giuliano

domenica 3 ottobre 2021

LA RIVOLTA PROSEGUE

 


























Precedenti capitoli:


Circa la 'Rivolta' 


Prosegue con la...:


Percezione della realtà (48/51)









Di questi processi, quel che sfugge al cittadino (anche al più diligente) è in ogni caso troppo. Abbiamo il diritto di non avere tutte le competenze necessarie a intendere i distinguo dei giuristi e i conflitti fra le istituzioni, o a inseguire l’altalena delle pressioni politiche, dei patteggiamenti preelettorali, dei voti di scambio. Perciò abbiamo delegato e deleghiamo la gestione dello spazio (del paesaggio, del territorio, dell’ambiente) a chi ci governa, dal Comune allo Stato. Ma di fronte a tanto disastro e a tanta discordia sul da farsi, abbiamo il diritto di chiederne ragione.

 

Devono, le istituzioni pubbliche, dare regole?

 

Farle rispettare?

 

O la foresta dei reciproci divieti ha già ceduto il passo alla legge della giungla, dove ciascun ‘padrone in casa propria’ debba espandersi a spese del vicino, calpestando i diritti di tutti?




‘Una quercia che cade fa molto rumore; ma una grande foresta cresce in silenzio’.

 

Questo proverbio cinese descrive bene lo scenario italiano che stiamo attraversando. Guardiamo increduli il crescente degrado delle nostre città e del nostro paesaggio, e ci sdegniamo ogni giorno per il cinismo dei (pochi) colpevoli, per l’indifferenza dei (molti) spettatori, per le alleanze e compromissioni di fatto fra chi devasta i nostri orizzonti di vita e amministratori pubblici di ogni livello e di ogni partito. E chi manifesta la propria indignazione viene spesso accolto da commenti infastiditi, accusato di inutile pessimismo, invitato a rassegnarsi e a pensare ad altro.

 

È vero il contrario:

 

‘sa indignarsi solo chi è capace di speranza’ (Seneca).




Ma se talora abbiamo la trista impressione d’esser rimasti soli a difendere i valori del paesaggio (e della Costituzione) e della Natura, è perché non sappiamo ascoltare l’inarrestabile fruscio della foresta che cresce. Il nostro sdegno è assai più condiviso e diffuso di quel che crediamo, anzi ogni nuovo delitto contro ambiente e paesaggio spinge altri cittadini a prender coscienza dell’abisso entro il quale stiamo rotolando. E se ci pare che non sia così è perché siamo troppo abituati ad attribuire ai media (in particolare, alla televisione) e alle liturgie dei partiti un grado superiore di realtà, rispetto a quella che pur viviamo. Come se i pensieri, le sofferenze, le paure e gli sdegni del cittadino comune (di ciascuno di noi) non contassero proprio nulla.

 

Il degrado di cui stiamo parlando non riguarda solo la forma del paesaggio o dell’ambiente, e nemmeno solo gli inquinamenti, i veleni, le sofferenze che ne nascono e ci affliggono. Riguarda un complessivo declino della società italiana, della vita politica, delle regole del vivere comune. Riguarda la corruzione diffusa, l’uso disinvolto delle leggi, l’enorme evasione fiscale tollerata (cioè autorizzata) da governi d’ogni segno, il ruolo delle mafie nella vita pubblica e nell’economia.




Riguarda la manipolazione delle notizie e la monetizzazione d’ogni valore, il cartellino del prezzo attaccato alle Dolomiti e ai quadri di Caravaggio, riguarda gli slogan perversi sui ‘giacimenti di petrolio’ dell’Italia, sul nostro patrimonio visto come un serbatoio da svuotarsi in fretta per far cassa, senza nulla lasciare alle generazioni future.

 

Riguarda la bassa sicurezza sui luoghi di lavoro, la crisi della Sanità, le differenze sempre più marcate da Regione a Regione che violano l’egual diritto alla salute di tutti i cittadini (art. 32 Cost.).

 

Ma questo vastissimo orizzonte di crisi non è una buona ragione per rinunciare a un discorso specifico sull’ambiente e sul paesaggio, né per metterlo in sordina perché ‘ci sarebbe ben altro di cui parlare’.

 

Siamo, ci sentiamo fuori luogo.




Siamo spaesati, in senso sia metaforico che letterale. Non ci riconosciamo negli orizzonti (fisici e politici) che ci circondano. Per quanto aguzziamo lo sguardo, non vediamo un’opposizione degna di questo nome; vediamo una destra nazionalista allearsi per decenni con una Lega separatista, come se fosse la cosa più naturale del mondo; vediamo quella che fu la sinistra cantare all’unisono con la destra le virtù del mercato, crogiolandosi in una strategia per definizione perdente.

 

Vediamo il disgregarsi dello Stato e la morte del pubblico interesse, lo svuotarsi delle istituzioni e la svendita dei beni pubblici, secondo un’economia di rapina pensata per gli amici degli amici.

 

In un Paese sempre più provinciale, non sappiamo più confrontarci con gli altri. In compenso, ci consoliamo inventandoci una realtà fittizia, nella quale a capo delle Regioni non ci sono presidenti, bensì ‘governatori’, carica inesistente che ha il dubbio vantaggio di farci sentire provvisoriamente ‘americani’.




Siamo, ci sentiamo fuori luogo anche nelle nostre città, nel nostro paesaggio, ridotto a terreno di caccia per chi voglia farvi bottino. Come se non bastasse, ci troviamo istantaneamente d’accordo quando il primo che passa ci spiega che manca in Italia un’architettura moderna, e che il terreno perduto va recuperato velocemente impiantando intorno a Roma, Milano, Torino altrettante cinture di grattacieli; cioè imitando nemmeno più Chicago o New York, ma Singapore o Dubai.

 

I nostri centri storici, eredità preziosa ma fragile, tendono a perdersi entro le periferie che li assediano, capovolgendo ogni gerarchia: piazze medievali, cattedrali e palazzi comunali stanno per diventare una sorta di quartiere dei giochi o di shopping center artificiale, più simile alle evocazioni di cartapesta di Las Vegas che alle città di Dante e di Palladio. Questo processo di disneyficazione era annunciato da molto tempo, ma ora è venuto a maturazione: parve strano a molti, nel 1981, un articolo nella rivista «Urbanistica» secondo cui «la trasformazione di Venezia in una disneyland potrebbe segnare il passaggio a un modo di vivere più creativo, più allegro, più festoso», ma la nomina del suo autore a membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali (2009) indica che il trend è ormai vittorioso.




La Natura, è difficile coglierne con un solo sguardo la complessità e le sfaccettature: per questo, e non sempre per mancanza di interesse, è arduo prendere la parola. Viene in mente l’antico apologo indiano dei sei ciechi. Posti davanti a un elefante, ognuno ne esamina a tentoni una parte, e ciascuno conclude per suo conto: ‘è un muro’ (i fianchi), ‘è un serpente’ (la proboscide), ‘è un albero’ (le zampe), ‘è un ventaglio’ (le orecchie), ‘è una corda’ (la coda), ‘è una spada’ (le zanne).

 

Insomma, ognuno scambia una parte per il tutto, e tutti si guardano bene dallo scambiarsi informazioni.

 

Una scrittrice del nostro tempo, Patricia K. Page, ha rivisitato questa storia in chiave ecologista:

 

‘ognuno dei ciechi ritiene di possedere per intero la verità, e perciò ignora gli altri, o li disprezza. Così molti sono ciechi davanti alla Terra, e la vedono solo come un serbatoio di risorse, di materie prime, di scenari naturali, o di altri valori-merce; non riescono a vedere quello che davvero essa è, un insieme vivente nella cui atmosfera ci aggiriamo come corpuscoli che ne dipendono’.




Davanti al programmatico sbriciolamento dello Stato ad opera del governo, mentre assistiamo al saccheggio del territorio e alla spartizione del bottino, ha ancora senso parlare di tutela della Natura intesa come paesaggio e l’ambiente?

 

Sí, più che mai.

 

È vero, siamo tutti come i sei ciechi della favola, vediamo pezzi del problema e ci è difficile coglierne l’insieme.

 

Vediamo operare fianco a fianco, in uno stesso Stato, ottimi funzionari che fanno il massimo sforzo per difendere il paesaggio e loro colleghi di pari grado che si fanno complici di chi lo devasta.

 

Vediamo in una stessa Italia la Commissione Rodotà che elabora un nuovo statuto dei beni pubblici conforme allo spirito della Costituzione, e altri giuristi che si prestano a scrivere leggi volte ad annientare lo stesso concetto di ‘bene pubblico’.




 Vediamo un esempio:

 

Cominciato bene col governo Prodi come un progetto di social housing, il ‘Piano casa’ si è trasformato nell’inverno 2009 in un vero e proprio condono preventivo, una licenza di uccidere il paesaggio rilasciata in bianco ai costruttori senza scrupoli, offrendo qualche vantaggio a singoli cittadini proprietari di case in cambio della loro complicità. Il principio ispiratore è l’egoismo proprietario, sancito da norme che trasformano l’Italia in terra di nessuno, sospendendo ‘temporaneamente’ la validità delle leggi di tutela e dei principî costituzionali che le hanno ispirate.

 

Come mai tanta concordia, a spese del paesaggio, tra Stato e Regioni, tra destra e sinistra?

 

Si possono azzardare tre risposte, diverse ma convergenti tra loro.

 

La prima è nello slogan lanciato da Berlusconi già nel 2001, ‘padroni in casa propria’: esso coglie con grande abilità mediatica un punto non secondario nello small talk di tanti italiani, il rifiuto delle regole e l’affermazione di uno spazio invalicabile in cui l’egoismo proprietario possa esercitarsi senza alcun limite.




 Perché, in casa mia, dovrei rispettare strane norme antisismiche che non ho scritto io, e che mi farebbero spendere molto di più?

 

Perché dovrei compilare domande e moduli, aspettare permessi, subire censure, prima di abbattere un edificio storico di mia proprietà?

 

Perché, se sono riuscito a comprare una pineta costiera o un bosco in montagna, non posso distruggerli per costruirvi residence, alberghi, villette a schiera?




Perché un soprintendente dovrebbe dettarmi regole, impedirmi di sopraelevare sul mio terrazzo, di suddividere un palazzo storico in minialloggi, di aprire finestre e porte dove mi pare, di abbattere pareti affrescate?

 

In casa mia conto solo io, non sopporto la presenza di altri; solo a un oppressivo regime ‘comunista’ può venire in mente di mettere il naso nelle mie faccende. In questo argomentare, che più d’un politico ha fatto proprio, diventano ‘comunisti’ non solo la Costituzione della Repubblica, ma anche editti papali del Sette e dell’Ottocento, leggi dei re di Napoli e dei dogi di Venezia, norme dei Comuni medievali di Siena o di Verona, principî del diritto romano che da duemila anni hanno previsto di limitare le prerogative della proprietà privata sulla base di un principio più alto: l’interesse pubblico.




Anche la seconda risposta ha molto a che fare con quello che con metafora non proprio elegante si suol chiamare ‘la pancia degli italiani’, e cioè quel nodo di sentimenti oscuri e quasi inconfessabili in cui un leader populista può pescare e gonfiare sacche di consenso. Fra questi temi, ha ancora un ruolo importante la convinzione che il miglior modo di investire i propri guadagni o risparmi non è indirizzandoli sulle attività produttive, bensì sulla ‘roba’, e in particolare sulla proprietà immobiliare, intesa come un valore sicuro, un deposito bloccato come un salvadanaio, la ‘cosa giusta’ da farsi per garantire se stessi, i figli, la famiglia.

 

Le difficoltà dell’agricoltura, che scoraggiano o marginalizzano quasi dappertutto la piccola e media proprietà, hanno indirizzato questa mentalità, propria di una società preindustriale, quasi esclusivamente sull’edilizia abitativa. Comprare uno o più appartamenti, anche per famiglie con reddito medio, è diventato un comportamento abituale, anzi normale: l’unico investimento sicuro, si sente ripetere, è quello del ‘mattone’. ‘La terra non rende se non è murativa’, si sente dire in Toscana.




 Questa mentalità arcaica, che andrebbe esaminata con gli strumenti dell’analisi sociologica, ha prodotto in Italia uno specifico segmento di mercato, in cui (tutti lo sanno, o credono di saperlo) il denaro investito fruttifica più che altrove. A dire il vero, il rapporto fra investimenti e profitti è molto favorevole solo per i costruttori (tra 1998 e 2005, i valori immobiliari sono cresciuti del 70%, oltre il quadruplo dell’aumento dei redditi), anche se intorno ai loro cospicui guadagni ne ruotano altri: progettisti e direttori dei lavori, mediatori, agenzie, fornitori di servizi.

 

Il ‘guadagno’ del singolo, se tale è, consiste piuttosto in quello che si potrebbe chiamare un ‘sentimento di sicurezza’: non dover pagare un affitto (soggetto a negoziazioni col proprietario), non dover cambiare casa se non lo si vuole, non correre rischi investendo i propri risparmi in attività economiche, imprese o azioni. La casa, insomma, vale come un bene rifugio; la sensazione di sicurezza e di stabilità che essa dà val bene la spesa, anche quando per coprire i costi dell’acquisto è necessario ricorrere a mutui, ipoteche, cessioni del quinto e prestiti di vario genere che intaccano sensibilmente lo stipendio abbassando la qualità della vita d’ogni giorno.




La progressiva atomizzazione delle famiglie a cui stiamo assistendo moltiplica e rifrange, come in uno specchio rotto, questo processo. Cresce il numero dei single che desiderano una casa tutta per sé; ma ciascuno di essi, mentre con la propria scelta di vivere da solo contraddice e capovolge l’antico modello della famiglia patriarcale, proprio da quel modello di vita eredita e fa propria l’idea di far centro sulla casa come bene rifugio, focolare delle proprie certezze, investimento principale, anzi spesso unico.

 

È difficile dire se la moltiplicazione degli alloggi (spesso comprati dai genitori per i propri figli) sia solo una conseguenza o anche una causa accessoria di questa atomizzazione dei nuclei familiari. Quel che è certo è che dalla ‘pancia’ di tutti (da questa corsa all’investimento immobiliare) nasce la rendita immobiliare di pochi, soprattutto dei costruttori; e nascono, per moltissimi cittadini, meccanismi di indebitamento di lungo periodo che immobilizzano capitali cospicui, bloccano ogni investimento produttivo, irrigidiscono gli assetti sociali, limitano la libertà individuale e il ventaglio delle scelte. Eppure molte famiglie ‘stringono la cinghia’ per comprare non uno, ma due o tre o cinque appartamenti, da lasciare ai figli o da rivendere in caso di bisogno: e poiché investire nel ‘mattone’ è come avere un salvadanaio a cui attingere, ‘conta’ anche l’invenduto, ‘contano’ anche le case vuote, o magari occupate una settimana l’anno.

 

Ma questa arcaica mentalità secondo cui la solidità economica di una famiglia si misura in mattoni è la sola spiegazione dell’accanimento edilizio che va martoriando il territorio italiano?

 

Non è detto.




La stessa identica mentalità è condivisa non solo da innocue o ingenue famiglie, ma anche dalla criminalità organizzata, che anche in questo mescola tratti assai arcaici a una spietata aggressività sugli scenari dell’economia e del mercato. Lo ha scritto Roberto Saviano in un grande libro italiano, Gomorra (2006):

 

Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento… le ditte in subappalto, la sabbia, il pietrisco, i camioncini zeppi di operai che lavorano di notte e scompaiono al mattino, le impalcature marce, le assicurazioni fasulle. Lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana. La Costituzione dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Ferruccio Parri, non Luigi Einaudi, non Pietro Nenni, non il comandante Valerio. Furono i palazzinari a tirare per lo scalpo l’Italia affossata dal crac Sindona e dalla condanna senza appello del Fondo Monetario Internazionale. Cementifici, appalti, palazzi e quotidiani. 

(S. Settis)







Nessun commento:

Posta un commento