giuliano

martedì 31 luglio 2018

L'ABISSO DEL FILOSOFO: (5) (80)



















Precedente capitolo:

L'abisso del Filosofo (4) (79)

Prosegue in:

L'abisso della Memoria (6)

Gente di passaggio: Francois Villon (81)

La casa dell'alchimista (3/4)














Pensava poco agli episodi della vita passata, già dissolti come sogni.....
A volte, senza apparente motivo, rivedeva la donna incinta che, con-
trariamente al giuramento ippocratico, aveva acconsentito a far abor-
tire in un villaggio della Linguadoca per risparmiarle una morte igno-
miniosa al ritorno del marito geloso, in un borgo della Provenza, op-
pure la smorfia di sua maestà Svedese nell'ingoiare una pozione, o
il valletto Alei mentre aiutava la mula a guadare un fiume tra Ulma e
Costanza, o il cugino Enrico-Massimiliano, che forse era morto.
Una strada infossata ove le pozzanghere non si asciugavano mai,
neppure d'estate, gli ricordò un certo Perrotin che gli aveva fatto la
posta sotto la pioggia, sul margine d'una strada solitaria, l'indomani
d'un litigio i cui motivi gli sfuggivano o forse non aveva mai saputo...




Rievocava due corpi avvinghiati nel fango, una lama lucente a terra,
e Perrotin trafitto dal suo stesso pugnale allentare la stretta, diven-
tato lui stesso fango a terra.
Vecchia storia che non importava più, né sarebbe importata di più
se il cadavere molle e caldo fosse stato quello d'un chierico di vent'-
anni.
Quello Zenone che camminava con passo affrettato e talvolta sban-
dato, sul selciato viscido di Bruges si sentiva penetrare, come il ven-
to d'alto mare tra i suoi vestiti consunti, dall'ondata delle migliaia di
esseri che avevano già occupato questo punto del globo, o che vi
si sarebbero avvicendati fino alla catastrofe che chiamiamo fine del
mondo; quei fantasmi attraversavano senza vederlo il corpo di que-
st'uomo che, loro vivi, non esisteva ancora, e quand'essi sarebbero
esistiti non ci sarebbe stato più......




Gli ignoti incontrati un istante prima per la via, intravisti con un'oc-
chiata, poi subito ripiombiati nella massa informe di ciò che è pas-
sato, aumentavano di continuo quella legione di larve.
Il tempo, il luogo, la sostanza perdevano gli attributi che costitui-
scono per noi le loro frontiere; la forma non era più che la scorza in
brandelli della sostanza; la sostanza fluiva via goccia a goccia in un
vuoto che non era il suo contrario; il tempo e l'eternità erano la stes-
sa cosa, come un'acqua nera che fluisce in una falda d'acqua nera
immutevole....




Zenone s'inabbisava in tali visioni come un cristiano nella meditazio-
ne di Dio.....
Anche le idee scivolavano.
L'atto del pensare l'interessava ora più degli incerti prodotti del pen-
siero. Si esaminava nell'atto di pensare come avrebbe potuto conta-
re col dito sul polso i battiti dell'arteria radiale, o sotto le costole l'an-
dirivieni del suo respiro.
Per tutta la vita si era stupito di questa facoltà che hanno le idee di
agglomerarsi freddamente come cristalli in strane figure vane, di cre-
scere come tumori che divorano carne che li ha concepiti, o anche
di assumere mostruosamente i contorni della persona umana, come
quelle masse inerti che danno alla luce talvolta le donne e che altro
non sono se non la materia che sogna....




Molti prodotti della mente erano essi pure mostri difformi....
Altri concetti, più precisi, più netti, come forgiati da un abile artigia-
no, erano di quegli oggetti che illudono a distanza; non ci si stancava
di ammirarne gli angoli e le parallele; e nondimeno non erano che
sbarre nelle quali l'intelletto si rinserra, e la ruggine del falso divora-
va già quelle astratte ferraglie.
A momenti c'era da tremare come al limite d'una trasmutazione, sem-
brava che nel crogiolio del cervello umano si formasse un po' d'oro,
e invece si approdava a una pura equivalenza; come in quegli esperi-
menti truccati, nei quali gli alchimisti di corte tentano di dimostrare
ai loro principeschi clienti di aver trovato qualcosa, l'oro sul fondo del-
la storta era quello di un banale ducato passato per le mani di tutti e
che vi era stato messo dall'alchimista prima della fusione.




I pensieri periscono come gli uomini: nel corso di mezzo secolo ave-
va visto diverse generazioni d'idee cadere in polvere.....
Una metafora più fluida, effetto delle ormai lontane traversate marit-
time, si andava insinuando in lui. Il filosofo che tentava di considerare
nel suo insieme l'intelletto umano vedeva sotto di sé una massa sotto-
posta a curve calcolabili, percorsa da correnti di cui era possibile trac-
ciare il percorso, scavata da solchi profondi sotto la violenza dell'aria
e la pesante inerzia delle acque....
Le figure via via assunte dallo spirito subivano la stessa sorte di quel-
le grandi forme nate dall'acqua indifferenziata che si scagliano le une
contro le altre o si susseguono alla superficie dell'abisso; ogni concet-
to ricadeva alla fine nel proprio contrario, come due marosi che urtan-
dosi si annullano in una sola candida schiuma.




Zenone guardava fuggire quel flutto disordinato che si portava via,
quasi relitti d'un naufragio, le poche verità sensibili di cui ci crediamo
sicuri.....
A volte gli sembrava d'intravvedere sotto il flusso una sostanza immo-
bile che era per le idee quel che le idee sono per le parole.......

(M. Yourcenar, L'opera al nero)
















domenica 29 luglio 2018

LE GENERAZIONI DI SPIRITI MALIGNI (2)



















Precedenti capitoli:

L'eclissi della Luna nuova

Prosegue in:

Il magico tellurico mondo degli Dèi antichi (3)















Qual fuoco s’accende

nel mare d’una antica avventura

saggezza affogata

nella precoce rovina

d’una sapienza taciuta

ogni Ulisse piange la verità perduta (9)







E Cecco continuò:

— Sarà regina di un possente e fiorito reame e donna di altissimo senno; ma si lorderà le mani del sangue de’suoi; e nell’opera di lussuria resterà famosa tra coloro che chiameranno antico questo tempo…




— Ah cane patarino! finalmente vedrò la vendetta mia! Ora si parrà che cosa ti gioveranno le tue diaboliche arti: or si vedrà che cosa è questa tua gran sapienza astrologica [— e dando in un infernale scroscio di risa, si volse al cancelliere —] E’ legge il futuro lassù nelle stelle, e non vi ha letto questo suo meritato fine! [— E ridendo da capo, anche più sgangheratamente —] Che bel falò, messer lo cancelliere! mi par già di vederlo dibattere tra le fiamme [— e come era proprio ebbro dalla gioja, né sapeva nemmeno quel che si dicesse, concluse:] — Voglio essere io quello che appiccherà il fuoco al capannuccio, per più suo martorio, e perché vegga che cosa gli sono costati all’ultimo gli scherni e le villanie fatte a un mio pari. E’ mi predisse ch’io morrei poco appresso di lui... Sciagurato! intanto falla tu la morte degli eretici, e de’ negromanti. Al resto ci penserà la provvidenza; e ad ogni modo sarà quel che sarà: morirò contento dopo aver gustato la vendetta.

— Messere, o zelo santo, o odio senza termine, tutti e due vogliamo veder Cecco arso per eretico. Non facciamo dispute teologiche; ma pensiamo piuttosto a far sì che il solenne astrologo, il medico, il filosofo non ci esca dalle mani.

—Bisogna, rispose il vescovo, incominciare dalla formale denunzia al sacro tribunale dell’Inquisizione. Piacevi egli il farla tosto?




— Se a voi pare che sia da far tosto, si farà: sol che non vi gravi l’assistermi. E come il cancelliere assenti, così il maestro si pose a scrivere, parlando quel ch’egli scriveva, per invitarne alla correzione del cancelliere; e cominciò in questa forma:

“Reverendo padre in Cristo Signore Gesù. —Io, mastro con Garbo, medico e cittadino nominato, indegno figliuolo della santa chiesa cattolica, come colui che più non posso sopportare i garriti della mia coscienza, né voglio andare incontro alle pene che il santo tribunale della sacra Inquisizione minaccia a coloro che i rei di eretica pravità non denunziano ad esso, acciocché si possano revocare a penitenza, e, perfidiando nel loro peccato, dargli nelle mani della giustizia secolare, affinché gli metta alla pena del fuoco,secondo che ordinano le sue leggi; denunzio a voi con tutta verità, e con ogni solenne giuramento, il nomato Filosofo, per negromante ed eretico pestilentissimo. Affermo e giuro come, essendo in Bologna, fece un trattato sopra la Sfera, ammettendo che nelle sfere di sopra sono generazioni di spiriti maligni, i quali si possono costringere per incantamenti sotto certe costellazioni a poter fare molte meravigliose cose, mettendo ancora in quel trattato necessità alle influenze del corso del cielo".





“Affermo e giuro ch’egli insegna(va) come Cristo venne in terra, (e come Lui similari Profeti) e, ancor peggio, come Dio  Padre suo manifesta Idea e Pensiero, andando diffondendo pregando e scrivendo talune idee pervenute dall’Oriente, accordandosi il volere di Dio colla necessità del corso di astrologia; e che doveva, per la sua natività morire della morte che egli morì; e come, invece, l’Anticristo debba (sempre) venire (e regnare) per corso di pianeti in abito ricco e potente”.

“Affermo e giuro che quel suo libello fu riprovato in località montana presso li monti di Bergamo, ed egli si ebbe sentenza e penitenza d’eretico, promettendo e giurando che più non l’userebbe; e che nondimeno, dispregiando la benignità del sacro tribunale della Inquisizione, e il fatto giuramento, e’ lo ha seguitato ad usare in altri loci; dove altresì ha pubblicamente dette parole di dispregio contro i propri confratelli; schernito e vilipeso la efficacia delle papali scomuniche; esercitato la negromanzia e le arti magiche; vituperate le case de’ grandi cittadini di  costruite a suo dire là ove Dio non vole e pote; ajutando per opera di magia illeciti amori con la Natura sua vera e sola Madre; e bestemmiato e deriso sempre le cose più reverende e più sante”.

“Tutto questo affermo e giuro nel nome della santa e individua Trinità, a gloria maggiore della santa madre Chiesa, per satisfazione della mia propria coscienza, per il formale debito di ubbidiente e fedele cattolico”.


….E frate Lamberto da…
















venerdì 27 luglio 2018

VEGIO CHE ARDE QUI IL GRANDE FUOGO (brevi parentesi storiche....) (28)
















Precedente capitolo:

Un uom val cento... e cento non fan uno.... &

Vegio ch'è tolto l'ordene e lo bene (brevi parentesi storiche...) (27)

Prosegue in:

E morì come visse: urlando e bestemmiando (brevi parentesi storiche...) (29)

In riferimento a Cecco:

Un uom val cento... e cento non fan uno... &

Dante e Cecco











....Certo a noi dispiace vedere uomini colti apprezzare sunterelli venuteci
d'oltre Alpi, come lo 'Speculum naturae', e denigrare Cecco che fu italiano
e martire ed ebbe il merito di risalire le fonti.....




Dunque, alla sua giovinezza povera e studiosa perché gli ignoranti maligni
tendono insidia?
Se egli avesse studiato l'animo di certe persone quanto era esperto degli
usi e costumi degli animali, non si sarebbe loro affezionato: 'Perché son
nati molti - Che parlano secondo il Tempo antico; - Ché del saper cose
meravigliose - Alcun frutto non v'è, dicon gli stolti - Stizzando le lor boc-
che disdegnose. - grande è la pena qui, e più il tacere. - Convienci di par-
tir da questa gente'.
E doveva certo soffrire vedendo schernita la sua coltura da ricchi ignoran-
ti, che gli facevano sapere d'elemosina lo stipendio, 'Ché troppo ha sale
  la cena col pranzo - De l'altrui pane: tu vedi ben como!'.




Il colloquio (nell'Acerba...) con se stesso continua.
La migliore risposta a quella gente è il silenzio; non bisogna pensare lo-
ro, bensì ai problemi che l'animo non sa lasciare senza risposta, e il tem-
po fugge.
'O quanto io temo!'.
Così distratto dai suoi tristi pensieri, eccolo di nuovo affannarsi in que-
stioni di ottica, lasciare da parte Aristotele che più non risolve un suo
dubbio sulla natura della luce e delle ombre, e con una distinzione cavar-
si d'impaccio.
'O quanto, distinguendo, nasce frutto, - Quando per sua fallacia alcun
contende!'.
Ma la premura continua di risolvere senza disgressioni lo ha sfinito:
'Qui più non resisto'.




Ripiglierà più tardi, e dimostrerà che avarizia ed usura non possono
desiderarsi da un animo bennato, perché dov'è intelletto si eleggono
le cose più degne, cioè virtù, scienza ed onore, e si pregia la ricchez-
za, anzi, la si consuma per procurarsi la fama.
'E' con la fama congiunta la spesa, - E ciò non può fuggir chi ha valo-
re, - E contro lei non può far mai difesa'.
D'un tratto rompe in un'invettiva contro le donne, che già erano da
lui paragonate al fango, e l'uomo al sole. Ormai sembra che il dram-
ma volga alla fine.
Le risposte ai quesiti hanno l'aria d'un testamento: 'Di' da mia parte,
se già mai ragioni - Con uomo che del vero sia sentito'.
Alla domanda, come si spieghi l'immaginare profetico o suggestivo,
egli così risponde sottovoce: 'Tien l'udito passo, - Se ti diletti di ciò
giudicare'.




E soggiunge che le immaginazioni volontarie non corrispondono mai
all'effetto, ma quelle mosse dal cielo si compiono. E dopo aver de-
scritto le vene e le arterie e la circolazione del sangue, e spiegato
perché un'improvvisa allegrezza può troncare la vita, consola l'allie-
vo e lo invita a compiacersi di non essere 'di più bassa schiera', a re-
sistere nel bene, a far tacere e suoi desiderii in Dio.
'Ogni natura è creata al fine, - Lo qual per l'alma non è in questo mon-
do; - Ma quando vederà lo suo Fattore - Di vista con l'altre divine, -
Sentirà pace dell'eterno amore'.
Ma, dice l'altro, come può l'uomo stare di fronte all'infinito? E il mae-
stro rimanda la risposta a dopo la morte: 'Or qui convien ch'io taccia,
- Ma quando vederò lo tempo e il loco, - Di ciò conviene ch'io ti sati-
sfaccia'.




Lo sdoppiamento della personalità assume ora l'aspetto di un'allucina-
zione.
L'allievo domanda che valore abbiano i sogni, così trascurati dal volgo;
e prima di rispondergli, il maestro, ricordando gli alunni di Bologna e
la spia di Firenze che lo hanno tradito, assieme ad altri 'uditori', escla-
ma: Se mi induci a parlare su questo argomento per mettermi nelle ma-
ni de' miei nemici, procurami almeno il rimedio della morte.
'E se tu m'hai disposto, ch'io non credo, - Alla mercede altrui per gran
difetto, - almen la morte mi da' per rimedo'.
...Povero poeta credeva nella sua astrologia, nel suo mondo più vero
dei suoi miseri alunni delatori, ed ora la sconsolata amarezza di avere
inutilmente vissuto e sofferto, e la mortale passione di essersi fidato
di allievi ed amici che tradivano costantemente ... il sapere...








Ed io a lui........




Povero eretico,
son io che ti osservo
nell'angolo nascosto
accanto alla brocca,
dove non sapendo,
stai bevendo l'antico tormento
confuso con lieto piacere.
Dona segreta parola
nell'infinita ora:
stai creando nuove stelle
in questo Universo
dove ti sei appena perso.
Fiumi di parole e tanti pianeti,
eterni prigionieri di una strana materia,
perché sempre avanza per questa cella
specchio di una diversa creanza.

Pensiero già detto di un Dio
forse non troppo perfetto.
Stai parlando con il tuo Giuda
ora signore di questo cielo maledetto
e i suoi trenta denari:
strani accadimenti e nuovi tormenti
per questi elementi.
Argomento perfetto nella lenta agonia
di questo Universo appena detto.
Vita seminata nell'eterna illusione
di una vaga speranza,
intrisa e confusa
con vile materia gettata alla rinfusa.
Coltivata con la peggiore infamia,
poi rivenduta pregata e adoperata
per santa creanza.

(Cecco d'Ascoli, L'Acerba &
G. Lazzari, Frammenti in Rima, Dialogo in-crociato,
17, 25; 17,26)













giovedì 12 luglio 2018

IL TEMPO & LA MEMORIA (2)











































Precedente capitolo:

Il Tempo & la Memoria (1)

Prosegue in:

Il Tempo & la Memoria (3)














Raccontare la frattura che si preannunciava in quella Chiesa, non è la ‘storia’, ma un evento della nostra geografia. Io in tutta la mia umiltà così ho percepito e visto. Perché non ho mai varcato il sottile confine fra  ciò che va detto e ciò che va taciuto. Questa differenza, questo abito, questo costume da pagliaccio che indosso, ancora mi danno l’onore della vita, se questa può dirsi vita.  Prego anche’ io chino di fronte alla croce, e quando l’alto prelato incrocio, nel silenzio di qualsiasi sermone, abbasso gli occhi e prego per la mia vita e quella del prossimo. Nel lento scorrere della litania, della preghiera, recito la mia parte, la mia ora, il mio giorno, nel divenire del tempo. Nel lento camminare del giardino chino ammiro la vita della foglia che trasuda la sua umidità invernale. Prego lei, fra la sua e la mia litania. In questo girare in tondo, qualche libro abbiamo ‘miniato’ nel segreto della biblioteca e abbiamo nascosto agli sguardi attenti dei fratelli. Così ora anche di giorno riesco a leggere qualcosa della radice della pianta, mia sola compagna, mia sola amica, mia sola anima, di questo Inverno che si preannuncia severo. Ma i primi freddi alle ossa sono il nulla di fronte ai brividi della caverna che scende, fino alle volte insperate di panorami di altri secoli. Quello di cui io ora sono testimone, e di cui spero mai mortificare il mio umile spirito dentro queste carni già sofferenti, è la costanza dell’ Assoluto, divenuto parola attraverso il mio confratello -  Eraclio - . 
Nel lento deambulare e girare attorno noi stessi abbiamo imparato che la sua parola è più della nostra vita, che il suo dire è più della luce che riusciamo a vedere ogni mattina, che il suo pensare è un conversare con Dio, a cui  noi ancora non ci è …. e mai sarà concesso. Il tramite del nostro parlare con la Croce, il miracolo della vita, il nostro mangiare e sopravvivere, è opera di nostro fratello Eraclio. Tutto, con il tempo, abbiamo imparato da lui dipendere. Nel segreto della nostra cella vediamo e preghiamo nostro fratello – Eraclio - . L’uomo che ora io vedo aver preso voce da quella fitta boscaglia dietro l’altare…. e parlare… domandare. E con lui i figli d’altare, a cui spesso confuso nel fitto cerimoniale attorno ad esso, non riusciamo più a dar un nome. Con lui i suoi fratelli e sudditi, i dottori, da cui  – Eraclio -  insegna ed apprende, nel lento fluire del tempo, immobile, di fronte all’assoluto della verità. 
Con lui Vescovi e Cardinali, i medici della nostra anima, dei nostri dolori, custodi delle nostre celle, padroni dei nostri pensieri, seminatori dei nostri sogni, raccoglitori della nostra semenza .  Con lui il lento trasmutare della storia, il lento progredire della scienza Teologica in seno alla verità scientifica. La stagione di una verità scorre attraverso la mutabilità apparente, apparenza del tempo. Lento deambulare in circolo per questo giardino. Questo il nostro camminare, pregare…. e troppo spesso sperare. Nella solitaria quiete dell’ Eremo le stagioni sono ricorrenze da calendario. Sono Messe da celebrare, penitenza da rispettare, comunioni per i nostri visitatori di tutto il feudo, di cui disconosciamo persino i confini.  Sono cornici ed usanze, litanie ripetute fino allo stordimento. Così incorniciamo lo scorrere lento del tempo e con esso la vita che spesso vediamo e ammiriamo da lontano . La vita, per noi, dissidenti cultori della biblioteca, si nasconde in cornici di quadri ammirati da lontano: è profumo di Primavera, spensieratezza di neve, freddo e gelo, e poi i colori assordanti dell’Estate.  Quei quadri li possiamo ammirare e vedere… talvolta…..  Ma ben attenti a non essere visti. Non essere osservati nel nostro lento volare verso altri luoghi.  La nostra – anima - , così ci spiega Eraclio, è la parola donata da nostro Signore, è il mistero del – verbo - , il sacrificio a cui tutti noi ci dobbiamo umiliare, per comprendere, capire… e poi celebrare.  Il nostro – Spirito – , ci insegna , deve perseguire la dura disciplina della penitenza, della severità, del castigo. La nostra – Salvezza – il pregare quell’ anima che un giorno incontrerà la gloria dei cieli. La penitenza della preghiera e la paura del potere Divino, che nostro Signore e Padrone possono su di noi.  La vita, tramanda fratello – Eraclio – , può conoscere solo questa umiliazione, questo castigo, questa eterna penitenza. La luce della preghiera deve penetrare in noi, dall’alto di quella feritoia nella Chiesa, come immagine manifesta di Dio. La prima ed assoluta creazione, la prima sua manifestazione, la prima sostanza. 
Così nel buio della nostra anima, il corpo deve prendere forma e spirito.  Nel nostro pregare nel buio dei nostri patimenti, possiamo sperare solo nella salvezza di quella luce. La prima luce dell’ – Altissimo - . Il creatore di tutte le cose. Quando fratello – Eraclio – parla in codesto modo, ci illumina tutti. Apre ai nostri occhi chiusi la comprensione vera del Mondo, del Creato, dell’ Universo.  Io, e tutti i miei confratelli, dai lontani tempi del seminario, abbiamo compreso la verità tangibile del mondo attraverso la parola di fratello – Eraclio - .  Con i fratelli più anziani abbiamo imparato che la luce della sostanza della materia creata si deve riflettere su tutte le opere che leggiamo, sulle preghiere che recitiamo, sulle pitture che componiamo. Sulle croci che fabbrichiamo. Quelle e solo quelle sono le nostre stagioni, gli sguardi di un desiderio di vita e salvezza. Panorami  di verità. Il resto è vista di un mondo che ci è proibito vedere, ammirare, contemplare. E’ solo l’immagine di quel Dio di cui i nostri occhi debbono celebrare in eterno la sua venuta, la sua figura, il suo martirio.  Gli occhi  di quel Dio riflessi nella sua sostanza, nell’ icona, e sacrificati per sempre alla sua opera creata. Ma con il tempo l’ opera creata ha mosso i nostri animi, gli spiriti, la segreta volontà non del tutto assopita della conoscenza. Nella rigida regola dell’ Eremo, ci è concesso celebrare il – Verbo – incarnato in diversa maniera. In questo fratello – Eraclio - , ci ha sempre stimolato, insegnato, e poi comandato.
Nella regola del quotidiano vivere orologio del  tempo, oltre alle tre funzioni giornaliere, abbiamo la possibilità di prestare la nostra ignoranza alla – Sacra – conoscenza.  La biblioteca diviene spesso il nostro rifugio. Diviene la fuga, lo sguardo, la vista. La voglia di vivere dinnanzi ad una non manifesta cecità.  In quanto, pur ciechi, tutti noi, almeno quando prestiamo attenzione alle scritture, sembriamo vedere. 
Ma dalla cecità, in realtà troppo spesso passiamo solo ad una forte miopia.  Raramente ci è concessa la vista.  Quando io , ed altri miei fratelli vi riusciamo, cerchiamo di nascosto a fratello – Eraclio – di coniugare la luce interiore con quella esteriore....

(Prosegue....)




















mercoledì 11 luglio 2018

IL TEMPO & LA MEMORIA (4)

















Precedenti capitoli:

Il Tempo & la Memoria (1)  (2)  (3)

Prosegue in:

Il Tempo & la Memoria (5)















…. Quando il 6 aprile 1252 frate Pietro da Verona si avvia verso Milano, non poteva immaginare che si stava incamminando verso la ‘santità’ e che la sua morte sarebbe stata un volano repressivo. Quando nel 1307 frate Lanfranco da Bergamo termina la stesura del suo ‘quaternus racionum’, mai avrebbe pensato che quel quaderno contabile, così disordinatamente pasticciato da numeri cancellati e riscritti, sarebbe diventato una delle fonti superstiti più preziose per lo studio dell’inquisizione: una fonte dalla vertiginosa ricchezza informativa. Quando nell’ottobre del 1303 il frate Predicatore Niccolò di Boccassio diventa Benedetto XI, non poteva prevedere che, nonostante la brevità del pontificato, la sua azione ai vertici della Chiesa sarebbe stata un capitolo importante per la storia dell’inquisizione..
Una santità antiereticale, la contabilità della repressione, un progetto di governo della Chiesa e di coercizione all’ortodossia: alcuni frati Predicatori sono i protagonisti di specifici contesti – assai diversi, anche per la produzione documentaria – che diventano pilastri tematici e tiranti problematici dell’architettura di questo libro… E’ evidente che non si è in procinto di leggere una sintesi di storia dell’inquisizione medievale, bensì una ricostruzione mirata di fatti (e effetti) in uno specifico spazio geocronico: una provincia italiana del nord percorsa dai frati Predicatori inquisitori negli anni che dall’azione di frate Pietro da Verona, e soprattutto dalla reattività della sua morte santa nel 1252, giungono all’esaltazione artistica della sua funzione storica quando è portata a termine l’arca dedicata a san Pietro martire nel 1337.
Attenzione prevalente è concentrata sul Duecento in quanto fase ancora dinamica del consolidamento dell’ ‘officium fidei’ che si definirà in forma stabile a partire dai primi decenni del secolo successivo. Le vicende della repressione in questa porzione di territorio italico sono state per lo più trascurate: non ne troviamo riferimento alcuno nelle più recenti e mediate rassegne storiografiche, nonostante che in quest’aria e in questi anni si manifesti un’importante produzione sia giudiziario-inquisitoriale sia polemistico-idelogica: un riferimento importante per la storia dell’inquisizione medievale in Italia (e non solo).




Apparentemente locali e di medio raggio, i contatti professionali e confessionali emergenti dalle note contabili di frate Lanfranco non si riducono ad una specie di microstoria, ma si dilatano a dimensioni di vertice illustrando il ruolo propulsivo dell’Ordine dei frati Predicatori in una doppia fortunata congiuntura: alla metà del XIII secolo con l’omicidio di frate Pietro da Verona, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del secolo seguente quando frate Niccolò da Boccassio da maestro dell’Ordine diventa papa Benedetto XI. E’ chiaro come l’inquisizione si ponga in un delicato punto d’intreccio tra diverse competenze specialistiche – religioso-istituzionali, politico-istituzionali, economico-finanziarie, giuridiche – nel passato, ma pure nel presente per chi accinga a studiarla: tale delicato intreccio deve essere affrontato per liberare l’involucro documentario da una astratta fragilità intrinseca e per offrire una realtà allargata e poliedrica al fine di chiarire a fondo il funzionamento di una macchina repressiva che, nella metà del Duecento, si caratterizza per dinamicità e duttilità.
Ciò palesa nuovi orizzonti e nuovi problemi lessicali: si dovrà scrivere ‘Inquisizione’ o ‘inquisizione’? Il termine minuscolo presente nelle pagine di questo libro dà ragione di una stagione di mobilità perpetua e di flessibilità adattativa, di progressiva acquisizione di spazi nelle istituzioni già esistenti (ecclesiastiche e civili), prima di diventare realtà giuridicamente strutturata. 


    
Nel settembre 1304 frate Lanfranco da Bergamo si reca a Milano. In occasione del capitolo provinciale dei frati Predicatori e a margine delle sedute, consegna 40 fiorini al confratello priore del convento di San’Eustorgio. Regolarmente la spesa viene registrata nel ‘liber racionum’, il libro che frate Lanfranco compila nel corso dei lunghi anni in cui è titolare dell’ ‘officium fidei’ di Pavia. L’esborso di 40 fiorini viene giustificato allegando al rendiconto la lettera che frate Giacomo da Bologna, vescovo di Mantova e familiaris di papa Benedetto XI, aveva inviato nel mese di febbraio dello stesso anno al frate Guido da Coccolato, priore provinciale di Lombardia. In essa il nome del pontefice, il vescovo Predicatore sollecitava il completamento del sepolcro monumentale del beato Pietro martire in costruzione presso il convento milanese, richiedendo un contributo di 200 fiorini ai frati inquisitori di Lombardia Guido da Coccolato, Tommaso da Como, Raniero da Pirovano e Lanfranco da Bergamo.
‘Volens obbedire dominio pape’, durante l’incontro capitolare frate Lanfranco consegna al priore milanese una parte dei fiorini richiesti. Il monumento funebre del martire inizia a prendere concreta forma architettonica nel 1297, durante il capitolo generale di Venezia, quando l’allora maestro generale frate Niccolò da Treviso aveva sollecitato la ricerca di aiuti finanziari per la costruzione dell’opera d’arte… Divenuto Benedetto XI, egli insiste richiedendo aiuti anche agli inquisitori dell’ officium fidei’ per commissionare l’opera….
Passeranno circa trent’anni prima che l’artista e scultore Giovanni di Balduccio da Pisa sia chiamato a Milano per realizzare in Sant’Eustorgio un’opera in forma e materia simile alla ‘structura solempnis’ che Nicola Pisano nel 1267 aveva terminato per san Domenico nella omonima chiesa bolognese. Gli inquisitori collaboreranno, seppur tardivamente, anche al compimento di questo progetto…. All’anno 1317, nei libri contabili di frate Corrado da Camerino, ‘inquisitor haereticae pravitatis’ a Ferrara, Modena e Reggio, leggiamo che alcuni di loro avevano versato 10 lire bolognesi per l’opera a celebrazione perpetua di san Domenico….

(M. Benedetti, Inquisitori lombardi del Duecento)
























 






Mi vide tremare,
di fronte alle porte
di uno sperduto altare.
Non conosce la morte,
né il paradiso o l’inferno.
Un corpo calato nella fossa
profonda,
forse solo un mausoleo…
nominato tomba.
Perché non v’è dimora 
per un anima…,
e l’infinita sua ora. (26)

Tanti toccano la bara onorano
la salma,
chiedono il miracolo domandano
perdono,
mostrano la lacrima
per chi non farà più ritorno.
Hanno barattato la donna
con un santo devoto e orgoglioso.
Non conosce l’amore
solo castità nominata dolore.
Non conosce desiderio di vita,
solo penitenza che mortifica
il corpo.
Perché il suo sogno…
non è mai nato,
nella difficile semina..,
di un diverso racconto. (27)      

Ora pregano la speranza
di un mondo migliore:
l’osso di un santo guarisce
la vita,
e un popolo in attesa di una fine
peggiore.
Mentre fuori muore l’intero mondo… 
di dolore. (28)

Chi confuse la verità
con una antica superstizione,
chi confuse l’inganno
con nuovo dolore.
La bara, la fossa, e l’intero
mausoleo,
e la grande chiesa sopra
al tempio,
custodiscono il silenzio
e il ricordo…
di un corpo morto,
giammai l’anima di un sogno
mai raccolto. (29)

Ora la preghiera dona denari
alla santa congrega… ,
sopra la tomba di una dèa (nostra amata Natura).
Sogno di un Primo Dio disceso
nella materia,
mai seminato in questo
strato di terra.
Denari tesoro e l’intero raccolto,
per illudere con il miracolo
l’intero volgo.
Volgo che prega una strana
preghiera,
lenta cantilena cancella
il ricordo.
Una stella e la sua dèa
mi donarono la parola
una fredda mattina.
Vicino ad un orto
ed a uno strano
volto:
maschera e ombra d’un regno
mai morto. (30)

Chi chiede la vista
per un occhio
che non vuol più vedere
tutte queste pene.
Chi di alleviare le piaghe
di una crosta di pelle
già decrepita e morente,
per le troppe ulcere
donate da un male banale,
e figlio di una guerra
ché il mio vero sogno
è smarrito…
in questa loro eterna preghiera. (31) 

Eterno parto di una terra
che non conosce tregua:
amore senza pane
e con troppa fame. ( 32)

Chi chiede di camminar retti
per la via,
che la gamba ha perso un giorno
quando la vita gli fu restituita.
Freddo di rancore
quando l’ascia l’ha amputata
per un poco di pena donata,
e per il troppo odio…
in nome d’un Cristo risorto.
Con l’elmo e la spada
comanda la mia nuova
preghiera,
scordando per sempre la vera
rima dentro ad una chiesa.
Ed ora fuori a quella,
prego la mia nuova cantilena. (33)  

Chi la febbre del fanciullo,
che lo lascia muto e senza parola,
con il viso idiota.
Domanda e implora una cura
nuova
per il male che divora.
Chi un solo tozzo di pane
per alleviare la fame.
Chi l’ulcera d’una malattia
che si nutre della zolla rigogliosa,
prega come me
la Madre della terra,
affinché l’antica promessa
cresca ancora…,
nella poesia della mia Rima. (34)

Chi un riparo dal giorno e la notte
per non morir massacrati di botte,
per poi essere dimenticati nella fossa
senza neppure un nome sulle ossa.
Chi non vuol sentir carestia,
e chi dolore che lentamente
porta via.
Chiude gli occhi e muore
dentro una grotta….
in nome di un’anima risorta.
Chi un soldo per un bicchiere
di vino,
che la vita ha confuso lungo
il cammino.
Chi una moneta per l’infante
magro più della carestia,
che pian piano lo trascina via.
Chi un fuoco di legna,
per scaldare la zolla dove
senza tetto riposa.
Chi un indulgenza
alla sottana del prete,
perché ora geme assieme
alle sue preghiere.
Dopo aver sacrificato
l’anima mia,
fin dentro la sacrestia. (35)

Per un tozzo di pane
in nome della sola fame,
che trascina più in basso
del letame.
E della nuda terra
ne fa solo nutrimento,
e a noi non rimane
che la sua preghiera
e l’eterno suo tormento.
Pasto di un prelato
e il suo grande sovrano,
fieri del loro regno
in questo sogno indegno. (36) 

Questa la triste visione
di una stella mai morta
e per sempre risorta.
Nel miracolo della creazione,
illumina il cielo
quale eterna visione,
di un diverso Creatore…
….Ed i suoi poveri perfetti
senza neppure un nome….
sotto questo sole. (37)

Nella sacra dottrina
la vera fede è solo
eresia,
perché il pane della vita
dividiamo con il Primo Dio. 
Mentre la fede pregata
nella chiesa,
chiusa nell’ortodossia
della vita,
chiede obbedienza e amore,
contraccambiato con terrore
per il resto delle ore.
Ad un Secondo Dio
confuso nel dolore. (38)


Vendo ancora e per sempre
la stessa parola,
ora quotata anche in borsa.
Ho accesso alle segrete stanze
del potere talare,
posso contare sulla compiacenza
tradotta da questa storia antica 
in complicità segretezza
e discrezione…,
di una banca antica.
Non deve rendere di conto
né ad una strega né ad una zingara,
né ad un pazzo che scava la terra
e si crede… anche profeta.  (3)

Son re d’ una diversa dinastia
con il compito di conservare…
memoria:
è dono di gloria  
privata della cattiva coscienza
assente alla vera parola….
perché son padrone della storia. (4) 

Inquisitore dell’eretica parola
ogni sera e ogni mattina,
come una Natura per sempre
sconosciuta,
da noi nominata solo Eresia.
Non conosce parola e scrittura,
ricchezza infinita della mia dinastia.
Cognome composto e celebrato
su ogni libro di questo grande creato.
Narrano di un mondo senza peccato,
letto custodito e interpretato
nella grande biblioteca vicino
al sacrato.
E da noi sempre celato
per questa Genesi satura
di ogni innominato peccato.
Cui noi accogliamo l’anima malata
entro la sicura ortodossia,
e curata nella vera parola
prigioniera della loro strana
menzogna….,
chiusa nell’eterno peccato.
Che non sia mai narrato
per questo sacrato!  
Dopo l’immensa sacrestia
che arreda la grande storia
della sacra Dottrina. (5)

Ne orna l’unica e sola memoria:
Stato antico nominato Pontificio,
simbolo araldico di un grande prelato
eletto quale grande e unico sovrano.
Solo per caso cinge corona di Papa,
pur essendo peggio di qualsiasi
monarca,
da lui solo inventato nel nobile
e fiero Creato.
Per nostra salvezza
è re e padrone di questa
grande terra.
E custode del potere immacolato. 
La nobiltà si inginocchia
e prega parola,
un uomo prezioso quanto
il grande quadro ammirato.
Orna la grande cappella
col viso affranto e umiliato
per ogni loro peccato.
Ma il nobile prega il valore
della tela,
questo è il suo vero mercato. (6)

Con lui il marmo decorato
sulla piazza,
ove con lo sguardo schifato
immoliamo e puniamo
il peccato già nominato.
Se gli occhi del disgraziato sacrificato
sono uguali a quelli del quadro…,
non datemene colpa.
L’idea mi viene quando brucio
ogni eretico
per vedere stessa pena,
…perché il popolo allieta.
Questa è l’arte mia segreta
non andate di fretta.
Commissionata ad ogni artista
che non vuol fare ugual fine
nel quadro della storia,
perché narra il mio ardire
e sposa la vera fede
con la sacra memoria.    
Così la tela per mano del pittore
dona la luce alla vista assopita
di un diverso ricordo.
Ora ammira in alto sul soffitto
dipinto l’intero paradiso,
memoria di un rogo
che l’ha appena ucciso.
È  l’Abbazia della storia,
io ne curo arte e architettura
…specchio della vera Parola. (7)

Sono il muratore della segreta
Loggia…
….scontate ogni mia colpa
popolo che in nome mio…
prega e lavora..
Il mio araldo è borsa e vita,
non va a braccetto con quella
lurida rima,
con quella strega o zingara
che sia.
Neppure con una bestia feroce,
o altra maledetta idiozia.
Sono io mercato e denari,
padrone della storia
e di ogni dottrina,
perché orna pensiero e mistero
di ogni sogno taciuto e soppresso
….per questo mio Regno. (8)

(G. Lazzari, Frammenti in Rima, Il Primo Dio - secondo dialogo - fr. 25/38;
 Dialogo con il nobile che vende parola - fr. 3/8)

(Prosegue...)