giuliano

sabato 31 ottobre 2015

ALTRI PRIGIONIERI E MORTI... (giù nella stiva della vita...)










































Precedente capitolo:

Fernao Mendes Pinto...













Da magnanimo uomo, cresciuto libero in libera città, con siffatte alte parole Pericle sollevava la sua anima; io invece, da questi uomini nato, - quali sono oggidì i mortali - con parole più umilmente umane mi consolo e tento di evadere, cercando di toglier via la troppa amaritudine del mio dolore e per ciascuno dei molesti e strani fantasmi dell’immaginazione, che dal presente stato delle cose insorgono e di continuo m’inseguono, provando a inventarmi un qualche rimedio, quale un incantesimo che possa alleviare un morso di fiera nel profondo del mio cuore.
Ecco la prima di quelle visioni moleste: subito sarò lasciato solo e privo degli schietti incontri in uso fra noi, e dei liberi conversari. Né vedo più alcuno cui mi possa aprire con uguale confidenza.
Ma forse mi è facile parlare con me stesso?
O forse qualcuno mi vorrà togliere anche il bene del pensiero e mi costringerà a volgere la mente e indirizzare l’ammirazione verso cose altre e diverse da quelle che sieno nel mio intendimento?
O non sarebbe questo davvero un bel portento, come lo scrivere sull’acqua o il cuocere una pietra o l’inseguir le tracce d’uccelli in volo?




Poiché mai nessuno ci potrà privare del nostro pensiero, non v’è dubbio che ciascuno di noi potrà in qualche modo intrattenersi con se stesso.
Forse anche il dio ci darà qualche buon suggerimento: non è verisimile che dall’essere superiore venga trascurato del tutto e abbandonato in totale solitudine  chi a lui s’affidi; al contrario, su di lui il dio gli da coraggio, infonde in lui forza d’animo e indica alla sua mente quali cose egli debba fare e da quelle altre lo dissuade, dalle quali si debba astenere.
Appunto una voce divina accompagnava Socrate e lo tratteneva da ciò ch'egli fosse in dovere di non fare. E Omero dice di Achille: ‘lo ispirò la Dèa’, come  per insegnare che dagli Dèi sono risvegliati in noi i Pensieri, quando l’anima, ripiegando in sé, dapprima con se stessa indugia, poi, nel segreto della propria interiorità, incontra il Dio, da sola a solo, non impedita da nessuno.
…Non ha bisogno dell’udito l’anima per intendere né il Dio della voce per insegnarci il nostro dovere: del tutto al di fuori dell’umana sensibilità, dall’iniziativa dell’essere superiore discende la sua partecipazione alla nostra mente; per qual via e come, non si dà l’occasione di esaminare, ma così avviene e di tale evento abbiamo chiare testimonianze, non di gente inattendibile e da mettere da parte, insieme con i Megaresi, bensì di persone che primeggiano per la loro sapienza. Poiché dunque è da far conto in ogni caso sull’assistenza del dio e sulle risorse della nostra vita interiore, si deve toglier dal nostro dolore la soverchia amarezza.
Di Odisseo, in compassionevole solitudine si impari.
Di Odisseo in prigionia sull’isola per sette anni, rendo lode ai  meriti della perseveranza.
Lui e solo lui ci ha insegnato il non arrendersi, il non tirarsi indietro di fronte alla fortuna, e alla sfortuna, al male degli uomini, alle loro meschine condizioni terrene. Bensì mostrare il proprio valore sino all’estremo della terribilità dell’intelligenza, questo è il comportamento di chi sappia trascendere l’umana e bassa condizione terrena.
Né sarebbe giusto celebrare gli eroi d’una volta, senza imitarli, né credere che il dio, sollecito a soccorrerli, non si dia pensiero degli uomini d’oggi, quando li veda alla ricerca di quella stessa virtù, per la quale appunto di quelli si compiaceva.
(Giuliano Imperatore, IV, (VIII) Consolatoria a se stesso, VI)



  
 Vorrei sollevare la questione se la differenza tra lo Sciamano e il Santo non possa riferirsi al rapporto con l’anima, vale a dire che il potere dello Sciamano viene dall’accettazione del principio dell’anima quale spirito del suo métier, mentre il Santo esclude rigidamente l’anima, sebbene entrambi siano di fatto determinati da essa. E non è forse lo sforzo di escludere il rapporto con l’anima che costringe il Santo nel suo atteggiamento di isolato assolutismo, laddove lo Sciamano, il cui métier affonda le radici nel rapporto con l’anima, è essenzialmente un personaggio sociale e relazionale?
Queste parole pongono l’intera questione nella giusta luce.
Il Santo è un prodotto della differenziazione sociale e civilizzata, mentre lo stregone è un prodotto della natura.
Il dottor Baynes lo attribuisce all’anima, ma l’anima è natura, e lo stregone primitivo avviluppato dall’inconscio ne è parte, l’inconscio funziona per suo tramite.
Mentre il Santo si innalza al di sopra dell’inconscio, respinge l’inconscio.    
Questo è il modo in cui è possibile esprimere questo concetto, ma naturalmente si può andare oltre e affermare che il Santo risponde pienamente all’inconscio.
E’ paradossale, ma questa è la natura dell’inconscio.
Da un lato l’inconscio non è altro che natura, e dall’altro è il superamento della natura; è un ‘sì’ e un ‘no’ in sé, è due cose in una. E’ per questo motivo che non capiremo mai che cosa sia davvero l’inconscio, così come non capiremo mai che cosa sia il mondo, perché ‘è’ e ‘non è’.



L’essere giunti a una tale antinomia denota che abbiamo raggiunto il limite estremo delle nostre facoltà di ragionamento. Stiamo battendo la testa contro un muro, ma il muro non cederà, per quanto forte ci possiamo provare. Questa è l’antinomia della ragion pura: si arriva al punto in cui si deve dire: ‘è’ e ‘non è’.
Perciò il Santo è una produzione dell’inconscio pur essendone il superamento. E’ possibile vederlo molto chiaramente nella psicologia del santo buddhista; ogni sua parola e ogni sua azione sono un superamento dell’inconscio, un superamento dell’illusione. 
L’inconscio è illusione ed egli è in uno stato che va oltre l’illusione.
Anche il Santo cristiano sottomette l’inconscio e lo supera; ai suoi occhi l’inconscio è il diavolo ed egli vince il diavolo.
Mentre lo stregone primitivo è, essenzialmente, il potere dell’illusione, egli stesso è nel contempo oggetto del potere dell’immaginazione e dell’illusione ed è creato per addentrarvisi. Pertanto la maggior parte degli Sciamani primitivi sono una sorta di medium; cadono in uno stato di trance e vi si compenetrano, il che significa, naturalmente, la totale sconfitta dell’individualità umana in rapporto al potere dell’inconscio.
Ma è pur vero che anche il santo, inconsciamente, è pressoché costretto dall’inconscio. Quando sapete ciò che il santo veramente cerca e analizzate con attenzione il simbolismo nel quale egli crede, vedrete che si tratta ovviamente dell’inconscio che cerca di superare se stesso.
(C. G. Jung, Visioni)




Il ‘Bar do t’os sgrol’ è conosciuto dal pubblico europeo fin dal 1927, quando l’Evans Wents ne pubblicò la traduzione fatta dal suo maestro il Kazi Dava-samdup e da lui messa in buon inglese. Il libro destò grande interesse e seguirono nuove versioni in altre lingue. Tutti ormai lo conoscono col titolo che gli dette il suo primo divulgatore: il titolo letteralmente ben scelto; colpisce il lettore, e dà a prima vista un’indicazione generica sull’argomento del volume. 
Il trattato si svolge ai morituri o ai morti: non serve ai vivi, o serve soltanto perché, per ogni vivente, verrà il giorno della morte, quando le cose dette in questo breviario dovranno tornar chiare ed efficaci alla mente e confortare nel difficile momento. Ma è anche vero che questo titolo può condurre fuori strada, richiamando alla memoria il libro dei morti egiziano, il quale esprime tuttavia una concezione religiosa ed escatologica tutta diversa da quella tibetana. Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la continuazione della vita nell’oltretomba.
Per i Tibetani il cadavere si brucia o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli uccelli lo divorino. Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima creatura che già visse in questo mondo e così perdura con le stesse parvenze e lo stesso nome.




Per i Tibetani la morte è o il l’inizio di una nuova vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità - effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua - nella luce indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale. Continuare ad esistere in una qualunque forma di esistenza, anche come Dio, è dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, un non mai soddisfatto desiderio, una pena che mai si placa.
La pace è, nel dissolversi inconsapevole in quella luce incolore da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne siamo consapevoli, brilla in noi stessi. Per dirlo con altre parole, quando si muore, sono due le vie che a noi si aprano: o un definitivo spegnimento della creatura singola che è la sorte degli Eletti; oppure la rinascita, che attende chi non seppe comprendere che tutto è sogno. Per la qual cosa, questo trattato dovrebbe essere piuttosto conosciuto, anziché come il libro dei morti, col suo vero nome tibetano che significa libro della salvazione, o traducendo alla lettera:  perché la sua recitazione evoca il principio cosciente del morituro o del defunto la verità redentrice.
(Il Libro Tibetano dei Morti)




















lunedì 19 ottobre 2015

CARLO GINZBURG (4)











































Precedenti capitoli:

Carlo Ginzburg (3/1)













Narra il suono di un tamburo,
corre per un patimento,
suo eterno tormento. (6)

Scandisce il tempo di un Dio,
nato dalla strofa di un boato,
precipitato da una forma perfetta,
ad un caos di prima materia.
E’ la danza dell’Universo,
inciampa poi s’alza,
vuol scoprire un mondo
privo del Primo Pensiero.
Spirito che abbraccia
la sua strana illusione,
parola che crea,
e tempo che prega.
Materia che nasce e muore,
in questa strana visione.
Scordando il suo principio,
prima e increata sostanza,
racchiusa in un punto
della mia memoria.
Quando l’intero mondo raccolto,
racconta ora…,
…la sua eterna storia. (7)
 
L’uomo barbuto,
dopo aver bevuto l’intruglio,
sente anche lui il rumore
di un lontano pianeta perduto.
Vede luci e colori,
passi di danza
di antichi rumori.
A ritroso precipitano
per svelare gli accordi
di un nuovo strumento.
Narrano la scienza mai morta
di una stella che nasce,
e un’altra che tramonta.
Nell’infinito ciclo di una memoria
….non ancora colta. (8) 

Ode i colori e sente il rumore,
forse una perfetta equazione.
Al suono di un tamburo
svela l’intuito…,
di ciò che non muore. 
Ma rimane perfetto,
invisibile alla vista
di una mano che coglie.
Cieca alla spina,
muta al ricordo,
chi vede la rosa
e il suo sogno
….mai morto. (9)

Sconosciuto agli occhi
chi ha reciso la spina,
per una corona
come solo ornamento,
di una stella che muore
inchiodata ad un legno.
Uno sciame di fiori
nel sogno mai morto,
come tante primavere 
in un cielo che accende,
tutte le sue stelle.
Confusi dall’odore
di un inverno
prima dell’amore,
che pian piano diventa dolore.
Dove la simmetria
non ancora svelata,
cede il passo e la danza
alla vita appena nata.
Dove l’ultimo bagliore
di una stella che muore,
sveglia il Nulla
di una donna che urla
la sua paura.
Arsa al rogo
di un blasfemo versetto,
con solo la pretesa di narrare,
come quel Nulla
ha un giorno parlato,
e spiegato quel Tutto
non ancora svelato. (10) 

Sveglia la voce dello sciamano,
dal rumore sordo del tempo
è divenuto oscuro ornamento,
di una sol bestia
che danza nel vento.
Passo della vita che racconta
il ricordo e il dolore
di una stella che muore,
vomitando sussurro e grido,
zero e infinito,  
di un mondo non del tutto
perfetto,
al triste versetto.
Al sogno dell’antico sciamano
(disegno appena accennato),
ha preferito un sogno mai nato,
nella coscienza
di una strana visione,
perché è solo una rosa
che muore,
inchiodata alla sua croce.
Non potendo così più indicare
la vera direzione,
sogno del suo uomo
e la sua strana Terra,
sfera perfetta
non ancora detta. (11)


Bruciati di fretta su una piazza
scolpita nella nostra memoria.
I due muoiono arsi dall’ingiuria
dello stesso fuoco, 
come animali braccati
e poi divorati,
dal popolo in nome
del loro Dio,
e il suo strano sacrificio.   
E per la fame nemica del sapere,
ventre della falsa memoria…,
…dell’intera storia.   
I due muoiono come bestie,
lupi che corrono assieme,
all’ombra di un fuoco mai spento,
ora brucia e soffia cenere al vento.
Cena segreta,
dottrina non detta,
scritta nella parola
da chi conosce fame e dolore…,
nel loro Tempo senza amore. (59) 

Si raccontò poi,
molti anni dopo,
che i due furon rivisti
in cima alla pietra…,
d’una antica collina.
Due lupi animano la piazza,
ululando la loro pena
ad una città interdetta.
Illuminano così le notti
di troppi bigotti, 
perché nel parlare di queste
povere bestie,
confondono ragione e fede.
Convinti che la coscienza
mal riposta del loro peccato,
riposa ora in un nuovo latrato.
Incubi e sudori tutte le sere,
mentre i due lupi vegliano
la strana fede,
nel perimetro di un recinto
di bestie sommesse,
che al belare della preghiera
han fatto la loro promessa…,
di una sicura difesa.
Contro i due diavoli e le loro notti,
contro le tenebre ed oscure promesse. 
Strane passioni in strane parole,
che vagano ora alla luce del sole. (60)

Il popolo è pecora nell’ora
dove l’anima cammina
e non più implora.
L’uomo è lupo
con la donna sua sposa,
nella corsa di una lupa,
donna mai morta.
Gli occhi loro fin troppo
belli,
e felici di nuovo.
La lingua fra i denti
non implora perdono.
Parlare della loro storia
e cantarne in silenzio..,
il fuoco mai spento.
Perché un altro Dio
li ha restituiti al vento,
di un’antica eresia…,
…..senza tempo. (61) 

Il gregge si unisce…,
così come è suo dovere,
e il buon pastore lo conta
come pecunia
del ricco padrone,
…così come si deve! 
Nella notte profonda
che ora diviene
solo tormento,
il pastore comanda
al fedele cane..,
di navigare nello scuro mare.
La sua Terra deve liberare
da chi la vuol azzannare. 
Per un lupo che non è più bestia,
ma solo un incubo
che attende vendetta. (62)

Sarà che son io che li ho creati
e poi anche allevati.
I loro racconti mai morti
son diventate rocce nascoste
di tante anime sospese,
sacrificate nel folle momento
di un terremoto figlio
del loro tempo.
Sarà che son io,
che li ho visti parlare,
l’ululato muto è spirato,
soffocato nell’urlo violento
di un intero popolo
che grida contento.
Sarà che son io,
che ho visto quel vile,
sommesso chiuso nell’ovile,
e nel perimetro ristretto
vicino ad un tempio.
Di guardia solo un pastore,
cane fedele a tutte le preghiere,
…a contare i miseri agnelli,
rubati e pascolati
come tanti denari.
Pecunia di Dio
e di un cane pastore,   
ora non morde ma conta le ore
mentre veglia la croce. (63)

Mentre i due lupi
mi han ricambiato
la cortesia,
parola appena intuita
dalla pecunia assopita.
Ora restituita alla memoria.
Giammai il perdono
di un peccato mai celebrato,
ma solo la rima
che ridona parola,
ad una vita senza onore e gloria.
Sacrificata sulla piazza
come bestia braccata,
senza nemmeno un’ultima speranza
per la pecora
….che ora avanza.
Muta pecunia che conta l’ora,
sogno di un Dio
…..e la sua parola. (64)

Sarà che son io quel Dio
taciuto,
nell’ultimo disperato urlo.
Secondo al Primo, 
perché nella sua gloria,
è convinto del dono della parola.
Sarà che son io la parola negata,
né scritta né dipinta
sulla volta o il pavimento,
di un nuovo convento.
Dove al libro della vita
rubarono perfino la rima,
per un ingorda bugia
che è solo idolatria. (65)

Sarà che son io quel Dio
che ridona l’amore,
ad un uomo che piange
del suo stesso dolore.
La donna così bella
è mutilata
della sua bellezza,
riflessa negli occhi
pieni di terrore.
I due non osano parola
nell’ultima ora,
la grande paura
ha mutilato
perfino l’ingegno.
L’istinto ho mutato in folle
corsa,
in compagnia del vento,
ridona la forza
ad un sogno mai spento.
Il ghiaccio modella i bei
lineamenti,
la neve come allora..,
li fa di nuovo contenti.
L’acqua li disseta,
e la luna gli insegna una nuova
preghiera.
La foresta danza con loro
l’antica poesia,
….una terra promessa…,
per scoprire la vita. (66)

Io ho restituito loro
il sorriso,
e l’ultima smorfia di dolore
è divenuta una rima,
per ogni notte del buon pastore.
Così da contarne le ore…,
per ogni rima
….del loro eterno amore. (67)

Ora il loro pensiero
diviene linguaggio perfetto,
mentre azzanna il petto.
Ventre bianco ricolmo d’interiora,
un’anima che prega
per la sua ora.
Candido e bianco più della neve,
dal collo dove ora sgorga
il vino del loro piacere.
Sangue reale….,
anche se bevuto,
….non fa poi così male. (68)

La pecunia rantola nell’incubo
che avanza,
scalcia nel buio della sua sostanza,
rubata ad una coppia che ora
non più dorme…,
l’eterno sonno della morte.
Forse perché nel freddo di un mondo
che non muore.
Il loro sogno invece,
crepa in lenta e tranquilla agonia,
nel bianco candore
di un belato lungo la via. (69)

I due lupi turbarono le notti
ed i giorni migliori
di troppi pastori,
sacrificano con quelli
i loro cani pastori.
Li trovano morti e sanguinanti,
con gli schioppi stretti fra le mani.
Li trovano legati alla catena,
con la bava che scende dalla bocca.
Gli occhi come chi prega,
l’urlo sommesso
della stessa preghiera.
Il collo squarciato l’orecchio inciso,
da chi ha sofferto uguale tormento,
…ma ora corre libero
nel vento! (70)

Son io che gli ho restituito
memoria,
nell’ultimo desiderio
prima che l’anima fugga
di nuovo nel vento.
Quel rantolo di dolore
ho trasformato in terrore,
chi pensa di aver ucciso
l’amore. 
Il grido ho trasformato
in eterno sorriso.
Non è insano tormento,
ma ululato che spezza il vento.
Mi guardano fieri lungo la via,
mi seguono muti fino alla piazza,
mi indicano il posto
e mi insegnano le parole..,
del loro segreto amore.
Io non faccio null’altro
che ricambiare gentil cortesia,
e cantare il dolore oramai muto
di un uomo e una donna,
ora mi fanno eterna compagnia.
Nel segreto di una verità…
che mai sarà dottrina,
perché racchiusa nel silenzio
di ogni rima e strofa
nascosta.
Eterna poesia dell’anima mia! (71)

Son io quell’uomo che cammina
senza sera e mattina,
vago pure di notte a vegliar
le porte.
Ogni uscio della falsa dottrina,
mi porta pure a sfidare
la mala sorte,
di ogni ora del giorno e della notte.
Sull’uscio dell’ovile
per scolpire di rosso
il loro dormire.
Son io quell’uomo senza ora,
vago contento…,
senza forma né tempo,
lontano dal perimetro
di una falsa geografia.
Li vuole tutti nel circolo
d’una pia illusione,
inganno imperfetto nominato tempo.
A spasso con l’ora che segna
il nostro destino e l’ultima parola,
…bruciata senza memoria. (72)

Contar i minuti d’un campanile
del suo troppo rumore,
per radunar la folla nel rito,
senza la presenza
di alcun Dio.
Per radunar la gente,
solo per veder morir
un innocente.
La campana annuncia la venuta,
lento sacrificio mai spento,
solo un uomo che urla
nel vento.
Giammai raccolsi pentimento,
in quel grido di rabbia
lasciato al vento.
Giammai vidi peccato
nel suo amore braccato,
ora corre senza lamento…,
libero da ogni tormento. (73)

Son io il vento che lo vide morire,
son io l’acqua che placa la sua sete,
son io il fuoco che riaccende
il suo vago ricordo,
son io la terra che culla il sogno
raccolto. (74) 

La donna gli fa compagnia,
china ritorta
come una povera arpia.
Nell’ora stabilita
il boia canta la sua litania,
un Dio che non perdona
per questa via. (75)

Occhio del suo tempo….,
mentre noi vaghiamo
senza neppure una fossa.
Solo la luce di un altro Dio
che non concede fissa dimora.
Ci fa strisciare, correre poi volare….
anche di notte….,
per punire la loro triste sorte.
Bestie contorte
chiuse nella notte
a contarne le ore,
al grido di un lupo
che non chiede mai aiuto. (76)

(C.  Ginzburg, i benandanti;  Giuliano Lazzari, Primo Dialogo con la creazione, Fr. 4/11 & 59/76;   da Frammenti in Rima) 





























mercoledì 14 ottobre 2015

CARLO GINZBURG (2)


















Precedente capitolo:

Carlo Ginzburg (1)

Prosegue in:

Carlo Ginzburg (3)














...Rocce gemelle di fronte a loro venivano al giudizio. Parlano con Iswor in tamang zoppicante, ma non possono entrare nel passaggio di roccia. Sembra così stretto da essere intransitabile, ed è bloccato dal ghiaccio. Anche la persona più esile rischia di rimanervi intrappolata.

....La roccia sa tutto…

 Il 27 giugno 1580, l’inquisitore fra’ Felice da Montefalco riprende la causa lasciata a mezzo dal suo predecessore, facendo comparire davanti a sé uno dei due… ‘benendanti’, Paolo Gasparutto….
Costui dichiara di ignorare per quale motivo sia stato chiamato. Si è confessato e comunicato ogni anno dal suo piovano; non ha mai sentito dire che a Iassico ‘ci sia alcuno che viva da lutherano, et viva malamente’.
Allora fra’ Felice chiede ‘se lui sa o conosca alcuno che sia…- strigone o benandante’-.
Il Gasparutto risponde negativamente: ‘di strigoni non so alcuno, né anco di benandante’. E improvvisamente scoppia a ridere: ‘Padre no che io non so… io non sonno benandante, né la profession mia è tale’.
…Allora l’inquisitore comincia a bersagliarlo di domande: ‘ha mai curato il figlio di Pietro Rorato?’.
‘Il Rotaro mi ha chiamato’, dice Paolo, ‘ma io gli ho risposto di non saperne nulla e di non poterlo aiutare’.
‘Ha mai parlato di benandanti con l’inquisitore passato e con il piovano di Iassico?’.
Paolo dapprima nega: poi ammette, sempre ridendo, di aver affermato di sognar di combattere con gli stregoni. Ma di fronte alle domande incalzanti dell’inquisitore, che gli ricorda particolari dei suoi racconti di cinque anni prima, riprende a negare, tra continui scoppi di risa.
Chiede il frate: ‘Perché hai tu riso?’.
E il Gasparutto, inaspettatamente: ‘perché queste non sonno cose da addimandarsi, perché si va contra il voler de Iddio’.
L’inquisitore insiste, sempre più sconcertato: ‘perché se va contra il volere de Iddio interrogandosi di queste cose?’.
A questo punto il benandante si accorge di aver detto troppo: ‘perché se addimanda cose che io non so’, risponde, e ritorna sulla negativa….




Il giorno stesso viene interrogato l’altro benandante, il banditore Battista Moduco, detto ‘Gamba Secura’, nato a Tralignano ma abitante da trent’anni a Cividale. Anch’egli dichiara di essersi confessato e comunicato regolarmente, e di non conoscere eretici: ma, interrogato a proposito di ‘stregoni’ e ‘benandanti’, risponde tranquillamente: ‘de stregoni non so che ve ne siano alcuni; et de benandanti io non conosco altri che mi’.
Immediatamente fra’ Felice chiede: ‘che vuol dire questa parola benandante?’.
Il Moduco sembra pentirsi dell’incauta risposta e cerca di volgere la cosa in scherzo: ‘benandanti io chiamo quelli che mi pagan bene, vo volentieri’. Tuttavia finisce per ammettere di aver detto a diverse persone di essere benandante, aggiungendo: ‘io delli altri non gli posso dire perché non posso andar contra il divin volere’. Per quanto riguarda la sua persona il Moduco dichiara senza esitare: ‘Io sonno benandante perché vo con li altri a combattere quattro volte l’anno, cioè le quattro tempora, di notte, invisibilmente con lo Spirito et resta il corpo; et noi andiamo in favor di Cristo (o de altri Profeti prima de Lui…) et li stregoni del diavolo, combattendo l’un con l’altro, noi con le mazze di finocchio et loro con le canne di sorgo’.
Non è difficile immaginare lo sconcerto dell’inquisitore di fronte a questi benandanti, per tanti versi simili a veri e propri stregoni (sciamani…), che contro gli stregoni (diavoli avversi….) si atteggiano a difensori della fede di Cristo.
Ma il Moduco non ha finito: ‘et se noi restiamo vincitori, quello anno è abbondanza, et perdendo è carestia in quel anno’. Più avanti preciserà: ‘nel combattere che facciamo, una volta combattiamo il formento con tutti li grasami, un’altra volta li minuti, alle volte li vini: et così in quattro volte si combatte tutti li frutti della terra, et quello che vien vento da benandanti quell’anno è abondanza’…




Il 24 settembre l’inquisitore fa condurre a Udine il Gasparutto, che non ha tenuto fede all’impegno (se ne scuserà affermando di essere stato malato) e lo fa incarcerare. Due giorni dopo il benandante viene nuovamente interrogato.
Finora i racconti del Moduco e del Gasparutto avevano mostrato un quasi assoluto parallelismo. A questo punto si ha uno scarto: il Gasparutto modifica la sua confessione in un punto essenziale, introducendo un elemento nuovo.
‘Io ho pensato di havere a dire la verità’, dichiara all’inizio dell’interrogatorio; e l’inquisitore che ripropone la domanda volta ad intaccare la cerniera ‘teologicamente’ più importante della sua confessione (“chi vi ha insegnato ad entrare in questa compagnia di questi benandanti?”) risponde inaspettatamente: ‘l’angelo del cielo… di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo somno… mi apparse un angelo tutto d’oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo Spirito andò fuori… egli mi chiamò per nome dicendo: “Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere per le biade” Io gli risposi: “ io andarò, et son obbediente” ’.
Come interpretare questa variazione?
A prima vista sembrerebbe ovvio supporre che, di fronte al prolungarsi degli interrogatori e alla nuova incarcerazione, il Gasparutto abbia tentato di districarsi dalle maglie dell’inquisizione accentuando ulteriormente le motivazioni cristiane della sua ‘professione’ con l’inserzione del motivo dell’angelo, senza avvedersi di aggravare così la propria posizione.
Il Gasparutto ha appena finito di parlare dell’apparizione dell’angelo ‘tutto d’oro’, che l’inquisitore insinua con repentina brutalità: ‘che cosa vi promesse, donne, da mangiare, salti et che cosa?’.
E’ bastato l’accenno all’angelo, fatto da Paolo per convincere fra’ Felice del carattere effettivamente diabolico dei ‘giochi’ dei benandanti, e della loro identità con il sabba…
Il Gasparutto nega recisamente, e si difende attribuendo le accuse che gli vengono mosse agli altri, ai nemici, agli stregoni: ‘non mi promesse alcuna cosa, ma quelli altri ballano et saltano, et gli ho visti perché combattemo con loro’.




Allora l’inquisitore attacca un altro caposaldo della narrazione di Paolo: ‘dove andò il Spirito vostro quando l’angelo vi chiamò?’.
‘Uscì fuora, perché nel corpo non può parlare’, rispose Paolo.
Ed il dialogo si fa serrato: ‘chi vi ha detto che ’l Spirito esca di fora acciò parli con l’angelo?’.
‘L’angelo medesimo me l’ha detto’.
‘Quante volte avete visto questo angelo?’.
‘Ogni volta che io andava fora, perché sempre veneva con me’ (e poco dopo aggiungerà: ‘lui sta in persona apresso la nostra bandiera’)’.
Finora si era avuto quasi un monologo del Gasparutto rotto solamente da richieste di chiarimenti da parte dell’inquisitore. Finché i racconti dei ‘giochi’ notturni dei benandanti rivelavano una realtà sconcertante, lievemente sospetta, ma comunque non inquadrabile nei consueti schemi demonologici, fra’ Felice aveva mantenuto un atteggiamento passivo, misto di stupore e di distaccata curiosità. Ora, di fronte allo spiraglio insperatamente offerto da Gasparutto, la tecnica dell’interrogatorio cambia, diventa palesemente suggestiva (ed intimidatoria, in riferimento a ciò dobbiamo considerare il fine dell’inquisitore, il quale non solo vigile pastore e custode dell’Anima quanto dello Spirito, di ogni Anima e Spirito, - ieri come oggi con prassi invariata ad altri delegata e comandata ed ugualmente ed efficacemente abdicata a una più moderna tecnica altrettanto vigile alla coscienza innestata e controllata, in cui lo Spirito relegato ad un materiale sogno ‘comandato’ e composto; non dimentichi, altresì, l’interesse puramente materiale dell’aspetto, o meglio, gli aspetti, che la stessa inquisizione (Orwelliana) incarna nei confronti degli ‘interessi’ puramente terreni dell’inquisito…): l’inquisitore vuole ad ogni costo far aderire le confessioni del benandante al modello (telogico ed in futuro ‘psicologico’) di cui dispone il suo manuale: il sabba.




Dapprima egli inquina subdolamente la figura dell’angelo con attributi demoniaci: ‘quando vi appare overo si parte da voi, vi spaventa questo angelo?’; Paolo ribatte puntigliosamente: ‘non ne spaventa mai, ma quando ci partemo dalla squadra ne dà la beneditione’.
‘Questo angelo non si fa adorare?’.
‘L’adoramo sì come adoriamo il nostro signor Jesu Cristo in chiesa’.
Allora fra’ Felice cambia discorso: ‘vi mena quest’angelo dove è quel altro in quella bella sedia?’.
Inutile dire che nel racconto del Gasparutto mancava qualsiasi accenno a diavoli o a sedie; ma la risposta anche questa volta è prontissima, e venata d’indignazione: ‘ma ’l non è della nostra lega, Dio ci guardi di impicciarci con quel falso nemico!... sonno li stregoni di quelle belle sedie’. 
L’inquisitore incalza: ‘havete mai visto li stregoni a  quella bella sedia?’.
E il Gasparutto, muovendo le braccia, sentendosi prigioniero della rete che gli è stata tesa dall’inquisitore: ‘ma signor no, che noi non femo altro che combattere!’.
Ma fra Felice è implacabile: ‘qual è più bel angelo, il vostro o quello di quella bella sedia?’.
E Paolo, contraddicendosi disperatamente: ‘non vi ho detto che non ho visto quelle sedie?...’.
Ormai il processo volge al termine…
L’inquisitore è sostanzialmente riuscito a ricondurre la testimonianza del Gasparutto all’interno dei propri schemi, delle proprie coordinate teologiche: i convegni dei benandanti e degli stregoni non sono altro che il sabba, e la ‘compagnia’ dei benandanti, che falsamente asseriscono di essere sotto la protezione divina e di combattere sotto la guida e la protezione di un angelo, è così diabolica. Di fronte all’incalzare delle domande dell’inquisitore la sicurezza del Gasparutto sembra vacillare, come se la realtà in cui egli credeva avesse improvvisamente mutato aspetto, gli fosse sfuggita dalle mani. Qualche giorno dopo, ripresentandosi a fra’ Felice, dichiarerà: ‘credo che la aparitione di quel angelo sia stato il demonio che mi tentasse, poi che mi avete detto che si può trasfigurare in agnolo’.




…Si è parlato dei benandanti come di una setta: una setta particolarissima, le cui cerimonie, a detta dei benandanti stessi, hanno la caratteristica di essere, staremmo per dire, puramente oniriche. In realtà i benandanti si esprimono diversamente, e non mettono mai in dubbio la ‘realtà’ dei loro convegni a cui si recano ‘in Spirito’. L’atteggiamento delle streghe processate in altre parti d’Italia (e non soltanto in Italia) era perfettamente analogo. Si veda ad esempio il caso di Domenica Barbarelli, una strega di Novi processata dall’inquisizione modenese nel 1532 la quale affermava l’andare in sogno ‘in Spirito’, anche in questo caso di Eresia l’‘andare in Spirito’ è percepito come qualcosa di reale; per questo la strega può beffarsi degli astanti: ella, o meglio il suo Spirito è veramente andato al ‘corso’. Ci soffermeremo più avanti sul significato di questo andare ‘in Spirito’ per streghe e benandanti; cominciamo intanto col notare che tanto le une che gli altri affermavano di cadere, prima di recarsi ai ‘convegni’, in uno stato di profonda prostrazione, di catalessi, sulla cui origine si è discusso molto. Si tratta di un problema senza dubbio marginale per l’interpretazione della stregoneria: anche se potessimo (e non possiamo) determinare con sicurezza la natura di questi stati catalettici, rimarrebbe da spiegare ciò che più importa, e cioè il significato delle ‘visioni’ di streghe e benandanti. Ma non c’è dubbio che il problema vada almeno posto (e valutato con ugual Spirito di ricerca).




Le interpretazioni avanzate sono sostanzialmente di due tipi: o si è supposto che streghe e stregoni fossero individui affetti di epilessia, o di isterismo, o da altre malattie nervose non meglio individuate; oppure si sono attribuite le perdite di coscienza accompagnate da allucinazioni, da essi narrate, all’azione di unguenti composti di sostanze soporifere o stupefacenti. Cominciamo col discutere la seconda ipotesi. Che le streghe si ungessero prima di recarsi al sabba, è risaputo. Già a metà del ’400 il teologo spagnolo Alfonso Tostado, commentando la ‘Genesi’, notava incidentalmente che le streghe spagnole, dopo aver pronunziato determinate parole, si spalmavano di unguenti e cadevano in un profondo sonno, che le rendeva insensibili perfino al fuoco o alle ferite; ma, risvegliate, asserivano di essersi recate in questo o quel luogo, magari lontanissimo, a ‘convegno’ con le altre compagne, banchettando e amoreggiando. Mezzo secolo più tardi, il Della Porta ottenne un identico risultato facendo ungere una vecchia in fama di stregoneria, ed elencando poi minutamente gli ingredienti dell’unguento adoperato. L’esperimento è stato ripetuto modernamente da due studiosi, con risultati discordanti. Sembra tuttavia ragionevole supporre che se non tutte, almeno una parte...