hanno modificato il profilo della comune crescita (a cui anche la materia inanimata soggetta), e con ciò siamo in grado di decifrare una invisibile scrittura ben più vasta e profonda circa i muti silenziosi comuni Geni, che la roccia l’albero, ed ogni essere inanimato ed animato, con noi, hanno e condividono ancora; nelle mutevoli condizioni in cui esposti, irrimediabilmente dipendenti l’uno dell’altro, connessi e stabilmente in costante reciproco seppur mutevole rapporto, ma al fine del beneficio, in cui leggiamo l’altrettanta condizione della incorrotta Natura, la quale tende al miglioramento nel dovuto adattamento mantenendo integra la Forma riflessa nella costante Crescita, quasi un costante rapporto fra forma e adattamento, in cui invariata la Spirale in cui leggiamo la Vita. 

 

Solo l’estinzione interrompe in maniera irreversibile cotal evoluzione in seno al costante concetto della Vita,  e dell’invisibile Pensiero che l’ha originata.




Per cui con questa Scienza, deduciamo, rimpiangendo l’Albero, gli strati in cui leggere la sua lenta inesorabile crescita al fine della Vita, e la nostra volontà risiede nel creare un Bosco, una Selva, al fine di migliorare l’esistenza, giacché sappiamo anche che il polmone ove si svolge un determinato principio, ci impone alla sua tutela. Certo l’Albero nella sua sacra simbologia, rappresenta un simbolo, oltre un aspetto ben determinato e specificato, e non solo genealogico di una razza o stirpe sacra che questa sia. Mentre il concetto che alla sua vista ci ispira dispiega una più vasta e connessa genealogia.

 

È altrettanto certo anche, che con la legna non meno del calore che da questo deriva, l’umano ingegno nei secoli si è servito e serve ancora, un vasto principio a cui  contrastare il ghiaccio quale avverso elemento, così simmetricamente per ogni animale più o meno allevato o addomesticato, qual altrettanto fine nel nutrimento della carne. È vero anche che le risorse rivolte alla sua tutela superano i benefici del rogo stagionale, così come oltremodo vero che l’animale ogni animale della selva rischia la prematura estinzione al fuoco da cui l’albero ci dispensa il suo nutrimento. A dispetto della vera sana incorrotta bellezza.




Procedendo su questo, non più immateriale Sentiero, nella volontà di volermi coniugare al Dio che così benefica ha creato a sua immagine Madonna Beatrice Natura, divengo immediatamente eretico. Ed altresì avversato da chi dello Spirito fa e promuove le alterne ragioni o stagioni della propria dottrina. Invece sappiamo bene che la Verità supera le materiali Ragioni a cui il rogo della dogmatica dottrina, impongono determinate scelte, trascurando più profonde e benefiche Verità.

 

La concretezza di una determinata Scienza rivolta alla comprensione del comune passato rivolto al beneficio del futuro, ci porta alle trascurate simmetriche Ragioni dell’Infinito, non certo Infinite le Stagioni della Vita con cui leggere gli anelli della Storia, semmai simmetriche alla condizione in cui ciò che deduciamo o interpretiamo come un soggetto senza Anima Pensiero e moto, diverso da un animale, nella differente caratteristica data dal movimento, e nella classificazione puramente materiale di una o più scienza, le quali classificano studiano ed interpretano, lo precludono ad un essere vivo, pur principio primo e fondamentale da cui e per cui la Vita.




Ma oltre modo preclusa nella capacità di una determinata Logica, più o meno posta nella paradossale illogicità dell’incomprensione così come scientifica dottrinale, la quale classificando e procedendo ad un comune divergente simbolo interpretativo, che la presunta Conoscenza ispira per ogni anello del reciso tronco, da cui ogni cosa o elemento classificato si presuppone conosciuto in quanto entro la materia in cui svolge la funzione, sia come vegetale (alieno al Pensiero quindi ad ogni principio di Conoscenza) o come albero abdicato alla dottrina d’una comune Via; quantunque incapace di riconoscere gli stadi evolutivi da cui transita l’elevato Pensiero, ovvero come un Dio pensa crea e dispensa  a sua immagine, un universale Beneficio (al di fuori dalla Dottrina).

 

Nel compiuto illimitato limite della dotta Conoscenza abbiamo posto una severa Geografia, in cui una determinata Natura specificata ma non del tutto dedotta o compresa nella verità a cui per sua Infinita caratteristica appartiene nella differenza, e cui invisibile espleta ed assolve superiore funzione ( o capacità posta in ugual differenza) ad ogni pensiero parola o scrittura nell’insieme dell’umano da cui, come poco fa detto circa la suddetta classificazione entro la materia divide e differenzia, in quanto come tale tramite di un più elevato Principio e Pensiero e oserei dire, Verbo, circa la Creazione cui destinato non più l’uomo, nell’elevato concetto classificatorio dedotto, ora più limite che oggetto illimitato della propria materia, ed a cui detto limite subordinato, nell’Infinita per quanto possa esserlo principio da cui la Vita, o il conseguimento in cui posta l’Anima e lo Spirito a lei subordinato.    




Dacché ne deduciamo ancora l’‘oggetto-soggetto’ cogitato sia filosoficamente che scientificamente e teologicamente e come altresì rapportato nella sua ed altrui funzione ‘classificatoria’ posta nel Dogma, non ben compreso nei processi del proprio ed altrui (inarticolato seppur Infinito= Dio, ovvero assente all’atto distintivo da cui l’umana prerogativa e classificazione di cui l’umano posto in Cima alla piramide della specie) Pensiero, giacché la Vita (con il suo vero principio) perisce in ciò di cui, per opposto modus operandi, subordinata al Dominio della morte, con la pretesa di riconciliarla, o peggio, addomesticarla quindi subordinarla a chi per ultimo ne classifica il principio sottratto all’atto Creativo, senza il Superiore atto cogitato di cui l’uomo si assume l’esclusiva comprensione nella dinamica evolutiva il quale lo differenzia, sia nel Dominio stesso, sia nella comprensione circa la presunta Intelligenza al Dio che l’ha posto al vertice qual ultimo elemento della catena evolutiva.

 

Da ciò non ne ricaviamo un miglioramento come lo è per chi ha compiuto l’atto evolutivo (ovvero la Natura), ma al contrario, in questo specchio, decifriamo la morte qual ultimo intento apocalittico rivolta all’involuzione, di un intento nato e rivolto alla costante da cui leggere  decifrare e risalire la Spirale della (morta) Vita, per volontà umana!




La Vita come tale accresce il proprio tronco negli anelli di cui la radice ben cinta entro la Terra per il dovuto necessario duplice nutrimento, e renderlo poi al concetto dell’accrescimento sino alla foglia del più elevato Ramo, d’un Pensiero articolato nei vasti Rami sino alle alterne Stagioni di cui il frutto accrescerà la dovuta necessaria Comprensione rivolta all’ispirata evoluta Conoscenza; ma l’uomo nel gesto del secolare simmetrico accrescimento rivolta all’opposto Dogma del Dominio, reciderà tronco arbusto e l’intera Selva con la pretesa scritta nell’impropria Geografia del Dogma, di cui confini ed improprie Cime, eleveranno la ciclicità anch’essa scritta in simmetrici anelli di dominio, i quali rimembriamo conserviamo e osserviamo, come atti disgiunti e congiunti d’una medesima ciclica Storia compiere medesima opera; seppur ammirata nelle impareggiabili opere comunque sempre disgiunta dalla simmetrica evoluzione di cui la Natura subordinata ad una prospettiva aliena alla figura rappresentata in primo piano, sia questa una icona regale qual volto umano, sia questa una icona dottrinale rappresentare santi aneddoti, sia questa una semplice o composta scena seppur inerente alla vita, la Natura domina se rappresentata, al di fuori quale fosco panorama subordinato al Dominio umano, da cui l’umano ricaverà ogni abominio per la propria aliena impropria concezione di Vita, quindi dell’atto cogitato di un più probabile Dio Straniero. 




Dicevamo l’Albero sarà sradicato, e noi leggeremo con ampio sforzo, grazie alla nuova Scienza da cui una più profonda comprensione posta fra la crescita forma e tutti i fattori fra loro connessi quali Elementi, i quali hanno determinato oltre la dovuta crescita, anche le ricavate dedotte condizione ambientali cui l’Albero come un essere vivo nella propria genetica, simmetrica al contesto della vita, ha conservato e abdicato alla conoscenza dell’uomo; seppur lo stesso nelle proprie Memorie ha lasciato ampio testimonianza delle proprie o improprie stagioni della Vita, mai potremmo comprendere dall’eterno processo della Storia, quanto appartiene alla vera sua (malefica) natura inerente alla materia, e all’opposto concetto di simmetrico Infinito dato - seppur nell’apparente limitatezza di ugual materia (come potrebbe esserla un albero) - posta nello specchio del Tempo, rivolta alla maggiore finitezza e compiuta evoluzione confacente con il miglioramento delle condizioni di Vita.




L’Albero in ciò può dirsi maestro, e prendendo spunto da questo illuminato esempio, ci sia concesso di apostrofare la frammentata scomposta ciclica storia dell’uomo sempre disgiunta dalla sua innaturale natura seppur ricca di opera e pensiero assente dallo stesso nella summa data dalla reale Storia, la quale come sempre, e non solo nel caso di Pavel, abbatte il tronco, la Selva, l’intero Bosco, da cui ogni sano duraturo accrescimento nell’estesa ugual Geografia dell’intera Sfera, non apporterà quel Beneficio di cui il sano frutto appagherà l’evoluzione della Vita, e con essa il Sentiero in questa intrapreso, verso la Cima non più della conquista, ma della dovuta Conoscenza e della comprensione di come cogita accresce e crea (per suo tramite) alla sua ombra un Dio. 


(Giuliano)








domenica 25 febbraio 2024

IL CAPRO ESPIATORIO

 








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circa il controllo letale 


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Seconda parte







A Chignolo, frazione di Oneta, in valle del Riso, i lupi hanno attaccato domenica, in pieno giorno, gli animali custoditi, a poche centinaia di metri da un’azienda che alleva ovicaprini e una trentina di vacche da latte. La comunicazione è arrivata dalle associazioni Pastoralismo Alpino. Tutela Rurale e il Comitato Valseriana-tutela persone e animali dai lupi. Secondo le tre associazioni i lupi sono poi tornati nella scorsa nottata, tra lunedì 11 e martedì 12 dicembre: il risultato è la morte di due capre, il ferimento di un becco, una pecore e due capre, per le quali non si sa ancora se esista una possibilità di recupero.

 

 

“Va precisato che le reti utilizzate sono quelle “alte”, dichiarate “anti-lupo” dai servizi regionali. Gli allevatori sostengono da tempo che queste reti che, secondo gli amici dei lupi (e le istituzioni) dovrebbero difendere efficacemente gli animali, servono a ben poco perché il lupo le salta in scioltezza -spiegano le associazioni in una nota-. L’episodio rappresenta l’ennesima conferma dell’espansione del lupo in Val Seriana. Oltre ai casi dell’alta valle se ne aggiungono altri che indicano una rapida discesa dei predatori verso la media valle. Veronica Borlini, la giovane allevatrice vittima della predazione, riferisce che anche lo zio ha già subito dei danni a Gorno sul monte Grem. Come Comitato per la tutela delle persone e degli animali dal lupo non possiamo non stigmatizzare la persistente tendenza a minimizzare il problema della presenza del lupo da parte delle istituzioni, in primis della Polizia provinciale che a lungo ha negato che fossero avvistati i lupi. Per discutere della situazione e delle iniziative da intraprendere in tema di lupi, si terrà, alla presenza di alcuni esponenti della Regione Lombardia, un convegno ad Ardesio il 26 gennaio”.

 

In Val Seriana il 2023 sarà ricordato come quello del ritorno ufficiale del lupo nel territorio. In particolare, l’ultima segnalazione è quella della fine di ottobre, quando furono visti, grazie alle fototrappole della Polizia provinciale, 4 piccoli lupi, figli della coppia avvistata a Gandellino all’incirca un anno fa. Si è trattato così del primo branco accertato dalle forze dell’ordine provinciali. 

(Voci locali)




 Secondo la tradizione del capro espiatorio, il lato malvagio o inferiore dell’uomo può essere trasferito da lui a un animale. In questo processo di rimozione della malattia o del peccato, lo spirito cattivo viene espulso dall’essere umano ed entra nella forma di qualche bestia. In India l’animale da fuga può essere un maiale, un bufalo, una capra o un gallo nero.

 

Gli ebrei avevano l’usanza di portare un capro alla porta del Tabernacolo e il sommo sacerdote caricava i peccati del popolo sull’animale, mandandolo poi via con il suo carico nel deserto.

 

In Tibet un capro espiatorio umano, vestito di pelle di capra, viene cacciato dalla comunità non appena la gente ha confessato i propri peccati, e ricchi Mori tengono un cinghiale nelle loro stalle affinché vi ‘entri’ lo spirito maligno cosicché i loro cavalli immuni dal suo attacco.

 

Nel luglio 1603, nel distretto di Douvres e Jeurre cadde una grande tempesta di grandine che danneggiò tutti gli alberi da frutto e furono visti tre lupi misteriosi. Non avevano coda e passarono innocui attraverso un gregge di mucche e capre, senza toccarne nessuna tranne un capretto, che uno dei lupi portò lontano senza ferirlo in alcun modo. Questa condotta innaturale rendeva abbastanza evidente che questi non erano veri lupi, ma stregoni che avevano provocato la tempesta di grandine e desideravano visitare la scena del disastro. Si diceva che il lupo più grande che guidava il branco doveva essere lui stesso il potente malvagio.

 

Nel Poitou i contadini hanno una curiosa espressione, ‘courir la galipote’, che significa trasformarsi di notte in un lupo mannaro o in un altro animale umano e inseguire la preda attraverso i boschi. Il galipote è il famiglio o folletto che lo stregone ha il potere di inviare.




Nei secoli oscuri gli stregoni capaci di questo compimento venivano trattati secondo la legge, e centinaia venivano processati per aver praticato arti oscure, essendo condannati, nella maggior parte dei casi, ad essere bruciati vivi o squartatai sulla ruota. Uno dei casi storici più noti fu quello di Pierre Bourgot, il diavolo in persona che per due anni fu processato e torturato dall’inquisitore generale Boin.

 

Una storia straordinaria su un lupo mannaro viene da Ansbach nel 1685:

 

Si diceva che la presunta incarnazione di un borgomastro morto di quella città rapisse uomini donne ed infanti in un borgo vicino sotto forma di lupo, divorando con essi il bestiame. Alla fine la bestia feroce fu catturata e sgozzata, e la sua carcassa fu avvolta in un abito di tela di cera color carne, mentre la sua testa e il suo viso furono adornati con una parrucca color castagna e una lunga barba bianca, dopo che il muso dell’animale era stata tagliato e sostituito con una maschera che ricordava i lineamenti del borgomastro morto.

 

Questa effige fu impiccata, la sua pelle imbottita e messa in un museo, dove fu additata come prova dell’effettiva esistenza dei lupi mannari.

 

Questo incidente sembra dimostrare che la credenza nei lupi mannari non è mai stata definitivamente sradicata, ed è del tutto naturale che un tema che ha avuto un tale credito in tutto il mondo si ripeta ripetutamente nella mitologia e nella letteratura.




Ciò che rende visibile il lupo mannaro è la sovreccitazione quasi sonnambulistica causata dalla paura di chi lo vede, i colpi inferti al lupo mannaro lo feriscono davvero, e per la corrispondenza dell’immateriale con il corpo materiale possono ricondurre il corpo alla sua materia originaria.

 

Questa particolarità della ferita inflitta al lupo mannaro riproducendosi nell’essere umano è sottolineata da un incidente avvenuto intorno al 1588 in un minuscolo villaggio situato tra le montagne dell’Alvernia: un signore stava guardando una sera dalle finestre del suo castello quando vide passare un cacciatore di sua conoscenza diretto alla caccia. Chiamandolo, lo pregò che al suo ritorno gli riferisse la fortuna che aveva avuto nella caccia. Il cacciatore dopo aver seguito la sua strada fu attaccato da un grosso lupo. Sparò con la pistola senza colpire l’animale. Poi lo colpì con il suo coltello da caccia, recidendo una delle zampe, che raccolse e mise nello zaino. Il lupo ferito corse rapidamente nella foresta. Quando il cacciatore raggiunse il castello raccontò all’amico della sua strana lotta con un lupo, e per sottolineare la sua storia aprì lo zaino.

 

Il proprietario riconobbe l’anello come di sua moglie, e affrettandosi in cucina per interrogarla la trovò con un braccio nascosto sotto le pieghe di uno scialle. Lo scostò e vide che aveva perso la mano. Poi confessò che era stata lei che, sotto forma di lupo, aveva attaccato il cacciatore.

 

Fu arrestata e bruciata viva poco dopo a Ryon.




Olao Magno dichiara che sebbene gli abitanti della Prussia, della Livonia e della Lituania, soffrano considerevolmente delle depredazioni dei lupi per quanto riguarda il loro bestiame, le loro perdite non sono così gravi in ​​questi stati come quelle che subiscono per mano dei lupi mannari.

 

Alla vigilia di Natale moltitudini di lupi mannari si radunano in un certo punto e si uniscono per attaccare esseri umani e animali. Assediano case isolate, sfondano le porte e divorano ogni essere vivente. Irrompono nelle cantine dove viene conservata la birra e lì svuotano le botti, dimostrando così i loro gusti umani. Un castello in rovina vicino a Curlandia sembra essere stato il loro luogo d’incontro preferito, dove migliaia di persone si riuniscono per mettere alla prova la loro agilità. Se qualcuno di loro non riesce a scavalcare le mura del castello, viene ucciso dagli altri, poiché in tal caso sono considerati incompetenti per il lavoro da svolgere.

 

La paura dell’animale si ricollega a quell’universo di fobie, quasi sempre di natura irrazionale, riconducibile al tema della diversità e che molto spesso ha guidato campagne di persecuzione nei confronti non solo delle altre specie, ma altresì di etnie diverse, di portatori di diversità o semplicemente di persone che non aderivano ai costumi o alle credenze condivise da una particolare comunità.

 

La diffidenza verso tutto ciò che è diverso – nelle sue articolate accezioni: paura, insofferenza, superstizione, odio – fa sì che con molta facilità l’animale diventi una sorta di capro espiatorio ogni qualvolta un gruppo sociale o etnico si senta minacciato per un qualsivoglia motivo. Il portatore di diversità diventa infatti un elemento che perturba l’equilibrio e la stabilità dell’insieme, ovvero il grado di coesione interna, e questa stessa caratteristica guida le pulsioni a lui rivolte che quasi sempre si presentano improntate su una forte ambiguità.




Il capro espiatorio è esemplificazione dei mali che affliggono una particolare comunità, ma nello stesso tempo è punto di aggregazione dei conflitti e quindi purificatore (salvatore) del gruppo che ne decreta il sacrificio. È evidente il carattere sacrale di questo processo che manifesta un profilo relazionale ambivalente, laddove è presente la pulsione di allontanamento – tramite l’uccisione sacrificale – ma nello stesso tempo di incorporazione, seppur simbolica, del diverso.

 

Possiamo notare che quanto più chiuso è il gruppo, e conseguentemente forte il concetto di identità, tanto più facilmente si realizza questo rituale.

 

Nel Medioevo l’animale era il segno che permetteva il complesso di operazioni purificatorie necessarie per far parte della comunità cristiana; il timore dell’animalità era fondato sulla paura di uscire dall’umanità, cioè di contaminarsi ossia di entrare in un territorio ibrido. Sono di questo periodo le più interessanti trattazioni di metamorfosi in animale, rischio a cui andavano incontro coloro che volontariamente o accidentalmente si trovavano in una particolare situazione di isolamento dalla comunità.

 

Andare a vivere in un bosco, rimanere per lungo tempo solo con animali, trovarsi nella foresta in una notte di luna piena... sono alcune delle più consuete spiegazioni al fenomeno della trasformazione in animale, presente nei miti dei miti dei lupi mannari, degli uomini silvestri, delle donne orso. Licantropia, vampirismo ecc. sono altrettante manifestazioni di questa concezione di animale come inquietante oggetto alla deriva, minaccia in grado di frastornare l’uomo e di fargli perdere le sue caratteristiche spirituali.

 

L’animalità è perciò un continente misterioso in cui è facile perdersi o naufragare.




Ritroviamo peraltro questo luogo comune un po’ in tutta la tradizione occidentale, a partire dall’Odissea di Omero per finire nel racconto La metamorfosi di Kafka. La zooantropia (ossia la paura di trasformarsi in animale) è presente in gran parte della letteratura moderna che ne ha fatto un cliché, dando vita a diverse tradizioni. Oggi col termine ‘zooantropia’ si intende anche una forma di malattia psicogena dove il soggetto non solo teme di trasformarsi in animale – spesso con forme di atteggiamenti ossessivo-compulsivi che lo portano a lavarsi in continuazione – ma talvolta è persino convinto di essersi mutato in animale e pertanto di doversi comportare di conseguenza.

 

La paura dell’animale può colpire l’individuo durante il giorno e avere eventi scatenanti nella realtà contingente (un insetto che entra dalla finestra, un cane incontrato durante una passeggiata) oppure può manifestarsi durante il sonno. In questi casi alcune persone arrivano addirittura a non riuscire più a dormire a causa di incubi popolati da animali minacciosi.

 

Nei racconti fantastici rinveniamo l’animale sia sotto forma concreta, ossia come pieno protagonista della vicenda nei diversi ruoli precedentemente esaminati, sia sotto forma simbolica – a rappresentare o a richiamare particolari significati – o ancora come entità capace di facilitare particolari eventi. Il demone (o, riprendendo il vocabolo greco, daimon) animale è uno spirito che abita le zone di confine, sfuggevole e tenebroso, e si manifesta a tempo debito per punire l’arroganza umana o comunque far comprendere all’uomo i suoi limiti.




La presenza di un daimon animale è sempre stata avvertita con timore dall’uomo, che l’ha immaginata come una figura misteriosa e potente, da pacificare ogni qual volta il patto di amicizia tra il mondo degli uomini e quello degli animali veniva turbato da ‘invasioni territoriali’ come per esempio una battuta di caccia. In molte tradizioni culturali l’attività venatoria o sacrificale ancor oggi dev’essere eseguita da un sacerdote e realizzata con opportune liturgie mirate a non turbare la suscettibilità del dio degli animali o comunque a calmare la sua ira.

 

Alcune fra le teorie più accreditate, per dare una spiegazione ai graffiti paleolitici che raffigurano scene di caccia, li considerano veri e propri tributi per pacificare la divinità degli animali e scongiurare la sua vendetta. Il daimon animale abita le foreste, le vette dei monti, gli abissi, in altre parole i luoghi più ostili e irraggiungibili; incarnazione dello spirito primigenio, è il legittimo proprietario dei luoghi lussureggianti di vegetazione, il signore delle forze primordiali. E a questo proposito è necessaria una piccola digressione. La forza del daimon animale è riconducibile alle rigogliose energie della natura in termini di fertilità, vigore, istintività, piena capacità di reagire agli scacchi dati dal mondo esterno.

 

La capacità della natura di riprendere possesso di quanto le è stato tolto dal lavoro dell’uomo – pensiamo al vigore delle piante selvatiche, alla capacità riproduttiva degli invertebrati, alle grandi calamità naturali – rafforza nell’uomo questo senso di religiosità che nasce ovviamente da un sentimento di inferiorità e di precarietà. Il reato di ‘animalicidio’ non solo scatena il senso di colpa – in genere stornato attraverso un vasto repertorio di finzioni, tra cui la cosiddetta ‘commedia dell’innocenza’  – ma soprattutto può scatenare le ire del dio degli animali, di qui il bisogno di una liturgia di pacificazione.




Ma il daimon animale è altresì il regno dei grandi istinti, il luogo della perdita della razionalità, della follia, del panico (parola legata a Pan, dio della natura); questo territorio presenta vaste aree di congiunzione con il mondo ultraterreno e magico, cosicché lo spirito animale si trova ad affiancare l’uomo nei riti e nelle pratiche esoteriche. Pertanto possiamo affermare che l’abbondanza di immagini e simbologie animali testimonia il valore di primo piano da sempre attribuito al daimon animale come presenza misterica propiziatoria o comunque da pacificare attraverso tributi e liturgie.

 

Il daimon animale come entità negativa può riemergere nell’uomo recuperando o dando voce alle pulsioni più profonde e istintive del suo intimo: di qui il mito della ‘bestia umana’ rinvenibile in buona parte della narrativa del XIX e XX secolo. In queste narrazioni le pulsioni di retaggio animale – quelle sconvenienti – vengono individuate non nel complesso della natura umana ma nella collezione di sentimenti tenuti a freno dalle norme sociali o adempiuti in ambito privato: l’aggressività, la pulsione sessuale, le grandi funzioni fisiologiche.

 

Nei racconti in genere il daimon animale riemerge per una caduta di razionalità o, più genericamente, di umanità; la trasformazione in animale viene collegata alla vita nei boschi in totale isolamento, all’esposizione ai raggi lunari in una notte di luna piena, alle pratiche di zoorastia, alla morsicatura di una belva feroce, alla follia o a patologie neurologiche quali l’epilessia. Ma ritornando genericamente al concetto di animale come simbolo misterico possiamo dire che ha come punto di partenza l’idea, presente tanto nella tradizione monoteista quanto in quella politeista, che alcune specie abbiano un rapporto di comunione con la divinità: il figlio di Dio è l’agnello, lo Spirito Santo la colomba, il Maligno il serpente, solo per citare gli esempi classici della tradizione cristiana.




Questa comunione nasce e si fonda sul presupposto che il divino, nel bene come nel male, si appalesi prima al mondo animale poi a quello degli uomini. Le qualità misteriche dell’animale, che lo legano indissolubilmente alla sfera del sacro, sono pertanto riconducibili a una sorta di continuità tra ambito divino e animale. In altri termini, l’uomo ritiene che gli animali in genere, e alcune specie in particolare, siano graditi agli dèi: la divinità parla attraverso l’animale, si traveste da animale, elegge l’animale a suo alter ego.

 

È in questo senso che va letto uno degli utilizzi più frequenti della simbologia misterica dell’animale: il capro espiatorio. Il sacrificio, in genere, è connotato dall’offerta al sovrannaturale di qualcosa di prezioso per l’officiante, ma soprattutto gradito alla divinità. Esistono diverse letture della pratica sacrificale; secondo René Girard, il capro espiatorio ha il compito di prendere su di sé tutte le colpe della comunità – divenendo il colpevole che ha turbato l’ordine naturale e soprannaturale – ma al tempo stesso ha il compito, con la sua morte, di ristabilire tale armonia liberando la comunità dai mali che la affliggono. 

 

 

GIRARD CI DICE 

 

  

In numerosi rituali, il sacrificio si presenta in due opposte maniere, ora come una ‘cosa molto santa’ da cui non ci si potrebbe astenere senza grave negligenza, ora, invece, come una specie di delitto che non si potrebbe commettere senza esporsi a rischi altrettanto gravi.

 

C’è un mistero del sacrificio…


(PROSEGUE....)








mercoledì 21 febbraio 2024

LE NOSTRE E LE LORO REGOLE

 










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circa l'onestà (1)


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Capitolo completo  


& IL Controllo letale







Come è noto, era il 1927 e a Londra presso l’editore Benn il biologo Julian Huxley pubblicava un testo piuttosto provocatorio già a partire dal titolo Religion without Revelation: in quell’opera egli coniava un vocabolo al quale trent’anni dopo avrebbe riservato un breve saggio specifico, transhumanism. 

 

La sua concezione, dai contorni un po’ visionari, cercava di far balenare un futuro della specie umana destinato, anche nella linea dell’evoluzione, a trascendere molti limiti attuali, dando origine a una sorta di nuovo fenotipo antropologico.

 

Dovevano trascorrere altri quarant’anni per veder sorgere, su impulso di Nick Bostrom e David Pearce, nel 1998 la World Transhumanist Association, divenuta poi la Humanity Plus con la sigla H+, che trasformava il neologismo huxleyano nel vessillo ottimistico di un movimento, capace di prefigurare e di configurare un’evoluzione della condizione umana guidata dall’uomo stesso attraverso le risorse delle nuove conquiste scientifiche.

 

Frattanto, però, si andava coniando un altro termine, postumanesimo, che si appaiava al precedente talora come sinonimo, più spesso come cifra del fondamento teorico sotteso al transumanesimo, del quale condivideva il superamento dell’umanesimo classico fortemente antropocentrico, marcatamente etico e fieramente culturale.

 

Detto in altri termini, i due vocaboli si collocherebbero in contrappunto armonico: il transumanesimo rimanderebbe a un progetto scientifico, mentre il postumanesimo ne sarebbe la versione più filosofica e quindi supporrebbe una visione più globale, segnata persino da ipotesi escatologiche.

 

Tenendo conto della qualità un po’ nebbiosa della letteratura finora prodotta da e su questa concezione antropologica, evochiamo in modo semplificato solo alcuni lineamenti che potrebbero stimolare anche dialetticamente la filosofia e la teologia.

 

La visione transpostumanistica assume e si colloca all’interno di tutti i dati che abbiamo precedentemente descritto. Infatti, anche per questa concezione l’attenzione si concentra sulle straordinarie potenzialità della scienza e della tecnica, sulle loro capacità di modificare i dati biologici umani, senza però dedicarsi alle ricadute etiche, senza indagare sulle implicazioni socio-esistenziali, senza elaborare premesse teoriche che sappiano criticare la pura e semplice pratica coi relativi esiti fisiologici.

 

Così, ormai abbastanza scontata sembra l’ipotesi del citato cyborg; si rimanda ad alcune discipline e strumentazioni sono entrate nei programmi della ricerca scientifica - pensiamo agli acronimi diffusi come GRIN (Genetics, Robotics, Information technology, Nanotechnology) o NBIC (Nanotechnology, Biotechnology, Information technology and Cognitive science) - ; si accetta la chirurgia ricostruttiva ed estetica dalla pratica sempre più acclamata; si è certi che l’intelligenza artificiale si allargherà verso nuove frontiere con macchine abilitate a eseguire operazioni prettamente umane; si è convinti che l’ibridazione tra uomo e componente tecnica tenderà ad espandersi anche oltre la mera sostituzione o riparazione di organi deficitari, aspirando a migliorare, a potenziare e a trasfigurare la struttura somatica; si spera nel progresso delle neuroscienze verso orizzonti sempre più vertiginosi.

 

Tendenzialmente l’atteggiamento del transpostumano è omogeneo a questi progetti scientifici ed è proiettato a superare l’homo faber trasformandolo in homo creator.

 

Si riesce, così, a intuire che sotto l’ombrello del transpostumano si riuniscono effettive conquiste benefiche, ma anche scenari dai profili fantascientifici che ereditano la celebre tradizione ebraica del Golem, col suo sogno di creare un homunculus analogo all’homo sapiens, dotato di una sua autonomia e di un’operatività non semplicemente programmata, qualità negata all’attuale robot, pur sempre dipendente da impulsi primari umani.




I fasti delle loro Chiese si celebrano con immagini allucinatorie: il cliente che denuncia l’impiegato e la sua ed altrui Storia (della rispettabile Compagnia posto fra la lunga storia detta e ripetuta, e quella negata, concernente un’altrettanta verità mai dispensata entro o fuori il loro laboratorio dell’eterna ricerca dell’eretico…), che a sua volta denuncia il collega, per ultimo il direttore che sprona a questa illuminante pratica, di modo che può esercitare maggior terrore, e con esso più potere, più nepotismo, più mediocrità. Ed infine l’intero sistema su cui poggia questa tribolazione nel dispensare ad ognuno Nessuno escluso, pane di arretratezza economica a cui l’industriale dall’alto del suo pulpito comanda ordine e disciplina e, come avete letto circa la sua ultima missiva, severa pulizia!

 

Con l’editto di non farvi più ritorno in codesti ed altri luoghi!


 


 

La mia infatuazione per lo studio della natura  animata  si  trasformò  rapidamente  in  una  vera  e  propria  storia  d’amore.  Ho  scoperto  che  anche  gli  esseri  umani  con  cui  lo  studio  mi  ha  messo  in  contatto  potevano  essere  affascinanti.  Il  mio  primo  mentore  è  stato  uno scozzese, non un pastore si badi bene ed ancor meglio, ma dell’ordine della regola di Scozia, e quasi un fratello  di  mezza  età  che  si  guadagnava  da  vivere  consegnando  ghiaccio,  ma  che  in  realtà  era  un  ardente  mammifero  dilettante. 

 

In tenera  età  aveva  contratto  la  rogna  o  la  lebbra,  o  qualche  altra  malattia  infantile  simile,  e  aveva  perso tutti  i  capelli,  per  non  recuperarli  mai  più un po’ come quel noto Benito di imprecisata perduta o riacquisita memoria.  Una  tragedia  che  potrebbe  aver  avuto  a  che  fare  con  il  fatto  che,  quando  lo  conobbi,  lui  aveva  già  dedicato  quindici  anni  della  sua  vita  allo  studio  del  rapporto  tra  la  muta  estiva  e  l’incipiente  narcisismo  nei  roditori  tascabili.

 

Quest’uomo  era  diventato  così  intimo  con  i  roditori tascabili  che  poteva  ammaliarli  con  fischi  sibilanti  finché  non  emergevano  dai  loro  rifugi  sotterranei  e  gli  permettevano  passivamente  di  esaminare  i  peli  sulla  loro  schiena. Né  furono  meno  interessanti  i  biologi  professionisti  con  cui  entrai  in  contatto  più  tardi. Quando avevo diciotto anni  trascorsi  un’estate  lavorando sul  campo  in  compagnia  di  un  altro  mammalogo,  settantenne,  pieno  di  lauree  e  la  cui  imponente  statura  nel  mondo  della  scienza  era  stata  guadagnata  in  gran  parte  da  uno  studio  approfondito  delle  cicatrici  uterine  nei  toporagni.  

 

Quest’uomo, uno stimato  professore  di  una  grande  università  americana,  sapeva  sugli  uteri  dei  toporagni  più  di  quanto  chiunque  altro  avesse  mai  saputo.  Inoltre potrebbe parlare  di il  suo  argomento  con  vero  entusiasmo.  La  morte  mi  troverà  molto  prima  che  mi  stanchi  di  contemplare  una  serata  trascorsa  in  sua  compagnia  durante  la  quale  ha  affascinato  un  pubblico  misto  composto  da  un  commerciante  di  pellicce,  una  matrona  indiana  Cree  e  un  missionario  anglicano,  con  un  monologo  di  un’ora  sulle  aberrazioni  sessuali  nelle  donne.  toporagni  pigmei.  (Il  commerciante  fraintese  il  tenore  del  discorso;  ma  il  missionario,  abituato  da  anni  a  dissertazioni  prive  di  senso  dell’umorismo,  presto  lo  mise  a  posto.)

 

Le mie  predilezioni personali  riguardavano  gli  studi  sugli  animali  vivi  nel  loro  habitat.  Essendo  un  tipo  letterale,  ho  preso  la  parola  biologia  –  che  significa  studio  della  vita  –  al  suo  valore  nominale.  Ero  molto  sconcertato  dal  paradosso  che  molti  dei  miei  contemporanei  tendevano  a  rifuggire  il  più  possibile  dagli  esseri  viventi,  e  scelsero  invece  di  limitarsi  all’atmosfera  asettica  dei  laboratori  dove  usavano  materiale  animale  morto  come  materiale  di  consumo.  Il loro  argomento  infatti,  durante  la  mia  permanenza  all’università  stava  diventando  fuori  moda  nell’avere  a  che  fare  con  gli  animali,  anche  quelli  morti.  I  nuovi  biologi  si  concentravano  sulla  ricerca  statistica  e  analitica,  per  cui  la  materia  prima  della  vita  non  diventava  altro  che  foraggio  per  il  nutrimento  delle  macchine  calcolatrici. 

(Farley  Mowat)




Il cliente dell’eterna bottega di questo strano commercio ‘transumano’ litiga, e non più Dialoga, con il cliente d’una strana bottega da una diversa e più privilegiata mercanzia; il collega con il collega, il direttore con un altro direttore, e tutti assieme poi, come un quadro di Boschiana memoria, si godono lo spettacolo dell’eretico bruciato sul rogo.

 

Basta una telefonata, un falso delatore, una ingiuria nuova e improvvisata, una lettera anonima, un sottointeso, un cenno, un ammiccamento, uno sguardo…, e l’inquisitore è servito. Tutti uniti poi, dallo spettacolo di un rogo nuovo ai tribunali dei media, dove dal delatore fino al più elevato politico o industriale di turno, si godono l’innocente barattato per colpevole nel tetro teatro del regime.

 

Non servono accertamenti o processi, basta ciò che la forza dei compromessi del potente feudatario ha costruito dall’alto del suo castello. La condanna è già pronta e stabilita dalla legge stessa, così come è stato nei secoli e nei secoli sembra essere. K. non ha scampo in questa farsa del potere. È sufficiente quel poco o quel tanto per vedere accessi i ceppi. Poi con sorrisi beffardi da regime si sorseggiano il vecchio capitano che si spara fra gli occhi. Ma defilati e il più delle volte nevrotici repressi nelle colpe, proseguono per la loro strada attenti ad non inciampare su colpe mai commesse.

 

Noi, straziati dal fuoco, dal tormento, dall’infamia, dalla calunnia, non possiamo nulla eccetto che un riparo che nasconda il nostro male: un viso tumefatto, occhi crateri spenti di vita, capelli rami secchi di un bosco dove è stata seminata la morte, un’anima che vomita il suo dolore attraverso un occhio che è costretto a guardare tanto orrore, tanto scempio, tanto inganno. L’anima va martoriata, segnata, uccisa; affinché dalla sua grandezza per questa vita terrena donata ma ora solo rubata, non possa traspirare più nulla; l’anima è quella che va colpita, offesa, umiliata, degradata.

 

La morale di questi esseri si propaga in questi termini.

 

Anni dopo, quando le verità vengono trapiantate come alberi nuovi nel giardino, dalla forma rettangolare di un loro giornale, gli stessi si defilano, perché hanno in serbo una calunnia nuova che li dispenserà dai debiti dell’infamia. Noi vaghiamo ammutoliti, e privati dei nostri diritti. Quelli ci furono letti, o meglio ci furono inviati, con il sorriso beffardo del Domenicano di turno, dell’inquisitore di turno, che per gradi e ruoli deve provare il piacere, deve sentire il privilegio ed il gusto della tortura mentre dispensa l’interpretazione della ‘sua’ legge…, mai la ‘legge’ quella gli è nemica. Ognuno è chiamato sulla pubblica piazza al gusto antico del patibolo.

 

La scuola (circa questa comune esistenza divisa, seppur apparentemente condivisa, circa medesima ugual diritto alla vita) ora può veder coronato il suo sogno, ed ad ogni inezia si sveglia per un urlo, per una ingiuria, per una bestemmia che però bestemmia non è, ma preghiera per taluni religioni. Si illuminano i visi, si affacciano dalle finestre spronati dall’inquisitore di turno per il prologo della loro legge. Ignari gridano frasi sconnesse, vengono comandati ed istruiti ad esse, vengono incitati pubblicamente all’odio. Non conoscono il condannato. Ma la cultura insegna loro che quello è il martirio, difendono solo il delinquente dalla legge.

 

Così fra una missiva e l’altra, fra un Tomo e l’altro, fra un post e l’altro in questo ed in ogni diverso paese in cui esiliato, debbo provare gli insulti e le privazioni di chi  abituato a dispensare monolitiche verità. Di chi abituato ad asservire più padroni, per un po’ di pane che chiamano potere. Con le loro armi affilate, con i loro telefoni pronti a tutto, dispensano il pane quotidiano. Fra una missiva e l’altra ci inviavano le loro sentenze, perché la materia, così dicono, è intelligente, e se la tassa va pagata ogni giorno, qualcuno con cui sfogare il proprio malessere deve materializzarsi per il bene spirituale della comunità. Ignari, scopriamo oggi, come hanno asservito le logiche di quella mafia che veste di bianco e urla: ‘Ti amo papà padrino padrone’.

 

Dicono che nota Compagnia si servano anche di tutti loro… 

(Giuliano Lazzari, Storia di un Eretico)

 


 

Il dado  fu  tratto  un  giorno  d’inverno  quando  ricevetti  una  convocazione  dal  Dominion  Wildlife  Service  che  mi  informava  che  ero  stato  assunto  con  il  munifico  stipendio  di  centoventi  dollari  al  mese  e  che  mi  sarei  presentato  immediatamente  a  Ottawa. Obbedii  a  quest’ordine  perentorio  con  poco  più  di  un  sussulto  di  sommessa  ribellione,  perché  se  avevo  imparato  qualcosa  durante  i  miei  anni  all’università  era  che  la  gerarchia  scientifica  richiede  un  elevato  standard  di  obbedienza,  se  non  di  sottomissione,  da  parte  dei  suoi  accoliti.

 

Due giorni dopo arrivai nella  capitale  del  Canada,  spazzata  dal  vento  e  dall’anima  grigia,  e  mi  ritrovai  nello  squallido  labirinto  che  ospitava  il  Wildlife  Service.  Qui  mi  presentai  al  Capo  Mammalogo,  che  avevo  conosciuto  come  compagno di scuola  in  tempi più spensierati. Ma ahimè, ora si era trasformato in  uno  scienziato  in  piena  regola,  ed  era  così  avvolto  nella  dignità  professionale  che  non  potevo  fare  altro  che  astenermi  dal  fargli  un  profondo  omaggio.

 

Nei giorni  successivi  fui  sottoposto  a  qualcosa  chiamato  “orientamento”,  un  processo  che,  per  quanto  potevo  vedere,  era  progettato  per  ridurmi  a  uno  stato  malleabile  di  depressione  senza  speranza. In ogni  caso, le  legioni  di  burocrati  danteschi  che  visitavo  nei  loro  antri  tetri  e  odorosi  di  formalina,  dove  trascorrevano  ore  interminabili  compilando  dati  tetri  o  creando  promemoria  senza  senso,  non  fecero  nulla  per  risvegliare  in  me  molta  devozione  al  mio  nuovo  impiego.  L’unica cosa che ho  davvero  imparato durante  questo  periodo,  rispetto  alla  gerarchia  burocratica  di  Ottawa,  la  gerarchia  scientifica  era  una  confraternita  dell’anarchia.

 

Ciò  mi  venne  chiaro  in  un  giorno  memorabile  quando,  dopo  essere  stato  finalmente  certificato  idoneo  all’ispezione,  fui  condotto  nell’ufficio  del  Vice Ministro, dove mi comportai così  indecorosamente  tanto di chiamarlo ‘Signore’. La mia scorta del  momento, tutta pallida e tremante, mi portò  immediatamente fuori dalla sua presenza e  mi  condusse  per  vie  subdole  al  bagno  degli  uomini.

 

Dopo essersi inginocchiato e sbirciato  sotto  le porte  di  tutti i  cubicoli  per  essere assolutamente  sicuro  che  fossimo  soli  e  che  non  potessimo  essere  ascoltati,  spiegò  in  un  sussurro  agonizzante  che  non  dovevo  mai,  pena  l’esilio,  rivolgermi  al  vice  come  altro  se  non  ‘Capo’,  o,  salvo  ciò,  con  il  titolo  di  “Colonnello”.

 

I titoli  militari  erano  di  rigore. 

 

Tutti i promemoria erano firmati Capitano, o Tenente, tutti nessuno escluso erano graduati, o al peggio, semplici Colonnelli.  Quei  membri  dello  stato maggiore  che  non  avevano  avuto  la  possibilità  di  acquisire  nemmeno  uno  status  quasi  militare  furono  ridotti  all’espediente  di  inventare  gradi  adeguati:  gradi  di  campo  se  erano  uomini  anziani  e  gradi  subalterni per i giovani. Non tutti hanno preso la  questione  con  la  dovuta  solennità,  e  ho  incontrato  un nuovo impiegato nella sezione pesca che si è  distinto  brevemente  inviando  una  nota  al  capo  firmata  ‘J.  Smith,  caporale ad  interim’. Una settimana dopo  questo  temerario  giovane  era  in  viaggio  verso  la  punta  più  settentrionale  dell’isola  di  Ellesmere,  per  trascorrervi  il  suo  esilio  vivendo  in  un  igloo  mentre  studiava la storia della vita dello spinarello a nove  spine, una per chilowattora!

 

Il mio capo sedeva dietro un’enorme scrivania la cui  superficie  polverosa  era  ricoperta  di  teschi  di  marmotta  ingialliti  (aveva  studiato  i  tassi  di  carie  nelle  marmotte  sin  da  quando  era  entrato  al  Dipartimento  nel  1897).  Alle sue spalle era  appeso  il  ritratto  barbuto  e  accigliato  di  un  mammifero  estinto  che  mi  lanciava  uno  sguardo  minaccioso.  L’odore  della  formalina  vorticava  qua  e  là  come  l’alito  fetido  del  salotto  di  un’impresa  di  pompe  funebri. Dopo un lungo silenzio,  durante  il  quale  giocò  prodigiosamente  con  alcuni  dei  suoi  teschi,  il  mio  capo  iniziò  il  suo  discorso.  C’era  una  solennità  nell’occasione  che  avrebbe  reso  giustizia  all’incarico  di  un  agente  speciale  che  stava  per  essere  spedito  all’assassinio  di  un  capo  di  Stato.

 

“Come  lei  sa,  tenente  Mowat”,  iniziò  il  mio  capo,  “il  problema  del  Canis  lupus  è  diventato  di  importanza  nazionale.  Solo  nell’ultimo  anno  questo  Dipartimento  ha  ricevuto  non  meno  di  trentasette  memorandum  da  membri  della  Camera  dei  Comuni,  tutti  esprimenti  la  profonda  preoccupazione  dei  loro  elettori  che  dovremmo  fare  qualcosa  per  il  lupo. 

 

La  maggior  parte  delle  denunce  sono  arrivate  da  gruppi  civici  e  disinteressati  come  vari  club  di  Caccia & Pesca, mentre i  membri  della comunità  imprenditoriale  -  in  particolare  i  produttori  di  alcune  note  marche  di  munizioni  -  hanno  dato  il  loro  peso  al  sostegno  di  questi  legittime  lamentele  del  pubblico  votante  di  questo  Grande  Dominio della Compagnia,  perché  la  loro  lamentela  è  il  lamento  che  i  lupi  uccidono  tutti  i  cervi,  e  sempre  più  nostri  concittadini  tornano  da  sempre  più  caccie  con  sempre  meno  cervi. 

(Farley  Mowat) 




A Chignolo, frazione di Oneta, in valle del Riso, i lupi hanno attaccato domenica, in pieno giorno, gli animali custoditi, a poche centinaia di metri da un’azienda che alleva ovicaprini e una trentina di vacche da latte. La comunicazione è arrivata dalle associazioni Pastoralismo Alpino. Tutela Rurale e il Comitato Valseriana-tutela persone e animali dai lupi. Secondo le tre associazioni i lupi sono poi tornati nella scorsa nottata, tra lunedì 11 e martedì 12 dicembre: il risultato è la morte di due capre, il ferimento di un becco, una pecore e due capre, per le quali non si sa ancora se esista una possibilità di recupero.

 

Va precisato che le reti utilizzate sono quelle “alte”, dichiarate “anti-lupo” dai servizi regionali. Gli allevatori sostengono da tempo che queste reti che, secondo gli amici dei lupi (e le istituzioni) dovrebbero difendere efficacemente gli animali, servono a ben poco perché il lupo le salta in scioltezza -spiegano le associazioni in una nota-.

 

L’episodio rappresenta l’ennesima conferma dell’espansione del lupo in Val Seriana. Oltre ai casi dell’alta valle se ne aggiungono altri che indicano una rapida discesa dei predatori verso la media valle.

 

Veronica Borlini, la giovane allevatrice vittima della predazione, riferisce che anche lo zio ha già subito dei danni a Gorno sul monte Grem. Come Comitato per la tutela delle persone e degli animali dal lupo non possiamo non stigmatizzare la persistente tendenza a minimizzare il problema della presenza del lupo da parte delle istituzioni, in primis della Polizia provinciale che a lungo ha negato che fossero avvistati i lupi.

 

Per discutere della situazione e delle iniziative da intraprendere in tema di lupi, si terrà, alla presenza di alcuni esponenti della Regione Lombardia, un convegno ad Ardesio il 26 gennaio.

 

In Val Seriana il 2023 sarà ricordato come quello del ritorno ufficiale del lupo nel territorio. In particolare, l’ultima segnalazione è quella della fine di ottobre, quando furono visti, grazie alle fototrappole della Polizia provinciale, 4 piccoli lupi, figli della coppia avvistata a Gandellino all’incirca un anno fa. Si è trattato così del primo branco accertato dalle forze dell’ordine provinciali.




 Ed il povero braccato lupo futuro Eretico condannato con la sua umile Storia senza più Memoria, spinto fra un ‘carcere’ e l’altro, per la salvezza dell’anima, viene macchiato da una nuova stele di infamia. Oggi come ieri tuonano le loro sentenze, per un mancato funzionamento di un motore a tribordo del panfilo dello slavo, o per una incompleta compilazione mod. P2, o per una insoddisfacente compilazione mod. G8 a beneficio del turismo senza confino e controllo:

 

“…Al riguardo, valutate attentamente le giustificazioni da lei addotte a sostegno con le note…. non abbiamo ravvisato nelle argomentazioni dedotte utili a Sua discolpa per quanto espressamente contestatoLe. In ragione della gravità del fatto di cui Ella si è resa responsabile, Le intimiamo la sanzione disciplinare dell’ammonizione scritta con sollecitato licenziamento di questa nobile Compagnia! …”.

 

 

ESSERE ONESTI CON SE STESSI E GLI ALTRI  

 

 

Chi non vuole implodere nell’esercizio della propria funzione nella schizofrenia incompresa fra la mano destra con quella sinistra, per una unica funzionalità di un apparato repressivo e falso, ad uso degli interessi del malaffare, deve fuggire come il peggiore dei banditi. Come fu, come è, e come sempre sarà.

 

Così scrivevano sentenza e condanna ancor prima dell’accertamento del fatto che da luogo a procedere (falso ed irrazionale). La cultura dell’inquisizione del rogo, dell’approssimazione, della mafia, del delinquente legittimato dall’ultimo indulto del politico di turno, perché fa compagnia assieme ad un altro sul Golgota al Cristo crocefisso, sono il fondamento ed il pane, scoprimmo presto, di questa loro società civile, timorosa della legge apparente vittima di una nuova modernità.

 

Gli stati allucinatori di queste barbare nefandezze non mi hanno abbandonato fino ad oggi. Sogni ad occhi aperti che non auguro a nessuno. Perché l’esercizio del potere se viene contraddetto o peggio ancora beffeggiato, non perdona e non lascia scampo.

 

Se la comunità ha impropriamente esercitato la sua violenza, perché violenta e corrotta, deve far uso del suo potere per reprimere ogni forma di dissenso. Nella manifestazione dell’estensione della sua logica, che li vuole accomunati tutti assieme, ancora a distanza di anni sotto il medesimo rogo, sotto la medesima scuola, braccano la loro preda, evocando quel potere persecutorio che li può far parlare ancora per una nuova sentenza peggiore della prima, così da adombrarne l’infamia.

 

Questa cultura inciampa sugli stessi suoi piedi.

 

Ed abbisogna di violenza e calunnia per essere legittimata. Quando di noi non rimarrà altro che cenere, si scriveranno altri libri neri, dove con tutta probabilità, si descriveranno gli stessi riti, le stesse piazze, le stesse orge di potere, occulto o manifesto. Dove si leggeranno le stesse sentenze, dove si trascineranno le stesse vittime sacrificali, dove verranno invitati e coinvolti gli stessi ragazzini e aguzzini, per il monito di tutti coloro che videro qualcosa in quell’anima che esala l’ultimo respiro. Dove grideranno frasi sconnesse, dove con l’illusione e l’ausilio della modernità, si celebrerà l’antico rito del rogo. Dove i colpevoli vengono protetti e legittimati e le loro vittime pagano l’umiliazione di una nuova gogna.

 

Poi gli inquisitori si defilano, i veri colpevoli, abbiamo scoperto, scrivere libri e manuali per salvare la carne e lo spirito, con metodi di ospedali psichiatrici da regime.

 

Vestono camici bianchi, dispensano pensioni e favori, proteggono dal potere delle tenebre e della storia, camminano tranquilli e beffardi verso una nuova gloria. Osannati dalla folla delirante, come lo fu il Barabba, barattato per un Cristo. Per la loro ‘infallibilità’ muoiono sempre gli stessi perfetti, che nella ciclicità della storia odono ieri come oggi le medesime sentenze. Il quadro è immutato nella sua perfetta ciclicità. Se poi possediamo il dono di saperli indicare, perché li vediamo imbattuti nella loro infamia, invocheranno per questo dono di ubiquità nella continuità dei loro mondi, il potere.




 …Quando quel giorno fui battezzato, gridavo così forte che anche due miglia di distanza non c’era bisogno di aguzzare l’orecchio per sentire la mia voce… Oramai sei entrato in questa chiesa e devi essere battezzato col fuoco e con l’acqua bollente prima che tu possa uscire, ti piaccia o non ti piaccia devi aspettare che finisca il battesimo. Ma quando sentii questo, esclamai con voce terribile: Io morirò in questa chiesa. E tutti quanti loro esclamarono: Puoi anche morire se vuoi, qui nessuno ti conosce. …E il reverendo Diavolo continuò il battesimo con l’acqua bollente e col fuoco. Dopo il battesimo, fu lo stesso Reverendo Diavolo a predicare ancora per qualche minuto, mentre fu Traditore a leggere il testo. Tutti i membri di quella chiesa erano - malfattori - . Cantarono il canto dei malvagi sul motivo melodioso dei malvagi poi – Giuda - concluse la cerimonia.  

(A. Tutuola)  


 


 

Qualcuno impropriamente chiama urgenza di pensiero e quello che da esso si genera (libertà, correttezza, diritto, democrazia), manie di persecuzione. Scopriamo con maggior orrore che anche il mal di vivere in questi termini persecutori diventa per taluni business e successo: salvatore per tutte le anime perse nei meandri di una nuova conquista economica. Ho combattuto cinici ed epicurei da secoli, e non torno sui miei passi. I loro mezzi e metodi li ho patiti per anni. Con l’ausilio della loro scienza ci hanno trascinato per secoli in boschi di terrore, per ricreare a tavolino nuove e sconosciute malattie sul nostro corpo in compagnia dell’anima già fiaccata dalla loro solerzia. Cavie di laboratorio, fummo, per troppo tempo in nuovi campi di lavoro, così nominano gli obblighi giornalieri con la società. Mentre il grande accademico della banchina ‘Uno’ si diletta ad appagare i clienti di oltre cortina, sempre per lo Stato che chiede la sua moneta.

 

Fummo seviziati al di qua e al di là del muro che avevano eretto con il nome nuovo di una malattia, di una condizione, di una punizione, di una futura morte. Una parola nuova per una pratica antica. Se al di là del muro prendevamo coscienza del nostro essere, le condizioni di vita divenivano pessime. La casta non ammette privilegi e pensieri impropri. La presa di coscienza per enorme beffa di tutti deve avvenire al di là del muro che frappongono fra la vittima e il politico, il corrotto, il violento, il burocrate e tutti i rimanenti nomi che riserva il vocabolario che solo appena riesce ad assolvere il compito cui incaricato in questa biblioteca che chiamano società civile.

 

Chi, guardandosi riconosce ancora il proprio volto riflesso su uno specchio d’acqua che non sia una nuova vetrina, conoscerà la punizione e la condanna certa. Chi, canta questo mal di vivere, che non sia un accademico, è spacciato dallo stesso virus, da lui cercato e combattuto con un ‘farmaco nuovo’. L’esperimento è gioia e diletto nella pratica del campo. Non vi era possibilità di ripresa fisica. Si veniva colpiti nello spirito e nell’anima, con il compiacente consulente prestato alla facile pensione.

 

Si è mortificati con la pratica della calunnia e dell’umiliazione pubblica. Si deve essere colpevoli di tutto il malfunzionamento burocratico e contabile della baleniera. Quando c’è da far bella mostra di sé, il possente accademico, nonché direttore, ci dispensa delle sue visite in cella. Altrimenti delega i suoi fidi per la gogna pubblica. Per la maggior parte dei casi, i polveroni sollevati, debbono solo appagare il gusto sadico di qualche idiota impotente, che deve avere la sua rivincita attraverso questa antica usanza del regime. 

(Giuliano Lazzari, Storia di un Eretico)