giuliano

venerdì 24 aprile 2020

IL MITO DELL'ETERNO RITORNO (15)



















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Il problema che affrontiamo in questo Post supera i limiti che ci siamo imposti: potremo così soltanto abbozzarlo oltre che con l’aiuto di un ottimo studioso, anche con quello di un valido e più che noto scrittore.

Sarebbe infatti necessario confrontare l’uomo storico (moderno che scrive ‘rinchiuso’ nella sfera della propria storicità ricercare l’eterna Metafisica, giacché nella società di cui narra abilmente avventure e gesta scorge l’eterno limite della Storia), che si sa e si vuole creatore di storia, con l’uomo delle civiltà tradizionali che, l’abbiamo visto, aveva nei confronti della storia un atteggiamento negativo. Sia che l’abolisse periodicamente, sia che la svalorizzasse trovandole sempre modelli e archetipi trans-storici, sia infine che le attribuisse un senso metastorico (teoria ciclica, significati escatologici, ecc.), l’uomo delle civiltà tradizionali non accordava all’avvenimento storico valore in sé, non lo considerava, in altri termini, come una categoria specifica del suo proprio modo di esistenza.




Il paragone di questi due tipi di umanità implica un’analisi di tutti gli storicismi moderni e una tale analisi, per essere veramente utile, ci condurrebbe lontano dal tema principale di questo studio. Siamo tuttavia costretti a sfiorare il problema dell’uomo che si riconosce e si vuole storico, poiché il mondo moderno non è ancora, al giorno d’oggi, interamente conquistato dallo storicismo; assistiamo anche al conflitto delle due concezioni: la concezione arcaica, che chiameremo archetipica e antistorica, e la moderna, posthegeliana, che si vuole storica.

Ci accontenteremo di esaminare un solo aspetto del problema, ma un aspetto  essenziale: le soluzioni che offre la prospettiva storicistica per permettere all’uomo moderno di sopportare la pressione sempre più potente della storia contemporanea. I precedenti capitoli hanno abbondantemente illustrato il modo in cui gli uomini delle civiltà tradizionali sono ‘prigionieri’ della storia. Ci si ricordi che si difendevano da essa, sia abolendola periodicamente per mezzo della ripetizione della cosmogonia e della rigenerazione periodica del tempo, sia accordando agli avvenimenti storici un significato metastorico, significato che non era solamente consolatorio, ma anche e prima di tutto coerente, cioè suscettibile di integrarsi in un sistema ben articolato in cui il cosmo e l’esistenza dell’uomo avevano ciascuno la loro ragion d’essere.




Altri credono che i cicli e le periodicità della storia del mondo siano retti dall’influenza degli astri, sia che questa influenza ubbidisca alla volontà di Dio e sia il suo strumento nella storia, o — ipotesi che si impone sempre di più — che la si consideri come una forza immanente al cosmo. In breve, per adottare la formula di Sorokin, il medioevo è dominato dalla concezione escatologica (nei suoi due momenti essenziali: la creazione e la fine del mondo), completata dalla teoria della ondulazione ciclica che spiega il ritorno periodico degli avvenimenti. Questo doppio dogma domina la speculazione fino al secolo XVII, anche se parallelamente comincia a farsi luce una teoria del progresso lineare della storia.




Il settimo Buddha Gotama, invece, fa la sua comparsa quando la vita umana è soltanto ormai di cento anni, cioè è ridotta al suo limite estremo (ritroveremo lo stesso motivo nelle apocalissi iraniche e cristiane). Quindi, per il buddismo, come per tutta la speculazione indù, il tempo è illimitato; e il Boddhisattva s’incarnerà, per annunciare la buona novella della salvezza, per tutti gli esseri, in aeternum. L’unica possibilità di uscire dal tempo, di spezzare il cerchio di ferro delle esistenze, è l’abolizione della condizione umana e la conquista del Nirvana.

D’altra parte, tutti questi incalcolabili e tutti questi eoni senza numero hanno anche una funzione soteriologica; la semplice contemplazione del loro panorama terrorizza l’uomo e lo forza a convincersi che deve ricominciare miliardi di volte questa stessa esistenza evanescente e sopportare senza fine le stesse sofferenze, e questo ha per effetto di esacerbare la sua volontà di evasione, cioè di spingerlo a trascendere definitivamente la sua condizione di  ‘esistente’.




Le speculazioni indù sul tempo ciclico mostrano con una sufficiente insistenza il rifiuto della storia, sottolineiamo tuttavia una fondamentale differenza tra queste e le concezioni arcaiche; mentre l’uomo delle culture tradizionali rifiuta la storia per mezzo dell’abolizione periodica della creazione, rivivendo così incessantemente nell’istante atemporale degli inizi, lo spirito indù, nelle sue supreme tensioni, svilisce e respinge anche questa riattualizzazione del tempo aurorale, che non considera più come una soluzione efficace del problema della sofferenza.

La differenza tra la visione vedica e la visione mahàyànica del ciclo cosmico è, per usare una formula sommaria, quella stessa che distingue la posizione antropologica archetipica (tradizionale) dalla posizione esistenzialistica (storica). Il karma, legge della causalità universale, che, giustificando la condizione umana e spiegando l’esperienza storica, poteva essere generatore di consolazione per la coscienza indù prebuddistica, diventa col tempo il simbolo stesso della schiavitù dell’uomo. Per questo, nella misura in cui si propongono la liberazione dell’uomo, tutte le metafisiche e tutte le tecniche indù ricercano l’annullamento del karma.




Ma se le dottrine dei cicli cosmici fossero state solamente una spiegazione della teoria della causalità universale, saremmo dispensati dal ricordarle in questa sede. La concezione dei quattro yuga apporta infatti un nuovo elemento: la spiegazione (e di conseguenza la giustificazione) delle catastrofi storiche, della decadenza progressiva della biologia, della sociologia, dell’etica e della spiritualità umana. Il tempo, per il semplice fatto che è durata, aggrava continuamente la condizione cosmica e implicitamente la condizione umana.

Per il semplice fatto che noi viviamo attualmente nel kali-yuga, quindi in un’età di tenebre, che progredisce sotto il segno della disgregazione e deve finire con una catastrofe, il nostro destino è di soffrire di più degli uomini delle età precedenti. Ora, nel nostro momento storico, non possiamo dedicarci ad altre cose: tutt’al più (e qui si intravede la funzione soteriologica del kali-yuga e i privilegi che ci riserba una storia crepuscolare e catastrofica) possiamo svincolarci dalla servitù cosmica.

(Eliade)

     
                                   
                
 Sono in questa cella della prigione di Folsom, e mi fermo un attimo nella stesura di queste “Memorie”, per ascoltare, nella calura pomeridiana, il tranquillante ronzìo delle mosche nell’aria stagnante. Non sono le mie mosche di San Quintino, e queste non mi conoscono per niente. Come compagni, nel reparto dei condannati a morte, non ho più Oppenheimer e Morrell; ma, alla mia destra, Giuseppe Jackson, il negro assassino, e alla mia sinistra Bambeccio, l’italiano omicida.

Nella mano, tengo la penna stilografica, alzata sulla carta, e penso che nel corso delle mie vite passate, altre mie mani hanno agitato dei pennelli, delle penne d’oca, e tutti i più strani e diversi strumenti di cui l’uomo, sin dalla più remota antichità, si è servito per scrivere…

Ma torniamo a San Quintino.




La distrazione procurata dalle conversazioni con i miei due compagni di carcere non durò a lungo. E ricominciai a soffrire per la mia solitudine e per la continua meditazione interiore. Allora, per sfuggire al presente, tentai la strada dell’auto-ipnotismo. Ottenni soltanto un successo parziale. Il mio subcosciente, ritornando autonomo, si perdeva in vaneggiamenti incoerenti, in mille fantasie disordinate, degne tutt’al più di un semplice incubo.

Il mio metodo d’auto-ipnosi era semplicissimo.

Seduto alla turca sul pagliericcio, fissavo un filo di paglia che avevo applicato sul muro, dove la luce era più viva. Fissavo a lungo questo punto brillante, a cui avvicinavo insensibilmente i miei occhi, finché le mie pupille si velavano. Contemporaneamente, lasciavo languire ogni altra volontà e mi abbandonavo a una sorta di vertigine, che non mancava mai d’impadronirsi di me.

Veniva il momento in cui vacillavo.




Allora chiudevo le palpebre e mi lasciavo inconsciamente cadere sulla schiena, sul pagliericcio. Da questo momento, per un tempo che poteva variare da dieci minuti a mezz’ora, fino a un’ora, vagavo attraverso i ricordi sovrapposti delle mie riapparizioni vitali su questa terra. Ma tempi e luoghi si succedevano nella mia mente con eccessiva rapidità, confusamente e senza un ordine. Tutto ciò che sapevo, quando rientravo in me, era che Darrell Standing era il filo che collegava fra loro tutte quelle visioni fantastiche, ondeggianti.

Niente di più!

Non riuscivo a vivere interamente nel tempo e nello spazio nessuno dei miei sogni, se così posso definire queste evocazioni allucinate. Così, dopo un quarto d’ora circa dell’ipnosi, avevo l’impressione, quasi simultanea, di strisciare e grugnire nel fango primitivo, e di volare, in pieno secolo ventesimo, sul monoplano del mio amico Hoos.




Rientrato nella realtà del carcere, mi ricordavo perfettamente che nell’anno precedente alla mia incarcerazione a San Quintino, avevo infatti volato con Hoos sopra il Pacifico, a Santa Monica. Al contrario, non ricordavo più di avere strisciato e grugnito nel fango primordiale. Ma ragionando, mi persuadevo che entrambe le azioni dovevano essere egualmente reali, dal momento che s’erano presentate tutte e due, contemporaneamente, alla mia memoria. Soltanto, una era più lontana dell’altra, e così il suo ricordo s’era offuscato, come ingiallito.

Che caleidoscopio di immagini, in quelle ore rubate alla mia triste realtà! Mi sono seduto alla tavola dei grandi della terra, come buffone, scrivano e uomo d’armi, e Re io stesso, al posto d’onore, a capo del tavolo. Ho riunito, dietro le mura robuste del mio palazzo, il potere temporale, rappresentato dalla spada che avevo al fianco e dagli innumerevoli armati che avevo ai miei ordini, e il potere spirituale, di cui testimoniavano i monaci incappucciati e i grassi abati che sedevano alla mia tavola, bevendo il mio vino e rimpinzandosi del mio cibo.

Talvolta, con voce grave, pronunciavo delle sentenze.




Condannavo e imponevo la morte legale a degli uomini che, come Darrell Standing, avevano oltraggiato lo spirito eterno della legge.

Mi vedevo poi, alternativamente, mentre languivo portando intorno al collo il collare degli schiavi, in gelide regioni desolate; o, sotto le calde e profumate notti tropicali, amato da stupende principesse di sangue reale, mentre intorno degli schiavi negri agitavano con grandi ventagli l’aria sonnolenta. E fra il mormorìo delle fontane, sotto gli immobili rami delle palme, si udiva, in lontananza, il grido acuto degli sciacalli e il ruggito dei leoni.

E ancora… sperduto nelle desolate steppe dell’Asia mi scaldavo le mani davanti a grandi fuochi alimentati da escrementi secchi di cammello. E, quasi subito, mi ritrovavo nel torrido deserto d’Asia, sdraiato all’ombra tisica dei cespugli di salvia, maculati di sole, accanto a pozzi disseccati. Imploravo, con la lingua gonfia, una goccia d’acqua, mentre intorno a me si allineavano, classificate in capaci contenitori, ossa d’uomini e di bestie, calcinate dal sole…




Ero corsaro, assassino a pagamento e pirata, o monaco curvo su testi manoscritti, pergamene, enormi volumi, antichi e saturi di muffa.

Poi, di colpo, capo di barbari, comandante di orde urlanti, guidavo file innumerevoli di carri per strade impervie, e calpestavo il suolo di antiche città dimenticate. Mi battevo disperatamente, su quei campi di battaglia d’altre epoche. E nemmeno quando il sole calava oltre l’orizzonte, cessava la vermiglia carneficina.

Continuava nelle ore della notte, al cospetto delle stelle che brillavano in cielo.

E la freschezza del vento notturno bastava ad asciugare il sudore della battaglia.

Marinaio senza paura, arrampicato sulle sartìe che oscillavano sul ponte delle navi, amavo contemplare sotto di me l’acqua del mare, trasparente sotto il sole, in cui foreste rossastre di corallo tralucevano negli abissi color turchese. Poi, tornato al timone, conducevo la mia nave, con mano sicura, nel porto tranquillo, scintillante come uno specchio, nei golfi sereni, dove i flutti si spezzano eternamente, con rumore sordo, sui banchi a fior d’acqua dei coralli aggrovigliati.




Più prossima nella sua origine, un’altra vita trascorsa: quella dei giorni della mia infanzia.

Ritornavo il piccolo Darrell Standing che correva a piedi nudi, nella fattorìa paterna, sull’erba umida della rugiada primaverile. O nei freddi mattini d’inverno portavo il fieno alle bestie, nella stalla tiepida del loro alito fumoso. E mi sembrava di sedermi, la domenica, dinanzi al predicatore, ascoltando con sgomento infantile i suoi discorsi immaginifici sulla felicità della Nuova Gerusalemme e sulle sofferenze orribili del fuoco eterno.

Da dove provenivano queste visioni, mentre nella mia cella mi sprofondavo in un torpore pesante dopo avere fissato un filo di paglia, luccicante in un raggio di sole?




Io, Darrell Standing, nato e cresciuto in un angolo isolato del Minnesota, già professore d’agronomia e poi galeotto incorreggibile a San Quintino, e oggi condannato a morte, nella prigione di Folsom; io, Darrell Standing, che fra poco morirò impiccato, non ho mai amato, in questa presente esistenza, delle figlie di re.

Non sono mai stato sul trono, con la spada al fianco.

Non ho mai navigato, né unito la mia voce a quella dei marinai.

…Ma allora, come ho potuto conoscere tutte queste cose?

Esse sono estranee alla mia esperienza in questa vita. Eppure, fluiscono dal mio cervello, come la parola ‘Samaria!’ proruppe dalle mie labbra infantili, al cospetto di una semplice fotografia.

Dal nulla non nasce nulla.

(J. London)













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