giuliano

venerdì 29 ottobre 2021

VADEMECUM (ad uso dei GRANDI) (2)

 





















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D'un intermezzo dei Cesari (1)


Prosegue con il...:


Il libro completo


& con la Rivoluzione pre-industriale (1/10)


& con i:



 







Morti senza Santi


& 'Nessuno' mi vuole ammazzare (12)









Se ne faccia tesoro, in quanto nei Secoli immutata, sia la sporcizia quanto la scopa ammirata, la quale osservo in profondo meditato ispirato ugual sentimento, e s’intenda bene di non - fraintendere e/o utilizzare - ugual intento rivolto alla futura fraudolenta verità domestica votata alla politica, e di cui ogni governante assunta (o maggiordomo che sia) ci pone ingiustamente all’ombra dell’eterna berlina, oppure ed ancor meglio, conservata bituminosa menzogna; le ragioni del progresso ci daranno e conferiranno indiscusso merito, nella taciuta differenza fra un governante e la sua scopa…




Questo stesso bastone, che ora vedete ingloriosamente trascurato in quell’angolo remoto, l’ho conosciuto una volta in tutto il suo splendore, in una foresta: era pieno di linfa, ricco di foglie, rigoglioso di rami. Le operose arti dell’uomo pretendono invano di competere con la natura, legando un fascio di saggina secca al suo tronco senza vita; al massimo, ora non è che l’opposto di ciò che fu: un albero capovolto, la chioma sulla terra e le radici in aria.

 

Ora non è che lo strumento di qualche rozza domestica, costretto a far per lei i lavori più ingrati; e un fato capriccioso ha decretato la sua sorte: far pulito intorno a sé e restar sporco lui stesso. Alla fine, ridotto a un moncone al servizio delle donne, viene messo alla porta o condannato al suo ultimo servizio: attizzare un fuoco.




Di fronte a tutto ciò sospirai, e dentro di me dissi:

 

‘L’uomo mortale è di certo un manico di scopa!’.

 

Madre Natura lo manda nel mondo forte e vigoroso, rigoglioso, con tutti i capelli in testa: con una chioma appropriata a una pianta assennata; fino a quando la scure degli eccessi ne mozza i verdi rami e lo riduce a un tronco rinsecchito. Lui allora ricorre all’arte: si mette una parrucca e finisce col sopravvalutare quel suo ciuffo di capelli artificiali, tutti polverosi, che di certo non sono mai spuntati dal suo capo.




Se ora questo manico di scopa pretendesse di entrare in scena, tutto fiero per delle fronde che non ha mai generato, tutto ricoperto di polvere, fosse anche della camera della più bella tra le signore, noi saremmo pronti a ridicolizzarlo, a disprezzarne la vanità!

 

Noi, i giudici parziali dei nostri pregi e dei difetti altrui!

 

Ma si dirà, forse un manico di scopa è l’emblema di un albero seduto sulla sua testa; e di grazia, cos’è l’uomo se non una creatura capovolta, i cui istinti animali soverchiano da sempre quelli razionali, con la testa al posto dei calcagni, che striscia per terra?


 

Eppure, con tutti i suoi difetti, egli si pone a riformatore universale e correttore del vizio, un risolutore efficace di ogni contesa. Fruga in ogni lurido angolo della natura svelando corruzioni prima nascoste, sollevando polveroni dove prima non ce n’erano; e tutto questo, facendo profondamente parte di tutto il sudiciume che pretende di spazzar via. Passa i suoi ultimi giorni schiavo delle donne, di solito quelle che meritano meno. E alla fine, esausto come un manico di sua sorella scopa, vien buttato fuori dall’uscio, o usato per alimentare fiamme alle quali altri si riscalderanno.




È ora in stampa un’opera curiosa, intitolata

 

– ossia L’arte della menzogna politica – composto di due volumi finemente rilegati.

 

Le proposte sono:

 

I. Se l’Autore incontra un adeguato incoraggiamento, intende consegnare il primo volume ai sottoscrittori entro il prossimo gennaio, ovvero, quando nello scrivere l’Opera completa, la stessa sarà morta & sepolta. A questo punto non potremmo che rimetterla all’approssimato giudizio d’una diversa esistenza, nel frattempo però, vedremmo l’alba o il tramonto donde ispirato sentimento e da cui l’Opera detta, agonizzare fra Natura e Uomo implorare clemenza. L’opera sarà completamente riveduta e posta all’oblio dell’Indice, all’autore sarà consigliato di adeguarsi allo Spirito del proprio Tempo, ovviamente senza Opera alcuna cantarne la dismessa Memoria sepolta.    




II. Per tutta la durata dello stesso gli Editori, ovvero quando il Tempo sarà giunto all’ultimo capitolo, consigliano il prezzo di entrambi i volumi sarà per i sottoscrittori e/o i sopravvissuti, di quattordici scellini, dell’intero intervallo del Tempo disquisito ovvero prima della inaspettata morte, di cui sette da pagare subito e gli altri sette alla consegna del secondo volume.

 

III. Quelli che sottoscriveranno l’acquisto di sei copie, avranno la settima gratis; offerta che riduce il prezzo a circa sei scellini per volume.

 

IV. I sottoscrittori avranno il loro nome e luogo di residenza stampato per esteso.

 

Per incoraggiare il sostegno di un’opera così utile, si è pensato che il pubblico debba essere informato del contenuto del primo volume da uno che abbia letto con attenzione l’intero manoscritto.

 

L’arte della menzogna politica.







giovedì 21 ottobre 2021

IL SEGUGIO MECCANICO (2)



















































Precedente capitolo:



Prosegue ancora con il:






& il Linguaggio politico (6)  &  (7)













....Montag lo toccò sulla punta del muso.
Il Segugio ringhiò.
Montag fece un salto indietro.
Il Segugio si levò a metà, dentro il canile, e lo guardò con
una luce verdazzurra al neon accesasi nei globi oculari bru-
scamente attivatisi.




Ringhiò ancora, strana combinazione rauca di uno sfrigolio
elettrico, di un crepitio, un grattamento metallico, un girar
di ruote dentate che si sarebbero dette arruginite dalla dif-
fidenza.
- Buono, buono, amico,
disse Montag, col cuore in tumulto.




Vide l'ago argenteo sporgere per un buon quarto della
sua lunghezza, rientrare, sporgere di nuovo, rientrare.
Il ringhio affondò nell'interno della belva, più bestia che....
belva, e poi lo guardò....
Montag indietreggiò.
Il Segugio uscì di un passo dal canile.
Montag si afferrò con una mano al palo di bronzo.....




Il palo, reagendo, scivolò verso l'alto, sollevandolo fin oltre
il soffitto, silenziosamente.
Egli si staccò dal palo sulla piattaforma in penombra dell'-
ultimo piano.
Tremava tutto e la sua faccia era livida.
Sotto, il Segugio s'era afflosciato sulle sue otto incredibili
zampe da insetto e mormorava tra sé, gli sfaccettati occhi
in pace.




Montag rimase in attesa di guarire delle sue paure presso
la buca di discesa.
Alle sue spalle, quattro uomini seduti a un tavolino da gioco
sotto un paralume verde nell'angolo gli lanciarono delle oc-
chiate fuggevoli, ma non dissero nulla.
Soltanto l'uomo che aveva il berretto da capitano e il simbo-
lo della fenice sul berretto, alla fine, incuriosito, le carte nel-
la mano sottile, gli gridò dal fondo della lunga sala:




- Montag...? Proprio tu Montag... l'inglese, volevi fare delle
foto...? .... Io sono l'evaso Montag.... ti è piaciuto lo spetta-
colo....
Montag fece finta di non capire...
- Non gli garbo,
disse Montag.
- A chi, al Segugio?
Il capitano studio le sue carte.
- Smettila! Non è che gli garbi o non gli garbi questo o quello;
'funziona', ecco tutto.




E' come una lezione di balistica.
Ha una traiettoria, che noi scegliamo per lui, non visti ci curi-
amo anche dell'imprevisto aspetto pubblicitario da scoop... ti
è piaciuto... Montag?
... E lui la segue fino in fondo, raggiunge da sé il bersaglio, tor-
na da sé alla base e si smonta da sé.
Non è che un ammasso di fili di rame, di batterie e di elettricità.




Montag inghiottì....
- I suoi meccanismi calcolatori possono essere fissati a qualun-
que combinazione, tanti aminoacidi, tanto zolfo, tanti grassi e
sostanze alcaline. Giusto?
- Certo...
- 'Tutti questi equilibri chimici, queste percentuali e proporzioni
organiche in ognuno di noi qui della Caserma del Fuoco sono
registrati nell'ufficio matricola ai piani bassi.
Sarebbe facile a qualcuno provocare una combinazione parzia-
le della 'memoria' del Segugio, un pizzico di aminoacidi, forse.




Ciò spiegherebbe perché il Segugio si è condotto in un certo
modo poco fa: ha reagito contro di me..'.
- Diavolo,
disse il capitano.
- Irritato, ma non precisamente inferocito. Solo un 'ricordo'
inserito nel Segugio da qualcuno, un ricordo sufficiente a far-
lo ringhiare a una mia carezza.
- Chi vuoi che faccia una cosa simile?,
domandò il capitano.
- Tu non hai nemici qui, Guy.




- Nessuno che io sappia.
- Domani faremo fare ai nostri tecnici un controllo del Segu-
gio.
- Ma questa non è la prima volta che il Segugio mi minaccia,
riprese Montag.
- Il mese scorso un fatto simile si è ripetuto due volte.
- Provvederemo vedrai. Non prendertela.
Ma Montag non si mosse, rimase a pensare alla grata dell'-
impianto d'aerazione, nell'anticamera della sua casa, e a ciò
che stava nascosto dietro alla grata (un libro tutto in rima ...
che il Segugio forse cercava...). Se qualcuno della Caserma
avesse saputo di quella grata, chi poteva impedirgli di 'dirlo'
al Segugio?




Il capitano gli si avvicinò presso la buca di discesa e lanciò
a Montag un'occhiata interrogativa.
- Mi stavo domandando,
disse Montag,
- Che cosa pensa il Segugio la notte, laggiù sotto i suoi gran-
di cieli.... I nostri rapporti lo rendono per caso veramente o-
stile? Mi vien freddo, quando ci penso....
- Il Segugio non pensa nulla che non vogliamo...
- E questo mi rattrista,
ribatté Montag con calma,
- perché tutto quello a cui lo abbiamo condizionato a pensa-
re è la caccia, la scoperta della vittima e la sua uccisione...




Che vergogna se questo sarà tutto quanto avrà mai pensato!
Beatty ebbe un lieve sogghigno (mentre si aggiustava l'ultimo
cappellino alla moda 'vittoriano' davanti allo specchio...), qua-
si affettuoso:
- Diamine, ma il Segugio rappresenta un trionfo della tecnica,
un buon fucile che raggiunge da sé il bersaglio e ti garantisce
ogni volta di fare centro.....

(R. Bradbury, Fahrenheit 451)













mercoledì 20 ottobre 2021

LA TERZA RIVOLUZIONE (industriale), ovvero, LA REALTA' DEI FATTI (4)

 










Precedenti capitoli:


I due linguaggi [1/3]


Prosegue con:


La realtà dei fatti (l'articolo completo) (5)


& il Linguaggio politico (6/7)


& La grande Rivoluzione Industriale (8)









Come si vede, il comune denominatore delle posizioni dei rappresentanti delle lobby delle plastiche è che il problema dei ‘marine litter’, e in generale degli scarti della plastica, non è riconducibile ai prodotti monouso, quindi non si possono colpevolizzare i produttori. Gli unici veri responsabili sono i consumatori che riciclano male i rifiuti e le amministrazioni pubbliche che non sono in grado di gestire la filiera dello smaltimento degli stessi correttamente. In più, mancano i dati scientifici che attestino il reale impatto ambientale.




 È un copione già visto in altre situazioni, quando osservazioni scientifiche o misure legislative si muovono per tutelare l’ambiente e i consumatori al fine di limitare o mitigare attività dannose delle grandi industrie. La storia della scienza ne ha registrate già tante. Noto è il caso della biologa Rachel Carson, che con il suo capolavoro Primavera silenziosa, pubblicato nel 1962, denunciò i danni dell’uso del diclorodifeniltricloroetano, noto come DDT, e altri pesticidi. Subì ingiurie, derisioni, minacce e falsità da parte degli industriali del tempo. Nel 1972 il DDT fu messo al bando. Stesso atteggiamento fu riservato ai ricercatori e agli scienziati che misero sotto accusa l’industria del tabacco. E da almeno quasi trent’anni la stessa sorte la subiscono i ricercatori che si occupano di cambiamenti climatici e che portano avanti le ricerche sulle cause di origine antropica. Oggi il mondo scientifico e le ricerche concordano quasi univocamente, circa il 97%, che il cambiamento climatico in atto sia dovuto a 200 anni d’impatto antropico causato dall’uso dei combustibili fossili.




 I grandi colossi della plastica non sono certo un’eccezione rispetto a un meccanismo che l’industria di ogni settore adotta per resistere al cambiamento del proprio sistema produttivo: ossia insinuare il dubbio della correttezza scientifica dei dati e addossare la colpa della gestione a terzi.

 

Non è difficile neanche comprenderne i motivi.

 

Il settore della plastica si regge sull’alleanza con le grandi industrie petrolifere e le due famiglie di multinazionali convergono con forti interessi nel campo della lavorazione dei polimeri. Consideriamo che la maggior parte delle industrie di materiali plastici è in comproprietà con le grandi industrie petrolchimiche: la DowDuPont, l’ExxonMobil, la Shell, la Chevron, la Bp e, in Italia, l’Eni. Il mercato della plastica globale per il 2020 è valutato circa 654,38 miliardi di dollari e nel 2050 la quota d’idrocarburi dedicata alla plastica toccherà il 20%, contro il 6% del 2014.

 

Numeri impressionanti.




Oggi questi produttori si sono insinuati in ogni settore dell’economia e intendono difendere i loro privilegi con tutti i mezzi, che si tratti di pressioni lobbistiche o aggressive campagne di comunicazione. Detto in parole povere, il lobbismo della plastica e quello petrolifero lavorano insieme, per il semplice motivo che maneggiano insieme lo stesso prodotto di partenza.

 

Poco importa se i dati scientifici ci dicono che la maggior parte dei rifiuti plastici presenti in mare siano originati dal monouso. Poco importa che l’OCSE abbia stimato che i danni dell’impatto delle plastiche si aggiri sui 13 miliardi di dollari l’anno, oppure che il trattamento delle plastiche comporti emissione di gas serra dalla nascita allo smaltimento, o ancora che la quota di plastica riciclata in tutto il mondo sia bassa, circa il 15%, e il residuo conferito in discarica, incenerito o abbandonato nell’ambiente, alto.




È difficile comprendere come si possa pretendere dal consumatore finale una maggior consapevolezza sul minor utilizzo della plastica se poi il mercato non offre valide alternative. Inoltre scaricare i costi gestionali per la raccolta, la separazione e la suddivisione solo ed esclusivamente sulle amministrazioni pubbliche è una vecchia tecnica usata già in altri ambiti industriali per non prendersi le responsabilità degli altissimi costi occulti della produzione della plastica. Recuperare ha un costo molto elevato, come pure rigenerare, suddividere e riciclare infinite materie plastiche. Di fatto a oggi il recupero ambientale si riversa su soggetti terzi, quasi sempre pubblici, e tutto ciò ha un costo che si paga con le tasse.

 

Tutti costi esorbitanti celati all’acquisto di cui nessuno, soprattutto i produttori, vuol farsi carico.

 

Per questo la Responsabilità estesa del produttore è la strada maestra su cui si deve lavorare. Se le materie di partenza non sono abbastanza uniformi da essere rilavorate in maniera più semplice, il problema non è del consumatore.




La gestione della plastica deve essere scevra da idealizzazioni, soprattutto da parte degli interessi economici.

 

I rappresentanti delle varie federazioni europee produttrici di plastica hanno anche risposto alle critiche sostenendo che quasi l’80% dei rifiuti plastici che finiscono in mare provengono dai paesi asiatici e solo circa l’1% dall’Europa. I più grandi responsabili dello sversamento di plastica in mare sono i dieci principali fiumi del mondo, di cui otto asiatici. Quanto agli stati, uno studio pubblicato su Science nel febbraio 2015 mostra come siano cinque i paesi responsabili della quota maggiore di plastica scaricata in mare, e tutti dell’estremo Oriente: la Cina, con oltre 3,5 milioni di tonnellate riversate ogni anno in mare, l’Indonesia con quasi 1,3 milioni, e a seguire Filippine, Vietnam e Sri Lanka. Questi paesi sono responsabili di circa il 60% di tutta la plastica oceanica. Seguono poi Thailandia, Egitto, Malesia, Nigeria e Bangladesh.




La maggior parte di questi paesi non ha una gestione dei rifiuti adeguata, altri sono caratterizzati dalla presenza degli slum, sui quali si alzano montagne di rifiuti. Per molti di questi paesi la povertà è un fatto cronico e la plastica permette di accedere a mezzi di sostentamento economicamente più sostenibili. E, come già visto, alla produzione di plastica locale vanno aggiunti i rifiuti di plastica del mondo occidentale leciti e illeciti. Se è vero che i fiumi asiatici sono i maggiori vettori di plastica nei mari, come insistono i produttori, è altrettanto vero che tale affermazione trova una contradizione quando si vedono il letto del Po in secca coperto di rifiuti plastici e il Sarno convogliare una quantità enorme di plastica verso le acque costiere campane.




Abbiamo esportato un modello di consumo, socialmente ed economicamente accettato in Occidente, verso paesi che alla fine risultano impreparati e non in grado di gestire lo stesso sistema di produzione. I rifiuti ne sono una conseguenza. Il fatto che le multinazionali incolpino i paesi asiatici di essere gli inquinatori per ovvie mancanze strutturali pubbliche e politiche diventa una forma di discriminazione ambientale. Ma è anche un alibi per proseguire nell’attuale sistema di produzione e consumo. Il consumatore paga le tasse gestionali, l’ambiente paga le conseguenze e il produttore guadagna senza farsi carico di costi esternalizzati ma continua ad alimentare il desiderio di acquistare oggetti.

 

Siamo noi consumatori il loro oggetto del desiderio e per restare tali è bene che intorno a questo sistema globale che ruota intorno alla plastica permanga una cortina di confusione e un pantano in cui ogni azione decisiva sia rallentata.




Del resto basti pensare che se dovessimo liberarci dall’obsolescenza programmata, per esempio degli elettrodomestici, ormai anch’essi alla stregua dell’usa e getta, il sistema irrazionale cadrebbe. E lo stesso vale per la plastica.

 

Per questo la gestione del problema plastica deve essere scevra da idealizzazioni, da tutte le parti, ma è pur vero che finché si tutelano solo i profitti non si tutela la società. Nella plusvalenza deve essere contabilizzato il pianeta. Non si possono più esternalizzare i danni e le responsabilità sia al privato cittadino sia alla società presente e soprattutto a quella futura, perché a lungo andare ne risentirà anche il mercato futuro.

 

(S. Greco)


[prosegue con l'articolo completo]









domenica 17 ottobre 2021

LA CONVERSAZIONE DEI CANI (Seconda Parte)

 
























Precedenti capitoli:


Cogito Ergo Sum (Prima parte)








 

BERGANZA. Grazie, amico Scipione, perché se non mi avvisavi, tanto mi andavo infervorando a dire che non mi sarei fermato finché non ti avessi esposto un libro intero, di quelli che mi tenevano in inganno. Ma verrà tempo che potrò dir tutto con migliori ragioni e con miglior procedimento d’ora.

 

SCIPIONE. Guardati un po’ ai piedi e disfarai l’arcolaio Berganza; voglio dire che tu rifletta che sei un animale privo di ragione e che, se ora mostri averne un po’, siamo rimasti tutti e due d’accordo essere cosa soprannaturale e non mai veduta.

 

BERGANZA. Così sarebbe se io stessi nell’ignoranza di prima; ma ora che m’è venuto a mente quel che avrei dovuto dire al principio della nostra conversazione, non soltanto non mi maraviglio del mio parlare, ma sono stupito di quello che tralascio di dire.

 

SCIPIONE. Ma allora, non puoi dire quello di cui adesso ti ricordi.




BERGANZA. È una certa avventura che mi accadde con una gran fattucchiera, discepola della Camaccia di Montiglia.

 

SCIPIONE. Voglio che me la racconti prima che tu vada avanti nel racconto della tua vita.

 

BERGANZA. No davvero, finché non sia tempo. Abbi pazienza e ascolta, per ordine come mi sono accaduti, i miei casi, ché così ne avrai più piacere; se pure il desiderio di conoscere quei di mezzo prima di quei di cima, non ti sia molesto.

 

SCIPIONE. Sii breve e racconta quel che vuoi e come vuoi.




BERGANZA. Dico dunque che io mi trovavo bene con l’ufficio di guardiano del gregge, parendomi di mangiare il pane dei miei sudori e delle mie fatiche, e che l’ozio, causa e padre di tutti i vizi non avesse a che fare con me, perché riposavo il giorno; non dormivo la notte, dovendo stare all’erta per gli assalti che ogni poco ci davano i lupi. E appena i pastori mi avevano detto: al lupo, Rossino! io correvo prima degli altri cani verso dove m’indicavano che c’era il lupo. Mi davo a correre per le valli, frugacchiavo per i monti, penetravo nei boschi, saltavo botri, attraversavo strade e la mattina facevo ritorno al branco senza aver trovato del lupo neppur la traccia, ansimante, sfinito che cascavo a pezzi, con i piedi spaccati dai rovi; e nel branco trovavo ora una pecora uccisa ora un montone sgozzato e mangiato mezzo dal lupo. Io mi disperavo nel vedere quanto poco servisse il mio tanto zelo la mia tanta diligenza. Capitava il padrone del gregge: i pastori gli uscivano incontro con la pelle della bestia uccisa: lui incolpava di trascuratezza i pastori e ordinava di castigare i cani come poltroni. Sopra di noi piovevano legnate e sopra di loro rimproveri. Perciò un giorno che mi vidi castigato senza aver colpa, e che la mia attenzione, sveltezza e bravura non giovavano a cogliere il lupo, mi decisi a cambiare modo, non più stancandomi per cercarlo, com’ero solito, lontano dal gregge, ma tenermi sempre vicino a questo. Poiché li veniva il lupo, lì più sicuro sarebbe stato il prenderlo.



 

Ogni settimana si dava un allarme; e una notte scura scura, pure riuscii a scorgere i lupi da cui il gregge non avrebbe potuto guardarsi. Io mi accovacciai dietro un cespuglio; i cani, miei compagni, passarono oltre; spiando di lì, vidi che due pastori, agguantato un montone, fra i migliori dell’ovile, l’ammazzarono sì che la mattina sembrò che davvero il lupo fosse stato il carnefice. Gran sorpresa fu la mia, stupefatto al vedere che i lupi erano i pastori e che quegli stessi sbranavano la mandria i quali avrebbero dovuto guardarla. Al loro padrone facevano subito sapere che il lupo aveva predato, gli davano la pelle e parte della carne; essi poi se ne mangiavano il più e il meglio. Il padrone, da capo a rimproverarli, e da capo anche il castigo ai cani. Lupi non ce n’era e il branco scemava! Avrei ben voluto svelare la cosa, ma non avevo la favella; e tutto questo intanto mi riempiva di maraviglia e di amarezza.




‘Dio buono! dicevo fra me; chi potrà metterci riparo a questa iniquità? Chi sarà capace di far comprendere che il difensore è che offende, che le sentinelle dormono, che la fiducia è ladra e che colui che vi bada è quello che ammazza?’.

 

SCIPIONE. E benissimo tu dicevi, Berganza, giacché non c’è ladro peggiore e più furbo del servo. Così è che ne va in rovina più di quei che si fidano che di quei che han prudenza. Ma il male è che è impossibile viver bene nel mondo se non ci si fida e affida. Di questo però basta, ché non voglio che ci abbiano a prendere per predicatori. Seguita.



 

BERGANZA. Proprio così, tutto. Continuando ora il mio racconto, ti so dire che i miei padroni ebbero piacere che io portassi sempre il vademecum; il che io feci  molto volentieri, dovendo a questo se io conducevo una vita da re e anche meglio; perché era una vita riposata, avendo preso gli scolari a scherzare con me ed essermi io familiarizzato con loro talmente che mi mettevano la mano in bocca e i più piccini mi montavano addosso: gettavano in aria berrettini o cappelli e io glieli riconsegnavo pulitamente e con segni di grande soddisfazione. Presero a darmi da mangiare quanto potevano darmi, e godevano a vedere che quando mi davano noci o nocciole io le spaccavo come fa la bertuccia, lasciando i gusci e mangiando il gheriglio. Ci fu uno che per mettere alla prova la mia capacità mi portò in un fazzoletto una buona quantità d’insalata, e io la mangiai come un uomo. D’inverno quando in Siviglia costumano panini di fiore e schiacciatine col burro, me ne regalavano tanti che si impegnarono e vendettero ben più di due calepini per farmi far colazione. Insomma io vivevo da studente, ma senza la fame e senza la rogna, che è quanto più si possa dire per significare che era buona vita; perché, se la rogna e la fame non fossero tanto tutt’una cosa con gli scolari, fra le tante condizioni di vita non ce ne sarebbe un’altra di maggior godimento e spasso, ché in essa la virtù e il piacere vanno di pari passo, e la giovinezza trascorre nell’imparare e nel divertirsi.




Da questa beatitudine e da questa pace mi venne a sbalzare una gran dama chiamata, mi pare, da queste parti ‘Ragion di stato’, ragione che a contentarla bisogna scontentare molte altre ragioni. Vale a dire, a quei signori maestri sembrò che quella mezz’ora, fra una lezione e l’altra, gli scolari la occupassero non nel ripassare le lezioni, ma a divertirsi con me; perciò comandarono ai miei padroni di non portarmi più alla scuola. Ubbidienti, essi mi fecero tornare a casa, a far la guardia, come prima, alla porta; e senza più rammentarsi il mio vecchio signore della grazia concessami, di poter andare sciolto di giorno e di notte, ritornai a rimettere il collo alla catena e il corpo su una piccola stoia che mi stesero dietro la porta.

 

Ah! amico Scipione, com’è duro sopportare il passaggio da una condizione di felicità a una d’infelicità! Vedi: quando le miserie e le disgrazie sono una gonfia fiumana ininterrotta, o finiscono presto con la morte, oppure, continuate, ci si fa l’abitudine e ci si avvezza a sopportarle, il che suol alleggerire la maggiore loro asprezza; ma quando uscito, all’impensata e d’un tratto, da una condizione disgraziata e sventurata per goderne un’altra prospera, fortunata e di gioia, poi di lì a poco ritorni a soffrire la sorte di prima e gli affanni e le disdette di prima, è un dolore così acerbo che se non fa morire è per dare maggior tormento facendoti vivere. In una parola, tornai alla mia razione da cane e agli ossi che mi gettava una mora della casa e che due gatti romani mi riducevano, perché, sciolti e svelti come sono, era facile per essi portarmi via quel che non cadeva dentro il termine dove arrivava la mia catena. Caro Scipione, il cielo ti conceda il bene che desideri, ma, senza che tu t’inquieti, lasciami ora filosofare un po’, perché se tralasciassi di dire le cose che in questo momento mi son venute alla mente fra quelle che allora mi accaddero, mi parrebbe che il mio racconto non sarebbe completo né utile punto.




SCIPIONE. Bada, Berganza, che non sia tentazione del demonio questa voglia che dici esserti venuta di filosofare. La maldicenza infatti non ha miglior velo per palliare e ricoprire la sua sfrenata malignità che darsi a credere chi mormora che tutto quanto dice son sentenze di filosofi e che il dir male è un rimproverare, che lo scoprire i difetti degli altri è giusto zelo, mentre nessun maldicente, se ne consideri e ne scruti la vita, troverai che non sia pieno di vizi e presunzione. E ora, premesso questo, filosofa quanto ti pare.

 

BERGANZA. Puoi star sicuro, Scipione, che non mormoro più; ne ho fatto proponimento. Or bene, siccome me ne stavo tutto il giorno in ozio, e l’ozio genera le riflessioni, ecco ripassarmi per la mente certi detti latini che mi erano rimasti impressi fra i tanti che avevo sentito quando andavo con i miei padroni a scuola: detti latini con i quali, a mio credere, mi ritrovai un po’ meglio d’intelligenza, sì che decisi, quasi sapessi parlare, di giovarmene nelle occasioni che mi si dessero in modo però diverso da come certi ignoranti sogliono giovarsene. Ci son di quelli che, parlando in volgare spagnolo, buttan là nel discorso, di tanto in tanto, qualche motto latino breve e concettoso, dando ad intendere a chi non lo sa il latino, di essere solenni latinisti; e sì e no che sanno declinare un nome e coniugare un verbo.




SCIPIONE. Meno male, secondo me, questo che non quello di coloro i quali sanno veramente di latino, tra cui ce n’è alcuni di così malaccorti che, parlando con un calzolaio o con un sarto, fanno spreco di latino come se fosse acqua.

 

BERGANZA. Possiamo dedurre da questo che tanto sbaglia chi dice motti latini davanti a chi non li capisce, quanto chi li dice senza capirli.

 

SCIPIONE. E devi notare anche un’altra cosa; cioè, ci sono certuni che il saper di latino non toglie che siano asini.

 

BERGANZA. E chi ne dubita? È chiaro; quando infatti al tempo dei romani parlavano tutti latino, per essere il latino la propria lingua materna, ben ci sarà stato fra loro qualche tanghero che, con tutto il suo parlar latino, non lasciava di essere imbecille.




SCIPIONE. Per saper tacere in volgare e parlare in latino, ci vuol giudizio, caro Berganza.

 

BERGANZA. Così è: si può dire infatti una sciocchezza così in latino come in volgare. E io ho visto sapientoni babbei e grammatici pesanti e parlanti in volgare, lardellare il discorso di fette di latino da seccare con tutta facilità la gente, non una, ma cento volte.

 

 SCIPIONE. Lasciamo questo e comincia a dire le tue osservazioni filosofiche.

 

BERGANZA. Le ho dette già; son quelle che ho finito ora di dire.

 

SCIPIONE. Quali?

 

BERGANZA. Queste delle citazioni latine e del volgare, che io ho cominciato e tu hai finito di fare.

 

SCIPIONE. Il mormorare lo chiami filosofia? Così è. Magnifica, magnifica pure, o Berganza, la piaga della maldicenza e dalle pure il nome che vuoi, che essa darà a noi quello di cinici, vale a dire di cani maldicenti. Ma chetati, ti raccomando; e seguita la tua storia.

 

BERGANZA. Come seguitarla, se mi cheto?

 

(M. de Cervantes)








giovedì 14 ottobre 2021

IL LINGUAGGIO (2)

 
























Precedenti capitoli:


Circa una Rivoluzione 


Prosegue con...:


Terza Rivoluzione (3)









Scopo e ‘ruolo’ di tal necessità dai primordi dell’Universo, là ove arriva l’orecchio e non più l’oculo, ne più ne meno del fiuto d’un lupo, il quale pur non vedendo avverte l’altro, ne percepisce l’inconfondibile presenza, sia questa amica o minacciosa, una preda o il cacciatore nella volontà della stessa (il cacciatore quando sacrifica ed immola e divora non certo lupo, il quale attenta la sua pecunia, sia detto per inciso in siffatto linguaggio espressivo).

 

Noi esseri umani chiusi nel perimetro della nostra ricchezza di mondo mai percepiremmo l’odore d’un elemento estraneo alla distanza di 10 chilometri, eppure l’uso del linguaggio il quale in ugual ‘sensi’ posto nonché percepito, pone il predatore - come molti altri - al di sotto della capacità d’intendere ed intuire il mondo.

 

Nel momento in cui fiutiamo le condizioni della vasta distesa della Selva data dell’Universo in successive ère geologiche formatasi da chi senza parola alcuna, diventiamo animali con ugual medesimo linguaggio, ovvero, cerchiamo bracchiamo bramiamo l’eterna condizione della Vita data, inconsapevoli però del linguaggio con cui ed in cui, in realtà, il vero Creatore pone le incomprese condizioni di ugual stessa Vita divisa nella capacità comunicativa e linguistica.




Lo abbiamo appena detto, ed ora lo ripetiamo! Il linguaggio dell’uomo ha sempre espresso e sancito, eccetto solitarie eccezioni anche dottrinali, la capacità d’intendere e volere della Natura, quindi, Pensiero Idea e Parola. Ovvero una morta inespressiva volontà ad uso e consumo dell’umano con la superiore capacità della parola, e prima del meditato (talvolta anche premeditato) Pensiero, divenire impareggiabile opera nei Secoli della Memoria conservata e divisa in altrettante impareggiabili arti, sia letterale quanto iconografica, scritte nelle proprie Leggi nel rigore dell’uomo evoluto, il quale in queste sue opere si specchia e riconosce.

 

Però l’univoco Universo da cui nato il Suo linguaggio, irrimediabilmente alterato, circoscritto, mutato, malato cronico, come se il più grande eccelso primo invisibile cantore, all’improvviso del tutto incapace in ciò in cui creato quindi pensato, seppure al suo capezzale convengono parenti ed amici imploranti. Eppure suddetto Primo cantore irrimediabilmente afflitto da incapacità comunicativa, potremmo anche dire, inattività depressiva, da chi nella differenza di ‘posseduto’ linguaggio presiede pensiero e parola.




Evolvere senza sosta alcuna fino alle nuove invisibili anch’esse reti neurali, ove in un nuovo invisibile inarrestabile processo alchemico presiede l’inarrestabile ascesa capacità comunicativa sottratta alla comunicazione in cui l’uomo nato, e tradotta successivamente, socialmente parlando, nella cronica impossibilità comunicativa frammentata dell’uomo chiuso nel piccolo schermo digitalizzato conforme al linguaggio alchemico del ‘pil’, chiuso nella rete della presunta alchemica ricchezza ove il mondo non certo presieduto, semmai subordinato all’apparato di singoli soggetti nel formicaio così fondato.

 

Tutto ciò sembrerebbe un vero miracolo, ovvero presiedere la prima capacità comunicativa, di come cioè, l’ultimo Elemento dato ovvero la Terra nata; pensate, appena cotal pensiero, solo per apportare un più che valido esempio, mentre io qui sto meditando e scrivendo circa ugual pensiero e parola nella differenza posta del linguaggio dato dalla Natura, e c’è chi, per miracolo, già sta conoscendo presidiando se non addirittura attentando.




 Pur senza nessuna specifica conoscenza di come, in verità e per il vero, la Natura pensa medita e crea per rifondare la Parola o l’intero perduto linguaggio. Dacché il linguaggio di chi scrive pensa e meditata non certo frammentato all’algoritmo della nuova antica volontà di presiedere, contenere, prevenire, superiore pensiero contrario al ‘pil’ con cui l’universale linguaggio universalmente parlato e scritto nell’alchemica ricchezza.

 

Ritorniamo o regrediamo alla pietra detta come all’inizio del capitolo: c’è differenza fra la forza ad un Prometeo incatenato alla propria tradotta volontà di potenza.

 

I due linguaggi opposti, divergenti presiedere frattura e divisione in ciò cui il motivo della subordinata Natura di cui l’umano altera ogni lingua e pensiero.




Ovvero la capacità alchemica nel bipolarismo con cui taluni riconosco il progresso scritto in ugual linguaggio, presiedere la creazione data dalla Natura procedere sino all’abisso della materia controllata e manipolata; ovvero ed ancora, come anche converrebbe Dante il noto poeta, in un più antico cantico, incaricato ed espresso da un più elevato Universo posto. In quel Tempo ed ancor prima, si era intuito chi presiede la capacità espressiva (data ad esempio da una più che bella ed evoluta Beatrice); ora al contrario, con la nuova procedura alchemica si è giunti alla conseguente manipolazione della volontà naturale nel presiedere pensiero e linguaggio (umano?), dedotto dalla Natura subordinata alla nuova conquista umana  presiedere, per l’appunto, la Natura intera, quindi il Dio e il Primo Pensiero ove nato ed evoluto l’intero linguaggio umano.

 

Senza più linguaggio alcuno dedotto da chi maestro.

 

Mi pare che Godel espresse tal limite posto!




Non sappiamo se questo sia un traguardo o una nuova sconfitta, di certo riconosciamo il male, quel male antico il quale come un tempo che pensavamo superato grazie al superiore pensiero rettamente cogitato come disquisito, va combattuto, nell’unione di intenti nel ristabilire il vero primato dell’incompreso linguaggio sottratto al vincolo esclusivo dell’uomo (come se non avessimo uditori ne interpreti, solo una miriade di frammentate capacità espressive esulare dal linguaggio da cui nate); oltre l’invisibile ordine divino (e non certo dottrinale in quanto tale, giacché detto linguaggio confinato e prigioniero anch’esso, quindi assoggetto agli obblighi di un vincolo, mentre riconosciamo il Primo Essere cogitante nell’invisibile capacità di Spirito al di fuori dell’incompresa parola, da cui in questo circolo, il detto linguaggio; ovvero finché non vengono ristabiliti i vincoli ‘della e nella’ comprensione del linguaggio fin qui espressi e assoggettati all’umana capacità umana nel costantemente sottrarli al Primo essere cogitante, sottratto appunto dell’atto cogitato, ovvero e ancor meglio, privato del Pensiero e Parola, ovvero dell’intero ‘atto’ cogitato) umano derivato e non certo presidiato dalla materia del nuovo progresso.  

 

Di ciò ci occuperemo successivamente, la presente premessa ci occorre qual differenza posta e scissa nella comprensione nonché manipolazione della materia ad opera dell’umano. E non certo da un primo Creatore con il suo linguaggio.  




Di certo se si ponesse il suo Essere in quell’antico esempio di una disconosciuta dottrina negativa, e avessimo meditato su questo punto, avrebbero compreso più lingue di quanto vanno ciarlando.

 

Si badi bene, condizione, colta e posta nell’unicità di povertà di mondo come di parola. E nel momento stesso della nostra massima volontà di Pensiero e Parola scritta nell’intero arco evolutivo su cui abbiamo scritto le leggi della differenza fra l’uomo e la natura da cui deriviamo, retrocediamo ad una misera inconsapevole bestia al pari d’un vivo brulicante formicaio.

 

È evidente che sussiste oltre differenza di accento anche una notevole dislessia circa l’impossibilità di una lingua la quale possa esprimere ugual divario.




Ma abbiamo appena detto e non certo paradossalmente, ma seguendo la storia di una pietra come la stratigrafia letta su ugual terra, che il linguaggio così nato è dovuto ad un fraseggio interpretativo per opera dell’uomo, il quale avrebbe dovuto riconoscere la stessa Opera del Dio comunemente pregato.

 

 Neppure, per ciò appena detto, ovvero, di come nata ed evoluta la stessa. Infatti nella Storia della parola cogitata la diversa parola e pensiero dapprima fu rilegata in fasi alterne di piatto stratificazione terrestre, successivamente una maggiore profondità, azzarderei dire, rotondità della unità espressiva. L’uomo intento a solcare mari e terre, prima da novello Ulisse sempre da un cieco cantato, successivamente da un colono scopritore d’una diversa lingua per sempre uccisa, per ed in conto d’una vecchia dottrina divenuta politica.




Ciò detto appare un enorme paradosso.

 

Vediamo quindi due lingue ben distanti tra loro.

 

Ovvero il paradigma della negata dislessia!

 

Così cotal cronico malato apostrofo!      



  

Il costante ruolo d’ogni superiore Elemento, scientificamente disquisendo, ha contribuito ed ancora contribuirà, seppur l’inetto inferiore umano linguaggio scisso dalla propria Natura il quale lo ha creato, assoggettato alla capacità dell’espressione umana, raccolta nel successivo bivio e differenza fra Natura e Uomo posto; ovvero ciò che un Tempo Uno, sembra si sia scisso nel doppio d’un contesto bipolare, da cui note e future patologie, in seguito accertate in ugual sistemi e/o Ecosistemi di comune univoca appartenenza, ed ancora non ben dedotte come accertate nel linguaggio sin qui adoperato, affinché se ne possa cantare ogni singolo Elemento vilipeso con altrettanto altolocato grammaticato composto linguaggio, in effetti come veramente è stato fin che non sopraggiunta ogni nuova Rivoluzione, la quale per sua misera natura, ha rinsaldato il patto figlio d’un certo comandamento.

 

(Giuliano)