giuliano

venerdì 24 aprile 2020

IL MITO DELL'ETERNO RITORNO (15)



















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Mondo aperto (14/1)

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Cella accanto (16)

...Ed ancora con...:

Anima & Natura [...]   & Natura che anima! (Prima)  &  (Seconda parte)













Il problema che affrontiamo in questo Post supera i limiti che ci siamo imposti: potremo così soltanto abbozzarlo oltre che con l’aiuto di un ottimo studioso, anche con quello di un valido e più che noto scrittore.

Sarebbe infatti necessario confrontare l’uomo storico (moderno che scrive ‘rinchiuso’ nella sfera della propria storicità ricercare l’eterna Metafisica, giacché nella società di cui narra abilmente avventure e gesta scorge l’eterno limite della Storia), che si sa e si vuole creatore di storia, con l’uomo delle civiltà tradizionali che, l’abbiamo visto, aveva nei confronti della storia un atteggiamento negativo. Sia che l’abolisse periodicamente, sia che la svalorizzasse trovandole sempre modelli e archetipi trans-storici, sia infine che le attribuisse un senso metastorico (teoria ciclica, significati escatologici, ecc.), l’uomo delle civiltà tradizionali non accordava all’avvenimento storico valore in sé, non lo considerava, in altri termini, come una categoria specifica del suo proprio modo di esistenza.




Il paragone di questi due tipi di umanità implica un’analisi di tutti gli storicismi moderni e una tale analisi, per essere veramente utile, ci condurrebbe lontano dal tema principale di questo studio. Siamo tuttavia costretti a sfiorare il problema dell’uomo che si riconosce e si vuole storico, poiché il mondo moderno non è ancora, al giorno d’oggi, interamente conquistato dallo storicismo; assistiamo anche al conflitto delle due concezioni: la concezione arcaica, che chiameremo archetipica e antistorica, e la moderna, posthegeliana, che si vuole storica.

Ci accontenteremo di esaminare un solo aspetto del problema, ma un aspetto  essenziale: le soluzioni che offre la prospettiva storicistica per permettere all’uomo moderno di sopportare la pressione sempre più potente della storia contemporanea. I precedenti capitoli hanno abbondantemente illustrato il modo in cui gli uomini delle civiltà tradizionali sono ‘prigionieri’ della storia. Ci si ricordi che si difendevano da essa, sia abolendola periodicamente per mezzo della ripetizione della cosmogonia e della rigenerazione periodica del tempo, sia accordando agli avvenimenti storici un significato metastorico, significato che non era solamente consolatorio, ma anche e prima di tutto coerente, cioè suscettibile di integrarsi in un sistema ben articolato in cui il cosmo e l’esistenza dell’uomo avevano ciascuno la loro ragion d’essere.




Altri credono che i cicli e le periodicità della storia del mondo siano retti dall’influenza degli astri, sia che questa influenza ubbidisca alla volontà di Dio e sia il suo strumento nella storia, o — ipotesi che si impone sempre di più — che la si consideri come una forza immanente al cosmo. In breve, per adottare la formula di Sorokin, il medioevo è dominato dalla concezione escatologica (nei suoi due momenti essenziali: la creazione e la fine del mondo), completata dalla teoria della ondulazione ciclica che spiega il ritorno periodico degli avvenimenti. Questo doppio dogma domina la speculazione fino al secolo XVII, anche se parallelamente comincia a farsi luce una teoria del progresso lineare della storia.




Il settimo Buddha Gotama, invece, fa la sua comparsa quando la vita umana è soltanto ormai di cento anni, cioè è ridotta al suo limite estremo (ritroveremo lo stesso motivo nelle apocalissi iraniche e cristiane). Quindi, per il buddismo, come per tutta la speculazione indù, il tempo è illimitato; e il Boddhisattva s’incarnerà, per annunciare la buona novella della salvezza, per tutti gli esseri, in aeternum. L’unica possibilità di uscire dal tempo, di spezzare il cerchio di ferro delle esistenze, è l’abolizione della condizione umana e la conquista del Nirvana.

D’altra parte, tutti questi incalcolabili e tutti questi eoni senza numero hanno anche una funzione soteriologica; la semplice contemplazione del loro panorama terrorizza l’uomo e lo forza a convincersi che deve ricominciare miliardi di volte questa stessa esistenza evanescente e sopportare senza fine le stesse sofferenze, e questo ha per effetto di esacerbare la sua volontà di evasione, cioè di spingerlo a trascendere definitivamente la sua condizione di  ‘esistente’.




Le speculazioni indù sul tempo ciclico mostrano con una sufficiente insistenza il rifiuto della storia, sottolineiamo tuttavia una fondamentale differenza tra queste e le concezioni arcaiche; mentre l’uomo delle culture tradizionali rifiuta la storia per mezzo dell’abolizione periodica della creazione, rivivendo così incessantemente nell’istante atemporale degli inizi, lo spirito indù, nelle sue supreme tensioni, svilisce e respinge anche questa riattualizzazione del tempo aurorale, che non considera più come una soluzione efficace del problema della sofferenza.

La differenza tra la visione vedica e la visione mahàyànica del ciclo cosmico è, per usare una formula sommaria, quella stessa che distingue la posizione antropologica archetipica (tradizionale) dalla posizione esistenzialistica (storica). Il karma, legge della causalità universale, che, giustificando la condizione umana e spiegando l’esperienza storica, poteva essere generatore di consolazione per la coscienza indù prebuddistica, diventa col tempo il simbolo stesso della schiavitù dell’uomo. Per questo, nella misura in cui si propongono la liberazione dell’uomo, tutte le metafisiche e tutte le tecniche indù ricercano l’annullamento del karma.




Ma se le dottrine dei cicli cosmici fossero state solamente una spiegazione della teoria della causalità universale, saremmo dispensati dal ricordarle in questa sede. La concezione dei quattro yuga apporta infatti un nuovo elemento: la spiegazione (e di conseguenza la giustificazione) delle catastrofi storiche, della decadenza progressiva della biologia, della sociologia, dell’etica e della spiritualità umana. Il tempo, per il semplice fatto che è durata, aggrava continuamente la condizione cosmica e implicitamente la condizione umana.

Per il semplice fatto che noi viviamo attualmente nel kali-yuga, quindi in un’età di tenebre, che progredisce sotto il segno della disgregazione e deve finire con una catastrofe, il nostro destino è di soffrire di più degli uomini delle età precedenti. Ora, nel nostro momento storico, non possiamo dedicarci ad altre cose: tutt’al più (e qui si intravede la funzione soteriologica del kali-yuga e i privilegi che ci riserba una storia crepuscolare e catastrofica) possiamo svincolarci dalla servitù cosmica.

(Eliade)

     
                                   
                
 Sono in questa cella della prigione di Folsom, e mi fermo un attimo nella stesura di queste “Memorie”, per ascoltare, nella calura pomeridiana, il tranquillante ronzìo delle mosche nell’aria stagnante. Non sono le mie mosche di San Quintino, e queste non mi conoscono per niente. Come compagni, nel reparto dei condannati a morte, non ho più Oppenheimer e Morrell; ma, alla mia destra, Giuseppe Jackson, il negro assassino, e alla mia sinistra Bambeccio, l’italiano omicida.

Nella mano, tengo la penna stilografica, alzata sulla carta, e penso che nel corso delle mie vite passate, altre mie mani hanno agitato dei pennelli, delle penne d’oca, e tutti i più strani e diversi strumenti di cui l’uomo, sin dalla più remota antichità, si è servito per scrivere…

Ma torniamo a San Quintino.




La distrazione procurata dalle conversazioni con i miei due compagni di carcere non durò a lungo. E ricominciai a soffrire per la mia solitudine e per la continua meditazione interiore. Allora, per sfuggire al presente, tentai la strada dell’auto-ipnotismo. Ottenni soltanto un successo parziale. Il mio subcosciente, ritornando autonomo, si perdeva in vaneggiamenti incoerenti, in mille fantasie disordinate, degne tutt’al più di un semplice incubo.

Il mio metodo d’auto-ipnosi era semplicissimo.

Seduto alla turca sul pagliericcio, fissavo un filo di paglia che avevo applicato sul muro, dove la luce era più viva. Fissavo a lungo questo punto brillante, a cui avvicinavo insensibilmente i miei occhi, finché le mie pupille si velavano. Contemporaneamente, lasciavo languire ogni altra volontà e mi abbandonavo a una sorta di vertigine, che non mancava mai d’impadronirsi di me.

Veniva il momento in cui vacillavo.




Allora chiudevo le palpebre e mi lasciavo inconsciamente cadere sulla schiena, sul pagliericcio. Da questo momento, per un tempo che poteva variare da dieci minuti a mezz’ora, fino a un’ora, vagavo attraverso i ricordi sovrapposti delle mie riapparizioni vitali su questa terra. Ma tempi e luoghi si succedevano nella mia mente con eccessiva rapidità, confusamente e senza un ordine. Tutto ciò che sapevo, quando rientravo in me, era che Darrell Standing era il filo che collegava fra loro tutte quelle visioni fantastiche, ondeggianti.

Niente di più!

Non riuscivo a vivere interamente nel tempo e nello spazio nessuno dei miei sogni, se così posso definire queste evocazioni allucinate. Così, dopo un quarto d’ora circa dell’ipnosi, avevo l’impressione, quasi simultanea, di strisciare e grugnire nel fango primitivo, e di volare, in pieno secolo ventesimo, sul monoplano del mio amico Hoos.




Rientrato nella realtà del carcere, mi ricordavo perfettamente che nell’anno precedente alla mia incarcerazione a San Quintino, avevo infatti volato con Hoos sopra il Pacifico, a Santa Monica. Al contrario, non ricordavo più di avere strisciato e grugnito nel fango primordiale. Ma ragionando, mi persuadevo che entrambe le azioni dovevano essere egualmente reali, dal momento che s’erano presentate tutte e due, contemporaneamente, alla mia memoria. Soltanto, una era più lontana dell’altra, e così il suo ricordo s’era offuscato, come ingiallito.

Che caleidoscopio di immagini, in quelle ore rubate alla mia triste realtà! Mi sono seduto alla tavola dei grandi della terra, come buffone, scrivano e uomo d’armi, e Re io stesso, al posto d’onore, a capo del tavolo. Ho riunito, dietro le mura robuste del mio palazzo, il potere temporale, rappresentato dalla spada che avevo al fianco e dagli innumerevoli armati che avevo ai miei ordini, e il potere spirituale, di cui testimoniavano i monaci incappucciati e i grassi abati che sedevano alla mia tavola, bevendo il mio vino e rimpinzandosi del mio cibo.

Talvolta, con voce grave, pronunciavo delle sentenze.




Condannavo e imponevo la morte legale a degli uomini che, come Darrell Standing, avevano oltraggiato lo spirito eterno della legge.

Mi vedevo poi, alternativamente, mentre languivo portando intorno al collo il collare degli schiavi, in gelide regioni desolate; o, sotto le calde e profumate notti tropicali, amato da stupende principesse di sangue reale, mentre intorno degli schiavi negri agitavano con grandi ventagli l’aria sonnolenta. E fra il mormorìo delle fontane, sotto gli immobili rami delle palme, si udiva, in lontananza, il grido acuto degli sciacalli e il ruggito dei leoni.

E ancora… sperduto nelle desolate steppe dell’Asia mi scaldavo le mani davanti a grandi fuochi alimentati da escrementi secchi di cammello. E, quasi subito, mi ritrovavo nel torrido deserto d’Asia, sdraiato all’ombra tisica dei cespugli di salvia, maculati di sole, accanto a pozzi disseccati. Imploravo, con la lingua gonfia, una goccia d’acqua, mentre intorno a me si allineavano, classificate in capaci contenitori, ossa d’uomini e di bestie, calcinate dal sole…




Ero corsaro, assassino a pagamento e pirata, o monaco curvo su testi manoscritti, pergamene, enormi volumi, antichi e saturi di muffa.

Poi, di colpo, capo di barbari, comandante di orde urlanti, guidavo file innumerevoli di carri per strade impervie, e calpestavo il suolo di antiche città dimenticate. Mi battevo disperatamente, su quei campi di battaglia d’altre epoche. E nemmeno quando il sole calava oltre l’orizzonte, cessava la vermiglia carneficina.

Continuava nelle ore della notte, al cospetto delle stelle che brillavano in cielo.

E la freschezza del vento notturno bastava ad asciugare il sudore della battaglia.

Marinaio senza paura, arrampicato sulle sartìe che oscillavano sul ponte delle navi, amavo contemplare sotto di me l’acqua del mare, trasparente sotto il sole, in cui foreste rossastre di corallo tralucevano negli abissi color turchese. Poi, tornato al timone, conducevo la mia nave, con mano sicura, nel porto tranquillo, scintillante come uno specchio, nei golfi sereni, dove i flutti si spezzano eternamente, con rumore sordo, sui banchi a fior d’acqua dei coralli aggrovigliati.




Più prossima nella sua origine, un’altra vita trascorsa: quella dei giorni della mia infanzia.

Ritornavo il piccolo Darrell Standing che correva a piedi nudi, nella fattorìa paterna, sull’erba umida della rugiada primaverile. O nei freddi mattini d’inverno portavo il fieno alle bestie, nella stalla tiepida del loro alito fumoso. E mi sembrava di sedermi, la domenica, dinanzi al predicatore, ascoltando con sgomento infantile i suoi discorsi immaginifici sulla felicità della Nuova Gerusalemme e sulle sofferenze orribili del fuoco eterno.

Da dove provenivano queste visioni, mentre nella mia cella mi sprofondavo in un torpore pesante dopo avere fissato un filo di paglia, luccicante in un raggio di sole?




Io, Darrell Standing, nato e cresciuto in un angolo isolato del Minnesota, già professore d’agronomia e poi galeotto incorreggibile a San Quintino, e oggi condannato a morte, nella prigione di Folsom; io, Darrell Standing, che fra poco morirò impiccato, non ho mai amato, in questa presente esistenza, delle figlie di re.

Non sono mai stato sul trono, con la spada al fianco.

Non ho mai navigato, né unito la mia voce a quella dei marinai.

…Ma allora, come ho potuto conoscere tutte queste cose?

Esse sono estranee alla mia esperienza in questa vita. Eppure, fluiscono dal mio cervello, come la parola ‘Samaria!’ proruppe dalle mie labbra infantili, al cospetto di una semplice fotografia.

Dal nulla non nasce nulla.

(J. London)













mercoledì 22 aprile 2020

UNA PRIMAVERA SILENZIOSA (13)






































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Al 22 Aprile... (12)

Prosegue in un...:

Mondo aperto (14)














Una favola che può diventare realtà…

C’era una volta…

...una città nel cuore dell’America (ma non solo lì) dove tutta la vita sembrava scorrere in armonia con il paesaggio circostante. La città si stendeva al centro d’una scacchiera di operose fattorie, tra campi di grano e colline coltivate a frutteto dove, di primavera, le bianche nuvole dei rami in fiore spiccavano sul verde dei prati.

In autunno le  querce, gli aceri e le betulle si vestivano di un fogliame rosseggiante che lampeggiava come fiamma tra le scure cupole dei pini. Era quello il tempo in cui le volpi ululavano sulle colline e i daini scorrazzavano silenziosi nella campagna, seminascosti dalla bruma del mattino.




Lungo le strade, siepi di bosso e di alloro, ontani, felci giganti e fiori selvatici rallegravano l’occhio del viandante per buona parte dell’anno. Perfino d’inverno i bordi delle strade avevano una loro particolare bellezza, perché innumerevoli uccelli si abbassavano sulla terra per nutrirsi delle bacche e delle gemme rimaste sui rami sporgenti dalla neve.

La regione era famosa, infatti, per l’abbondanza e la varietà degli uccelli che vi stanziavano e, quando gli stormi migranti arrivavano e ripartivano in primavera e in autunno, la gente veniva da grandi distanze per assistere al loro passaggio. Altri visitatori venivano a pescare lungo i corsi d’acqua che scendevano limpidi e freddi dalle montagne; qui, in punti ombrosi e profondi, le trote deponevano le uova.

Così era sempre stato fin da quando, molti anni prima, i primi coloni avevano edificato le loro case, scavato i pozzi e costruito i fienili.




D’improvviso un influsso maligno colpì l’intera zona, ed ogni cosa cominciò a cambiare. La popolazione cadde sotto il potere di una diabolica magia; genti e pollame furono decimati da misteriose malattie; i bovini e le pecore si ammalarono e perirono.

Dappertutto aleggiava l’ombra della morte.

Ogni giorno, nelle campagne, i contadini parlavano di malanni che colpivano le loro famiglie. Nelle città i medici erano costretti a far fronte sempre più spesso a malattie nuove che colpivano i loro pazienti. Si andavano verificando subitanei ed inesplicabili decessi non soltanto tra gli adulti, ma anche tra i fanciulli: fanciulli che venivano ghermiti improvvisamente dal male mentre erano intenti a giocare e non sopravvivevano più di qualche ora.

Si trattava d’una singolare epidemia.




Gli uccelli, per esempio: dov’erano andati a finire?

Molta gente ne parlava con perplessità e sgomento; nei cortili non se ne vedeva più uno in cerca di cibo. I rari uccellini che si potevano vedere erano moribondi; assaliti da forti tremiti, non potevano più volare.

La primavera era ormai priva del loro canto.

Le albe, che una volta risuonavano del gorgheggio mattutino dei pettirossi, delle ghiandaie, delle tortore, degli scriccioli e della voce di un’infinità di altri uccelli, adesso erano mute; un completo silenzio dominava sui campi, nei boschi e sugli stagni. Nelle fattorie le chiocce continuavano a covare, ma nessun pulcino nasceva. I contadini si lamentavano perché non riuscivano più ad allevare i maiali: infatti ben pochi porcellini venivano al mondo, ed anche quei pochi sopravvivevano per breve tempo.




Giunse per i meli la stagione della fioritura, ma le api non danzavano più fra le corolle; non vi fu quindi impollinazione e non si ebbero frutti. I bordi delle strade, prima tanto attraenti, erano adesso fiancheggiati da una vegetazione così brulla ed appassita che sembrava devastata da un incendio.

E pure qui regnava il silenzio e si notava l’assenza di un qualsiasi segno di vita. Anche i corsi d’acqua erano rimasti spopolati. Ed i pescatori li disertavano giacché tutti i pesci erano morti. Nelle grondaie e tra le tegole dei tetti apparivano le tracce d’una polvere bianca e granulosa; essa era caduta come neve, qualche settimana prima, sulle case e sulle strade, sui campi e sui fiumi.

Nessuna magia, nessuna azione nemica aveva arrestato il risorgere di una nuova vita: gli abitanti stessi ne erano colpevoli.




Una città come questa non esiste nella realtà, ma la si può ricostruire prendendo come esempio migliaia di località in tutto il mondo. Nessuna comunità - per quanto ne sappia - è stata finora bersagliata dal complesso di sciagure che ho qui descritto, tuttavia ciascuna di queste calamità ha davvero fatto la sua apparizione da qualche parte, e molti popoli hanno già subìto le conseguenze d’un buon numero di esse.

Anche se inavvertito, un truce fantasma cammina al nostro fianco, e la catastrofe qui prospettata può facilmente diventare una tragica realtà.

Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade?

E’ quanto cercherò di spiegare...




La storia della vita sulla Terra è la storia dell’interazione tra gli esseri viventi e la natura circostante. L’ambiente esterno ha avuto una grande importanza nel plasmare la morfologia e il comportamento del regno vegetale ed animale. Al contrario, da quando la Terra esiste, gli esseri viventi hanno modificato l’ambiente in misura trascurabile.

…E soltanto durante il breve periodo che decorre dall’inizio di questo secolo ai giorni nostri, una sola “specie” - l’uomo - ha acquisito una notevole capacità di mutare la natura del proprio mondo.

Nel corso degli ultimi 25 anni questo potere non solo è diventato tanto grande da costituire un pericolo, ma ha assunto anche un aspetto completamente nuovo. Il più allarmante assalto, fra tutti quelli sferrati dall’uomo contro l’ambiente, è la contaminazione dell’aria, del suolo, dei fiumi e dei mari con sostanze nocive e talvolta mortali.




Questo inquinamento è, nella maggior parte dei casi, irreparabile; le sequenze di reazioni da esso scatenate, sia nel mondo che deve alimentare la vita, sia nella vita stessa dei tessuti, sono per lo più irreversibili. In questa contaminazione ormai universale dell’ambiente, gli agenti chimici diventano sinistri, e non sempre noti, coadiutori delle radiazioni nel trasformare la natura reale del mondo - la natura reale della vita.

Lo stronzio…, sprigionato da un’esplosione nucleare nell’atmosfera, scende sulla terra insieme con la pioggia oppure, per spontanea ricaduta (fall-out), si deposita al suolo, è assorbito dalle erbe, dal frumento e dal granoturco, ed infine prende stabile dimora nelle ossa dell’uomo, dove resta finché c’è un alito di vita.




Analogamente, certe sostanze chimiche irrorate sui terreni coltivati, nei boschi e nei giardini restano per lungo tempo sul suolo, e penetrano negli organismi viventi, che si contagiano l’un l’altro in una incessante catena di intossicazione e di morte. Oppure esse filtrano misteriosamente nelle correnti sotterranee per riemergere più tardi e, grazie alle trasformazioni operate dall’aria e dalla luce solare, combinarsi in nuove forme che uccidono la vegetazione, ammorbano il bestiame e diventano un’ignota minaccia contro la vita di coloro che si avvicinano ad una fonte per dissetarsi.

“L’uomo”,

come ha detto Albert Schweitzer,

“riesce raramente a ravvisare gli aspetti diabolici delle proprie creazioni”.




Sono state necessarie centinaia di milioni d’anni perché la vita sulla Terra assumesse la forma che oggi conosciamo - un enorme lasso di tempo in cui lo sviluppo, l’evoluzione e la differenziazione delle specie ha raggiunto uno stadio di adeguamento e di equilibrio con il mondo circostante.

L’ambiente, che plasmava e regolava la vita, conteneva elementi utili per certi aspetti, ma pur ostili allo svolgersi di essa: certe rocce emettevano radiazioni pericolose; anche nella luce solare erano presenti raggi di piccola lunghezza d’onda, particolarmente insidiosi.

Ma, con il passare del tempo - un tempo che non va misurato in anni, ma in millenni - la vita vi si è assuefatta e ha raggiunto l’attuale equilibrio. Giacché il tempo è un fattore fondamentale; ed è proprio il tempo che manca nel mondo moderno. La rapidità dei mutamenti in atto e la velocità con cui si producono situazioni sempre nuove derivano non già dal susseguirsi degli eventi naturali, ma dalla smania violenta ed avventata dell’uomo.




Le radiazioni non sono più soltanto costituite dalle radiazioni di fondo sprigionate dalle rocce, o dal bombardamento di raggi cosmici, o dalle radiazioni ultraviolette della luce solare che esistevano anche prima della comparsa di qualsiasi germe di vita sulla Terra; sono ora il frutto innaturale della manomissione dell’atomo da parte dell’uomo.

Le sostanze chimiche alle quali la vita ha fatto ricorso per raggiungere il suo assetto attuale non sono più soltanto il calcio, il silicio, il rame ed i minerali provenienti dalle rocce e trasportati dai fiumi verso il mare; oggi esse sono ottenute per sintesi grazie all’inventiva umana, nascono nei laboratori scientifici senza che ne esista un corrispondente in natura.

Per assuefarsi a queste sostanze chimiche sarebbe necessario un periodo di tempo misurabile sulla scala degli eventi naturali; occorrerebbero molte generazioni e non già i pochi anni della vita di un uomo.




Ma, quand’anche - per un miracoloso concorso di circostanze - si realizzasse questa eventualità, si tratterebbe pur sempre di un beneficio fittizio poiché, frattanto, i nostri laboratori continuerebbero a produrre incessantemente altre nuove e pericolose sostanze; basti pensare che, soltanto negli Stati Uniti come in Cina, ogni anno cinquecento di esse trovano una loro possibilità di impiego.

La cifra è sbalorditiva, anche se non se ne afferra completamente il significato: 500 nuove sostanze chimiche ogni anno, alle quali il corpo degli uomini e degli animali deve in qualche modo assuefarsi; e, per di più, sostanze chimiche completamente estranee a qualsiasi esperienza biologica.

Tra esse, molte vengono usate nella lotta condotta dall’uomo contro la natura.




Dal 1945 in avanti, più di 200 composti sono stati creati per estirpare erbacce e sterminare insetti, roditori ed altri organismi che, nel linguaggio dei nostri tempi, vengono considerati “pestilenziali”: 200 composti messi in vendita con migliaia di differenti marchi di fabbrica. Da allora queste irrorazioni, polverizzazioni e vaporizzazioni vengono praticate universalmente nelle colture agricole, nei giardini, nelle foreste e nelle abitazioni; e si tratta di prodotti non specifici che sterminano tutti gli insetti, “buoni” e “cattivi”, che impediscono agli uccelli di cinguettare ed ai pesci di guizzare nei fiumi e nei torrenti, che coprono ogni foglia d’una pellicola mortale e si depositano al suolo.

Tutto ciò nell’unico intento di distruggere poche specie di gramigna e di parassiti. C’è mai qualcuno disposto a sostenere che sia possibile disseminare una tale quantità di veleni sulla superficie…

(R. Carson)











mercoledì 15 aprile 2020

IL TEMPO DELLA DEGENERAZIONE (11)










































Precedenti capitoli:

Cambiamenti climatici in montagna (10/1)

Prosegue con il Dialogo dedicato...:

Alla Madre degli Dèi... (12)













Ottomila è un numero perfettamente arbitrario. Eppure, nessun altro numero appare più grande per gli alpinisti.

Quattordici vette montuose sono più alte di 8.000 metri (26.247 piedi). Ci sarebbero stati molti più di questi ‘ottomila’ se la commissione francese che avesse stabilito la lunghezza del metro (nel 1793) lo avesse reso solo un po’ più corto; non ci sarebbe quasi nessuno se avessero allungato il metro. La decisione di fare un metro equivalente a un decimilionesimo della distanza tra l’equatore e il Polo Nord lasciò il mondo con quattordici picchi di 8K. Tutti si trovano nelle catene montuose del Karakoram o dell’Himalaya in Asia centrale.

Quattordici è un numero che spinge gli scalatori al punto di ossessione. È abbastanza grande che solo i più ambiziosi prendono in considerazione la possibilità di arrampicarli tutti, ma abbastanza piccolo da farlo ancora nel corso della vita. Anche negli Stati Uniti, un paese in cui la maggior parte delle persone evita le misurazioni metriche, gli scalatori sognano di salire sugli ottomila. I ‘ventiseimila, duecentoquarantasette piedi’ non hanno quasi lo stesso anello.




Qualunque sia la misura, le montagne più alte del mondo sono insidiose. Hanno imponenti blocchi di ghiaccio - seracchi - che possono schiacciare gli scalatori in pochi secondi. Sono inclini a enormi valanghe di roccia e neve che cancellano intere spedizioni. E ospitano ragnatele di crepacci di ghiaccio che inghiottono gli umani interi. Anche durante l’estate, le temperature medie diurne sono fredde. E i venti di uragano sono comuni.

Quindi, naturalmente, c’è la mancanza di ossigeno. A 5.000 metri (16.404 piedi), l’atmosfera contiene circa la metà dell’ossigeno rispetto al livello del mare. Di 6.000 metri (19.685 piedi), l’aria è così sottile che non è più possibile la piena acclimatazione. Non importa quanto in forma, gli scalatori iniziano a soffocare lentamente. Di 7.000 metri (22.966 piedi), i tempi di sopravvivenza precipitano e il pensiero lucido diventa difficile. A 8000 metri, la cosiddetta ‘zona della morte’, anche gli scalatori più forti possono sopravvivere al massimo per alcuni giorni.

I tre più pericolosi degli ottomila - Annapurna, K2 e Nanga Parbat - rivendicano la vita di circa un alpinista ogni quattro che raggiungono la cima. Il tasso di mortalità per Annapurna, la montagna più pericolosa del mondo, supera il 30 percento. L’ossigeno in bottiglia e le salite guidate hanno reso l’Everest molto più sicuro di quanto non fosse decenni fa, ma la montagna più alta del mondo continua a vivere regolarmente. Nove persone sono morte sulla montagna nel 2013. Dieci nel 2012.




Tutto questo rischio è per cosa, esattamente? Reinhold Messner, la prima persona a scalare tutti i quattordici degli ottomila, indicò qualcosa che lui chiama ‘panoramica’ per spiegare il fascino. ‘Non è la montagna ma la vista dalla cima che suggerisce una maggiore consapevolezza’, scrive nel libro Montagne dallo spazio. ‘La persona che sta in cima a uno torna con un nuovo senso del mondo’.

Messner ha rischiato tutto per viste fugaci dalla cima del mondo, salendo molti degli ottomila soli e senza l’aiuto dell’ossigeno. Gli ci vollero 16 anni (1970-1986) per scalarli tutti.

Mentre il vertice di un ottomila può rappresentare la visione finale sulla Terra, i satelliti portano il concetto di panoramica di Messner a un livello completamente nuovo. La cima del Monte Everest si trova a circa 8,8 chilometri (5,5 miglia) sul livello del mare. La maggior parte dei satelliti in orbita polare vola ad un’altitudine di 705 chilometri (438 miglia). Quindi, viste dallo spazio, le montagne più alte del mondo diventano macchie di ombra, roccia e neve. I ghiacciai epici diventano lingue strette di laghi glaciali che si nutrono di ghiaccio che sembrano pozzanghere. Le tempeste mortali diventano semplici ciuffi di nuvole.




Le montagne più alte del mondo sono il risultato di una collisione tra due placche tettoniche. L’altezza finale delle montagne è dettata dall’equilibrio tra il tasso di sollevamento e il potere erosivo del ghiaccio.

In un certo senso, questa vista dall’alto rende le immagini difficili da interpretare per gli occhi e il cervello. Le scene appaiono stranamente piatte. Separare la cima di una montagna dalla cresta è impegnativo. Vaste ombre oscurano le caratteristiche nelle valli adiacenti e le nevi opache ricoprono tutto.

Tuttavia, in altri modi, la vista dall’alto direttamente è la più preziosa di tutte. Immagini come queste chiariscono che le cime più alte del mondo non sono piramidi isolate. Piuttosto, fanno parte di lunghe e sinuose creste che si estendono per distanze tali che può essere difficile dire esattamente dove si trova la vetta.




Con strutture massicce e complesse come le montagne, la distanza offre chiarezza. Difetti, punti di sutura, ghiacciai emergono tutti, aiutando i geologi a ricostruire la storia di come i processi fisici hanno creato queste straordinarie montagne e continuano a plasmarle oggi.

La storia geologica è iniziata circa 40 milioni di anni fa, quando il subcontinente indiano iniziò una collisione al rallentatore con l’Asia, confondendo i bordi dei due continenti nelle imponenti creste e valli che oggi compongono l’Himalaya e il Karakoram.

‘Se vuoi capire come si formano le montagne, queste catene offrono un laboratorio perfetto. Queste sono le montagne più giovani, più drammatiche e più edificanti del mondo’, ha affermato Michael Searle, geologo dell’Università di Oxford e veterano di decine di spedizioni in Himalaya e Karakoram.

Ma è stato il giornalista John McPhee che ha riassunto la meraviglia della loro storia geologica quando ha scritto gli Annali del Vecchio Mondo, la sua storia vincitrice del premio Pulitzer della geologia terrestre: ‘La cima del Monte Everest è calcare marino’, ha dichiarato. ‘Questo fatto è un trattato in sé sui movimenti della superficie della Terra’.




In altre parole, quando gli scalatori raggiungono la cima del Monte Everest, non stanno in piedi su dure rocce ignee prodotte dai vulcani. Piuttosto, sono arroccati su una roccia più morbida formata dagli scheletri di creature che vivevano in un oceano caldo al largo della costa settentrionale dell’India decine di milioni di anni fa. La tettonica a zolle ha trasformato i fondali oceanici nei punti più alti del pianeta. È solo una delle tante bizzarre realtà degli ottomila, montagne che continueranno ad affascinare gli scienziati e ossessioneranno gli scalatori fino a quando torreggeranno su tutto il resto.

Quindi, siediti e preparati a visitare le cime più alte del mondo via satellite. Nessun rischio di valanga. Nessuna minaccia di congelamento. Non sono necessarie scarpette da arrampicata.

Ma soprattutto comprendi che sono vive!




La più breve e più giovane delle vette di ottomila metri, Shisha Pangma è l’unica situata interamente all’interno del Tibet. (Degli altri, tre sono interamente in Nepal e uno in Pakistan. Gli altri siedono lungo i confini politici.)

Sebbene oggi conosciuto come uno dei più facili da scalare, Shisha Pangma è stato l’ultima cima degli otto mila a causa delle restrizioni sui viaggiatori stranieri. Una squadra cinese raggiunse la cima nel 1964, scegliendo un percorso che portasse gli scalatori sulla parete nord-ovest lungo la cresta nord-est. Nell’immagine sopra, gran parte della faccia nord-ovest è proiettata nell’ombra. La parete sud ripida e scoscesa, molto più difficile da scalare, si innalza per oltre 2.000 metri e presenta molte aree con roccia esposta.




Le quattro cime di Gasherbrum sono i punti più alti lungo un’enorme cresta a ferro di cavallo al confine tra Pakistan e Cina. La cresta circonda il ghiacciaio South Gasherbrum, una massa di ghiaccio a forma di scodella che sfocia nel ghiacciaio Baltoro, il ghiacciaio più lungo del Karakoram (62 chilometri o 39 miglia).

Gasherbrum II, la tredicesima montagna più alta del mondo e la seconda più alta del gruppo Gasherbrum, si trova nella parte più settentrionale della cresta e circa 10 chilometri (6 miglia) a sud-est di K2, la montagna più alta del Karakorum.




Una squadra austriaca è stata la prima a raggiungere la cima di Gasherbrum II, seguendo un percorso sulla parete sud lungo la cresta sud-ovest nel 1956. La squadra austriaca ha aperto la strada a un nuovo approccio all’arrampicata. Durante la salita, la notte ha superato gli scalatori a circa 7.500 metri (24.600 piedi). Invece di tornare al campo, trascorsero la notte rannicchiati vicino a una scogliera senza attrezzi diversi da quello che stavano trasportando, una tecnica nota come bivacco. Era la prima volta che una squadra deliberatamente bivaccava la notte prima di tentare di raggiungere la vetta di un otto mila.




Situata al confine tra Pakistan e Cina, a pochi chilometri a sud-est del K2, Broad Peak è la dodicesima montagna più alta della Terra e la terza più alta della catena del Karakoram. Il suo nome deriva dalla sua cresta sommitale insolitamente lunga, che si estende per circa 2 chilometri. C’è un punto basso a forma di sella pieno di neve - o col - che separa la cima principale da un altro punto più alto a nord noto come la cima centrale, che è solo 31 metri (102 piedi) più corta (8.016 metri contro 8.047 metri ).

C’è qualche discussione all’interno della comunità dell’arrampicata sul fatto che il vertice centrale meriti il ​​riconoscimento come 15° ottomila. Le cime nel Karakoram sono considerate montagne indipendenti solo se almeno 500 metri di rilievo topografico le separano dai punti più alti vicini. In caso contrario, sono considerati picchi sussidiari. Mentre il vertice centrale di Broad Peak non ha abbastanza importanza per essere considerato la propria montagna, i geografi pensano che questo potrebbe cambiare in futuro se la neve e il ghiaccio che si sono accumulati nel colle si ritirano abbastanza.

Una squadra austriaca fu la prima a scalare Broad Peak, seguendo un percorso sulla parete sud-ovest nel 1957. La squadra non prese ossigeno in bombole e trasportò tutta la propria attrezzatura piuttosto che affidarsi ai portatori.




L’Annapurna è solo la decima più alta vetta degli ottomila, ma è una delle più pericolose. La montagna si trova in Nepal lungo una cresta di 55 chilometri (34 miglia) appena ad est del fiume Gandaki, che ha scolpito una delle gole fluviali più profonde del mondo. La gola separa l’Annapurna da Dhaulagiri, la settima montagna più alta del mondo.

Il 3 giugno 1950, gli scalatori francesi Maurice Herzog e Louis Lachenal raggiunsero la vetta dell’Annapurna, rendendola la prima cima di ottomila metri mai salita con successo. Herzog e Lachenal tentarono per la prima volta la faccia nord-ovest - la chiamarono la faccia di cavolfiore (mostrata nell’ombra nell’immagine sopra) - poi passarono alla parete nord soggetta a valanghe quando si resero conto che la parete nord-ovest era troppo robusta per i loro portatori. La parete sud estremamente ripida, una parete di roccia che si eleva per 3.000 metri (9.800 piedi), si dice che sia una delle salite più difficili al mondo.

Le rocce che compongono la cima dell’Annapurna - pietra calcarea formata sul fondo di un oceano caldo - ricordano le potenti forze tettoniche che hanno spinto le montagne più alte del mondo. Altri ottomila con calcare vicino alle cime includono Everest e Dhaulagiri.




Nanga Parbat è la nona montagna più alta del mondo, ma è una delle più allettanti sia per gli alpinisti che per gli scienziati. Situato nel nord del Pakistan, Nanga Parbat è il più occidentale degli ottomila. Nonostante sia geograficamente vicino al Karakoram, in realtà rappresenta la parte più occidentale della catena himalayana.

Significato ‘montagna nuda’ in Urdu, Nanga Parbat è un riferimento alla parete sud generalmente priva di neve. Conosciuta come la faccia di Rupal, questa è la parete rocciosa più grande del mondo, che si erge a circa 4.700 metri (15.000 piedi) dalla sua base alla cima. Anche gli altri volti - il volto di Rakhiot e il Diamir occidentale - sono estremi. Nell’immagine sopra, la faccia di Rakhiot è in ombra a nord, la faccia di Diamer è a est e la faccia di Rupal è a sud.

Nel primo tentativo in assoluto di scalare un ottomila  l’alpinista britannico Albert Mummery salì il Nanga Parbat nel 1895. Della parete sud, scrisse: ‘Le sorprendenti difficoltà della parete meridionale possono essere realizzate dal fatto che la gigantesca roccia- le creste, i pericoli del ghiacciaio sospeso e il ghiaccio ripido della parete nord-ovest - una delle facce più terrificanti di una montagna che io abbia mai visto - sono preferibili alla parete sud’.

Altrettanto notevole della storia dell’arrampicata di Nanga Parbat è la sua storia geologica. ‘Non esiste nessun’altra montagna al mondo che sta crescendo velocemente come Nanga Parbat’, ha spiegato Mike Searle, geologo dell’Università di Oxford.




Manaslu, l’ottava vetta più alta del mondo, si trova a circa 35 chilometri (22 miglia) a est di Annapurna in Nepal. Mentre tre lunghe creste portano sulla montagna, la cima stessa è una ripida e affilata torre rocciosa che può ospitare solo poche persone alla volta.

Manaslu include i soliti rischi che rendono una scalata qualsiasi otto mila escursionisti una sfida: tempo gelido, aria sottile e valanghe. Ma una squadra di alpinisti giapponesi che esplorava la zona nel 1954 affrontò un tipo di ostacolo molto diverso: una folla di nepalesi arrabbiati armati di mazze, pietre e coltelli. Gli abitanti del villaggio, della vicina Sama, erano infuriati perché credevano che una squadra giapponese che aveva tentato di scalare la montagna un anno prima avesse sconvolto un dio che viveva sulla cima del Manaslu. Erano convinti che la divinità avesse scatenato una valanga distruttiva, così come epidemie di vaiolo e altre malattie.

La squadra del 1954 fu costretta a partire senza tentare di scalare la montagna. La mediazione da parte del governo nepalese ha migliorato un po’ le relazioni, e un’altra squadra giapponese è arrivata nel 1956. Questo gruppo ha seguito un percorso sulla parete nord-est della montagna, raggiungendo la vetta in una bella giornata senza vento.




Conosciuta come la ‘Montagna Bianca’, Dhaulagiri è la settima montagna più alta del mondo. Si trova in Nepal vicino ad Annapurna, con le due cime separate da una profonda gola scavata dal fiume Gandaki. Dhaulagiri si alza bruscamente dal terreno circostante, svettando a circa 7000 metri (2.300 piedi) dal letto del Gandaki.

Come l’Everest, la cima del Dhaulagiri è geologicamente notevole perché è costituita da strati di roccia calcarea e dolomite che si sono formati sul fondo dell’oceano. La maggior parte delle altre vette, al contrario, sono composte da graniti che si sono formati in profondità nel sottosuolo.




‘Dea del turchese’ in tibetano, Cho Oyu è la sesta montagna più alta del mondo. Il massiccio picco si trova al confine tra Tibet e Nepal, a circa 20 chilometri (12 miglia) a ovest del Monte Everest.

Nonostante le sue dimensioni, Cho Oyu è considerato il più sicuro degli ottomila per via della dolce pendenza della sua parete nord-occidentale. Ci sono poche aree tecnicamente difficili su questo fronte e il rischio valanghe è minimo. Una squadra austriaca raggiunse la vetta attraverso la parete nord-occidentale nel 1953.




Makalu, la quinta montagna più alta del mondo, è una montagna a forma di piramide in Nepal, a soli 20 chilometri (12 miglia) a sud-est del Monte Everest. C’è una netta differenza - 284 metri (932 piedi) - tra Makalu e Cho Oyu, il sesto più alto.

La classica forma a piramide di Makalu è il prodotto di ghiacciai a forma di scodella di circo che macinano via in cima su tutti i lati. L’erosione ha lasciato sottili creste, conosciute come arêtes, che si incontrano in cima e formano una forma che sembra una X dall’alto.

In tibetano, Makalu significa ‘Great Black’, un riferimento al granito spesso esposto che costituisce la cima della montagna. Il picco isolato è noto per i forti venti che frustano frequentemente intorno e spazzano via la neve. Le facce occidentali e meridionali appaiono particolarmente nude in questa immagine.

Makalu si è rivelato difficile da conquistare. La parete sud-est ha contrastato una squadra americana nel 1954. Una squadra della Nuova Zelanda guidata da Edmund Hillary, la prima persona a salire sull’Everest, fallì lo stesso anno. Una squadra francese riuscì nel 1955, seguendo un percorso sulla parete nord. Nove membri di quella squadra sono arrivati ​​in vetta, un risultato insolito. Durante le prime salite della maggior parte degli ottomila, solo uno o due membri di una squadra hanno generalmente raggiunto la vetta, mentre altri hanno fornito supporto logistico.




Nonostante sia la quarta montagna più alta del mondo, Lhotse è spesso messa in ombra dal suo vicino più alto, il Monte Everest, che si trova a pochi chilometri a nord. Le due cime sono collegate dal South Col, una dorsale verticale che non scende mai sotto gli 8.000 metri.

Lhotse si trova a 610 metri (2.000 piedi) sopra il punto più basso del South Col, quel tanto che basta per essere considerato una montagna indipendente. Se la prominenza topografica di Lhotse fosse inferiore a 500 metri, sarebbe considerata un picco sussidiario dell’Everest.

Tuttavia, gli scalatori spesso raggruppano i due insieme. A volte Lhotse è chiamato Everest’s South Peak. Una squadra svizzera fece la prima salita di Lhotse nel 1956, affrontando la montagna nella stessa spedizione in cui registrarono la seconda salita dell’Everest. Seguirono un percorso dal South Col fino alla parete ovest di Lhotse.




Kangchenjunga, la terza vetta più alta del mondo, è la più orientale degli ottomila. Kangchenjunga si trova al confine tra Nepal e India, a 120 chilometri (75 miglia) a sud-est del Monte Everest.

La struttura della montagna ricorda una tenda con quattro creste che si irradiano verso l’esterno. Le vette principali e meridionali sono collegate da una cresta frastagliata nord-sud che include altri punti alti ben oltre 8.000 metri, sebbene nessuno abbia una rilevanza topografica sufficiente per qualificarsi come picchi separati.

Non è facile percorrere le pendici ripide e inclinate a valanga di Kangchenjunga. Gli scalatori britannici Joe Brown e George Band fecero la prima salita nel 1955, seguendo un percorso vicino al ghiacciaio Yarlung fino ai piedi della parete sud-ovest della montagna. La popolazione locale del Sikkam credeva che un dio vivesse in vetta e disse agli scalatori di non arrivare fino in cima (per evitare di sconvolgerlo). Per rispetto, la squadra britannica è tornata indietro di qualche metro rispetto al vero vertice.




Situato al confine tra Pakistan e Cina, K2 è il gioiello della gamma Karakoram. La montagna più alta del Karakoram e la seconda più alta del mondo, K2 è solo poche centinaia di metri più corta dell’Everest.

L’insolito nome di K2 ebbe origine da un progetto di rilevamento del XIX secolo condotto da George Everest, il Great Survey trigonometrico, che mappava e misurava molte delle vette più alte. I topografi hanno semplicemente catalogato i picchi per numero, dando a ciascuno il prefisso K per Karakoram seguito dal picco di numero che era. K2 è stata la seconda montagna che hanno incontrato. Quello che i topografi chiamavano K1, un altro picco nella zona, fu in seguito cambiato in Masherbrum, il nome usato dalla gente locale. Nel caso di K2, non esisteva un nome locale ampiamente utilizzato, quindi il nome alfanumerico era bloccato.

Il soprannome moderno di K2 è ‘Savage Mountain’ a causa degli estremi rischi che comporta per gli scalatori: valanghe frequenti e condizioni meteorologiche avverse. Il duca italiano d’Abruzzo guidò una spedizione sulla parete sud-est nel 1909, ma si arrese a circa 6.250 metri (20.505 piedi), credendo che non fosse possibile scalare il K2. Dopo molti altri fallimenti, un altro team italiano alla fine riuscì, seguendo un percorso sulla cresta sud-orientale sulla parete sud-occidentale nel 1954.




Quasi tutti coloro che incontrano l’Everest ne sono stupiti. Essendo la montagna più alta del mondo, l’Everest è lo standard con cui vengono confrontate tutte le altre montagne. In tibetano, la montagna si chiama Chomolungma, che significa ‘dea madre delle nevi’. Il nome nepalese è Sagarmatha, ‘madre dell’universo’.

I ghiacciai hanno scalpellato la cima dell’Everest in un’enorme piramide triangolare definita da tre facce e tre creste che si estendono a nord-est, sud-est e nord-ovest. La cresta sud-orientale è la via di arrampicata più utilizzata. È la rotta che Edmund Hillary e Tenzing Norgay seguirono nel maggio del 1953 quando divennero i primi scalatori a raggiungere la cima e tornare in sicurezza.

(Nasa)






Una, e non meno importante, non compresa in quelli sin qui elencati: Templi e Dèi di trascorsi remoti tempi….

Ammiriamo e Preghiamo!

Dèmoni arroccati ed assisi in cima dal fondo della crosta.

Angeli divenuti diavoli…

…E diavoli barattati per angeli al meglio ispirare quanto per Secoli dall’uomo interpretato e venerato.  

Danzare entro antiche pitture per sempre cancellate dal Tempo, evocare e dettare principi e filosofie e con esse antichi papiri. Antiche credenze e teologie inabissate nella dottrina del comune Tempo transitato nonché arrampicato. Seppure l’intera immacolata purezza incamminata e tradotta per ogni gene della Memoria persa e dismessa figlia di quella antica Terra…

Ogni Vetta e Cima un Dio. 

Ogni Roccia e frammento di Pietra e con essa una Preghiera… una Madonna!

Incamminiamoci! Approdiamo alla Montagna Sacra con una diversa prospettiva così da completare la Rotta di cotal dimensione osservata, per poterla, in verità e per il vero, al meglio conquistare, per comprenderne lo Spirito e renderlo all’Universale comune e più sincero cammino intrapreso. Per curare l’Anima ferita e martoriata da tanta ‘arroganza’ da parte dell’uomo evoluto ed anche alpinista.  

I danni nella pretesa d’ogni conquista li possiamo monitorare con l’orbita simmetrica al circolo della Vita di cui ho fornito un utile elemento così da pensare e scrutarne la Cima… mentre principiamo la grotta dall’ultimo rifugio in Vetta del Progresso…

Così da poter ammirare e meglio comprendere le Sacre Scritture e con esse dipinti di cui non siamo altro che poveri mostri ritratti offuscare respiro e Pensiero.

Ci scusiamo!

Ed io per primo farò del mio meglio nonché umile appello affinché il danno consumato… possa esser aggiustato. Con lo stesso identico Spirito d’avventura condiviso con i reietti del Viaggio con cui accompagnato, ed in assenza di gravità espormi a cotal Preghiera pregando il miracolo…  

Spero che questo principio e non solo ci sia utile per conservare il Tempo irrimediabilmente perso, così da poterlo ammirare ancora dall’Oceano in cui nata la Vita.




…Poche credenze sono più antiche dell’idea che il cielo e la terra un tempo fossero uniti, e che gli dèi e gli uomini salissero e scendessero lungo una scala celeste – o una fune o una pianta – mescolandosi senza problemi.

…Poi una catastrofe primordiale recise il passaggio per sempre, ma in tutta l’Asia e oltre se ne serba ancora la memoria nella devozione ai pali e alle scale rituali: l’Albero sul quale si arrampicano i bramini, i gradini che portano gli sciamani in cielo, persino il palo della tenda dei pastori mongoli, il ‘pilastro celeste’ al centro della loro venerazione.

 Tali culti nascono da un vasto retroterra arcaico: dai pilastri del mondo egiziani e babilonesi ai misteri dell’ascensione di Mitra, agli alberi che arrivavano al cielo della Cina e della Germania antiche, e finanche alla scala di Giacobbe che saliva dal centro del mondo e veniva percorsa dagli angeli. Tali concetti, in parte diffusisi dalla Mesopotamia, hanno una cosa in comune:

la scala o pianta che dà la vita, grazie alla quale la santità torna sulla terra, sorge nel cuore del mondo, l’axis mundi; e il sacro palo del Kailash, eretto nel cuore del cosmo induista e buddhista, ne è un modello classico.

Il suo innalzamento era una cerimonia senza tempo – eseguita in modo intermittente – che segnava la vittoria superficiale del Buddha sul bon, la religione originaria della regione. Per il bon, il Kailash stesso era una scala celeste che collegava il paradiso alla terra. l’idea di una fune che porta fino al cielo è antica nella religione tibetana, i cui primi re scesero dal cielo con delle corde di luce attaccate alle teste.

…E si pensava che i morti salissero in paradiso con funi simili. Persino nella mitologia buddhista vi è un che di fragile e mutevole nella relazione tra il Kailash e i suoi fedeli.

Considerata la sua massa, è una montagna leggera. Secondo la tradizione popolare tibetana, essa giunse qui in volo da una terra sconosciuta – molte montagne tibetane volano – e fu fissata al suo posto con bandiere di preghiera e catene prima che i demoni la trascinassero sottoterra. Poi, per impedire che gli dèi celesti la sollevassero riportandola al luogo da cui proveniva, il Buddha la inchiodò con quattro delle sue impronte.

…Adesso però, dicono, è l’era di Kali Yuga, della degenerazione, e la montagna potrebbe volar via di nuovo in qualsiasi momento….

(C. Thubron)