giuliano

venerdì 25 febbraio 2022

IL MONDO FINO A IERI (34)









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Più lo spirito... (33) 


& una raccomandazione  


In Viaggio... 


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Breve introduzione ai Diritti (35) 


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Commentario (36)







Più lo spirito si illuminava, e più si perfezionò l’industria.

 

La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti, la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione. Per il poeta è l’oro e l’argento; ma per il filosofo sono il ferro e il grano gli autori della civilizzazione degli uomini e della perdizione del genere umano. Così l’uno come l’altro erano sconosciuti ai selvaggi d’America, che per ciò son rimasti sempre tali; gli altri popoli sembran pure esser rimasti barbari, finché han praticato una di queste arti senza l’altra. E una delle migliori ragioni per cui l’Europa è stata, se non prima, almeno più costantemente e meglio civilizzata delle altre parti del mondo, è che essa è da un tempo la più abbondante di ferro e la più fertile di grano.

 

(J. J. Rousseau)




Come accennavo nel capitolo precedente, nelle società di piccola scala le guerre di tipo tradizionale sono diffuse ma non generalizzate. Gli interrogativi che sollevano sono tuttavia oggetto di acceso dibattito: come si definisce una guerra?

 

Le guerre cosiddette tribali sono guerre a tutti gli effetti?

 

Come paragonare il costo in vite umane delle guerre nelle società di piccola scala a quello delle guerre nelle società di larga scala?

 

Il contatto con gli europei e con società più centralizzate contribuisce ad aumentare o a diminuire i conflitti?

 

Esistono società umane particolarmente pacifiche?

 

Se sì, perché?

 

Infine: quali sono i moventi e le cause della guerra tradizionale?

 

Partiamo dalla prima domanda: come si definisce una guerra?



La violenza umana può infatti assumere molte forme, ma solo ad alcune si dà il nome di guerra. Naturalmente tutti chiamiamo guerra una battaglia fra grandi eserciti di soldati regolari al servizio di stati nemici in aperta e dichiarata ostilità, e la maggioranza di noi conviene che esistono forme di violenza umana che non rientrano invece in questa definizione, come i singoli omicidi (l’assassinio di un individuo per mano di un altro individuo appartenente alla stessa unità politica) o le faide famigliari in seno alla stessa unità politica (come quella scoppiata intorno al 1880 tra le famiglie Hatfield e McCoy, negli Stati Uniti orientali).

 

I casi limite includono violenze ricorrenti fra gruppi rivali all’interno della medesima unità politica, come gli scontri fra gang urbane (scontri normalmente chiamati guerra fra gang), cartelli della droga o fazioni politiche, laddove i combattimenti non abbiano ancora raggiunto lo stadio della guerra civile dichiarata (si prendano per esempio gli scontri tra le milizie fasciste e socialiste che in Italia e in Germania portarono all’ascesa al potere di Mussolini e Hitler).

 

Dove possiamo dunque tirare la linea di demarcazione?

 

Come spiegato da Steven LeBlanc:

 

‘Per risultare di una qualche utilità nello studio dei conflitti passati, le definizioni di guerra non devono dipendere dalle dimensioni del gruppo o dai metodi di combattimento impiegati [...] Molti studiosi definiscono guerra ciò che può essere riferito soltanto a società complesse dotate di attrezzi di metallo [in altre parole, a battaglie pianificate fra eserciti professionali] Tutto il resto, come per esempio qualche sporadica incursione, non viene perciò considerato guerra “vera”, ma qualcosa che, più affine al gioco, non desta particolare attenzione o preoccupazione. Un approccio di questo genere confonde tuttavia i metodi della guerra con i suoi risultati [...] Il conflitto tra unità politiche indipendenti porta a un numero di vittime e a una perdita territoriale significativi, nonché all’abbandono di alcuni territori perché divenuti troppo pericolosi per continuare a viverci? La popolazione dedica grandi quantità di tempo e di energia alla difesa? [...] Se i combattimenti hanno un forte impatto sulla popolazione, si tratta di guerra a prescindere dal metodo con cui viene condotta’.




Prendiamo ora una definizione abbastanza classica, quella contenuta nella quindicesima edizione della Encyclopaedia Britannica:

 

‘Stato di conflitto armato aperto e dichiarato fra unità politiche quali stati o nazioni, o tra fazioni politiche opposte del medesimo stato o nazione. La guerra è caratterizzata da atti di violenza intenzionale da parte di larghi gruppi di individui, espressamente organizzati e addestrati per partecipare a tali atti [...] In generale, si considerano guerre solo i conflitti armati su scala estesa e si escludono quelli che coinvolgono meno di 50000 combattenti’.

 

Come molte definizioni comunemente accettate, anche questa risulta di gran lunga troppo restrittiva per i nostri fini, in quanto implica ‘larghi gruppi di individui, espressamente organizzati e addestrati’ e nega dunque la possibilità della guerra all’interno delle società di piccole bande. Il prerequisito arbitrario di un minimo di 50000 combattenti corrisponde infatti a oltre sei volte l’intera popolazione (uomini guerrieri, donne e bambini) coinvolta nella guerra fra i dani del capitolo III, e in generale a popolazioni assai più numerose di quelle delle società di piccola scala oggetto del nostro libro.

 

Gli studiosi di quest’ultimo genere di società hanno quindi elaborato definizioni del concetto di guerra alternative e più ampie, simili fra loro e generalmente legate a tre condizioni.




La prima è che la violenza può essere perpetrata da gruppi di qualunque entità numerica, fuorché da singoli individui. (Un’uccisione portata a termine da un singolo è anche qui considerata un omicidio, non un atto di guerra).

 

La seconda è che la violenza abbia luogo fra gruppi appartenenti a unità politiche diverse.

 

Infine, la violenza deve essere sancita dall’intera unità politica, anche laddove a portarla avanti materialmente siano soltanto alcuni dei suoi membri. Da questo punto di vista, perciò, le uccisioni in seno alle famiglie Hatfield e McCoy non costituirono una guerra perché entrambe appartenevano alla medesima unità politica (gli Stati Uniti) e gli Stati Uniti nel loro complesso non approvavano la faida. Combinando fra loro le tre condizioni si giunge così alla sintetica definizione di guerra che utilizzerò in questo libro, simile alle definizioni formulate da altri studiosi sia di società di piccola scala, sia di società di tipo statale:

 

‘La guerra è uno stato di violenza ricorrente fra gruppi appartenenti a unità politiche contrapposte, sancito dalle unità stesse’.




[….] Negli ultimi 13000 anni della storia del genere umano c’è stata una tendenza ben definita all’emergere di società sempre più grandi e complesse. Si tratta certo di una media statistica, con molte oscillazioni e passi indietro (magari 1000 fusioni di stati contro 999 frammentazioni). E sotto gli occhi di tutti la disintegrazione in questi anni dell’ex Unione Sovietica, dell’ex Jugoslavia e dell’ex Cecoslovacchia, ed è ben noto il collasso di grandi imperi del passato come quello di Alessandro il Grande alla sua morte. Grandi unità sovranazionali, come gli imperi romano e cinese, possono soccombere di fronte a minacce esterne (i barbari e i mongoli rispettivamente) portate da popoli non organizzati in stati. Ma la tendenza di lungo periodo è chiara: si va dal semplice al complesso, dal piccolo al grande.

 

Certamente, parte del successo degli stati è dato dal fatto che sono in genere meglio dotati di armi e tecnologie, e hanno eserciti più numerosi. Ma non solo: per prima cosa, il processo di decisione centralizzata rende più facile concentrare truppe e risorse; inoltre il condizionamento ideologico e religioso può spingere alcuni eserciti a lottare con molto più accanimento, fino al sacrificio spontaneo.

 

Quest’ultimo fatto è cosi radicato nella nostra società, nella scuola, nella chiesa e nella politica, che ci dimentichiamo quanto sia stato dirompente il suo arrivo nella storia. Ogni stato in ogni epoca ha i suoi slogan patriottici, che incitano anche a morire se necessario per il bene comune: se da un lato gli spagnoli gridavano ‘Per Dio e per la Spagna!’, gli aztechi non erano da meno; dice un testo azteco: ‘Non c’è nulla come la morte in battaglia, nulla come la gloriosa morte tanto cara a Lui [il dio Huitzilopochtli], che dà la vita: già la vedo, il mio cuore anela a tanto!’.




Sono sentimenti impensabili in una banda o in una tribù. In tutti i racconti che i miei amici guineani mi hanno fatto delle loro guerre, manca ogni vago accenno al patriottismo o al sacrificio personale per il bene della tribù, o anche solo ad azioni militari condotte ben sapendo che si correva il rischio di venire uccisi. Le loro guerre erano fatte di imboscate e di attacchi in forze superiori, in modo da minimizzare la probabilità di morire. È un atteggiamento che rende gli eserciti tribali assai meno efficienti di quelli statali. Ovviamente, ciò che rende un kamikaze così pericoloso per gli avversari non è la sua morte in sé, ma la volontà di accettare la morte per una causa superiore, per sconfiggere i nemici, gli infedeli. Il fanatismo che ritroviamo nelle guerre tra Islam e Cristianità era probabilmente sconosciuto sul pianeta fino a 6000 anni fa.

 

Come fa una società piccola, non organizzata e fondata sui legami di parentela a diventare un’entità complessa con un governo centrale e tenuta insieme da rapporti non di sangue?

 

Dopo aver esaminato i vari stadi di questa trasformazione, possiamo chiederci perché mai sia avvenuta.




In molti momenti della storia gli stati sono sorti in modo indipendente, in assenza di altre società analoghe nei dintorni. La cosa è avvenuta almeno una volta, e quasi sicuramente anche di più, in tutti i continenti esclusa l’Australia e l’America settentrionale: in Mesopotamia, nella Cina settentrionale, nelle valli del Nilo e dell’Indo, in Mesoamerica, nelle Ande e in Africa occidentale. Stati indigeni in contatto con l’Occidente sono sorti negli ultimi tre secoli in Madagascar, nelle Hawaii e a Tahiti, e in molte parti dell’Africa. Le chefferies sono nate indipendentemente ancora più spesso, in tutte le regioni sopra elencate e in più in Nordamerica, in Amazzonia, in Polinesia e nell’Africa subsahariana. Abbiamo dunque molti dati a disposizione per rispondere alla nostra domanda.

 

Tra le molte teorie proposte per spiegare la nascita degli stati, la più semplice afferma che non c’è proprio nulla da spiegare. Secondo Aristotele questa è la condizione naturale del genere umano, e nulla più. Il suo errore è comprensibile, perché tutte le società che potevano essere note a un greco del IV secolo a. C. erano di questo tipo.

 

Noi sappiamo invece che ancora nel 1492 gran parte dell’umanità abitava in bande, tribù o chefferies. La nascita dello stato ha proprio bisogno di essere spiegata.

 

La teoria successiva è molto nota.




Secondo Jean-Jacques Rousseau gli stati si formano per un contratto sociale, una decisione razionale a cui si giunge dopo aver considerato i propri interessi e scoperto che questi sarebbero meglio tutelati in una società complessa. In pratica, però, non si è mai visto uno stato sorgere in questa eterea atmosfera di spassionata lungimiranza: le società più semplici non rinunciano spontaneamente alla sovranità per fondersi con altre, ma lo fanno perché conquistate o perché spinte da qualche altra pressione esterna.

 

Una terza teoria, ancora molto popolare, prende le mosse dal fatto assodato che in Mesopotamia, cosi come in Cina e in Messico, lo stato sorse più o meno contemporaneamente ai primi grandi sistemi di irrigazione, sistemi che richiedono un’organizzazione centralizzata per essere costruiti e mantenuti. Da questa osservazione si ricava un processo di causa ed effetto: alcuni popoli si accorsero di quanto sarebbe stato utile avere un sistema di irrigazione (che, per inciso, non avevano mai visto), e da veri lungimiranti tramutarono le loro inefficienti società in stati in grado di organizzare questi grandi lavori pubblici.

 

Questa ‘teoria idraulica’ della formazione degli stati si presta alle stesse obiezioni di quella di Rousseau, perché si occupa solo dello stadio finale dell’evoluzione, e non parla dell’impulso fondamentale che spinse dalle bande alle tribù alle chefferies nel corso dei millenni, molto prima che l’idea dell’irrigazione potesse balenare in mente a qualcuno. Inoltre è smentita dai dati archeologici più precisi: in Mesopotamia, Cina, Messico e Madagascar esistevano sistemi di canalizzazione delle acque anche prima della nascita degli stati, e le grandi opere di irrigazione arrivarono più tardi. Tra i maya e sulle Ande, i sistemi idraulici rimasero sempre su scala locale, e ogni piccola comunità poteva costruirsene uno. Quindi la nascita delle grandi opere fu una conseguenza dell’arrivo degli stati, che deve essere spiegato in altro modo.




Mi sembra che si vada nella giusta direzione se si osserva che il semplice numero degli abitanti di una regione è tra i più sicuri indicatori di complessità della medesima. Abbiamo visto che nel passaggio dalle bande alle tribù, alle chefferies e agli stati, la popolazione aumenta in modo considerevole, da poche decine fino ad almeno 50000. Oltre a questa correlazione generale tra numero e tipo di società, se ne osserva una analoga anche all’interno delle singole categorie: le chefferies più popolose, ad esempio, sono sempre le più socialmente stratificate e le più centralizzate.

 

Questo mostra con chiarezza che la popolazione e la sua densità hanno qualcosa a che fare con la nascita degli stati. Ma non ci dice nulla sul perché ciò accada, su quale sia la funzione precisa del numero nella catena di cause ed effetti che porta alle società complesse. Richiamiamo alla mente, però, cosa porta all’aumento di popolazione; potremo così capire perché una società numerosa ma poco strutturata non è in grado di sopravvivere, e quindi sapere perché la complessità deve per forza andare di pari passo con il numero.

 

Abbiamo visto che l’aumento della popolazione è provocato dalla produzione di cibo, o per lo meno da condizioni di eccezionale abbondanza delle risorse spontanee. Alcuni cacciatori-raccoglitori raggiunsero il livello delle chefferies, ma mai quello degli stati: gli stati nutrono i loro cittadini con il cibo da loro prodotto e coltivato.




Queste considerazioni hanno portato a una diatriba del genere ‘è nato prima l’uovo o la gallina’: nella fattispecie, è il progredire dell’agricoltura che fa aumentare la popolazione e quindi nascere le società complesse, o sono queste ultime che permettono la nascita dell’agricoltura?

 

La domanda, cosi posta, ci porta fuori strada. In realtà l’una favorisce l’altra per autocatalisi. La crescita della popolazione porta alla complessità, che a sua volta porta a una maggiore produzione di cibo, e quindi a un ulteriore aumento del numero degli abitanti. Le società complesse sono in grado di realizzare grandi opere pubbliche (tra cui i sistemi di irrigazione), di organizzare il commercio su lunghe distanze (tra cui l’importazione di metalli per fabbricare attrezzi agricoli migliori), di mantenere gruppi diversi di specialisti (ad esempio nutrendo i pastori con i cereali prodotti dai coltivatori, e dando a questi ultimi gli animali dei primi per trainare gli aratri): tutte cose che migliorano la produzione agricola.

 

Quest’ultima, a sua volta, ha tre caratteristiche importanti. Innanzitutto, ha ritmi di lavoro stagionali; quando il raccolto è tutto nei magazzini, le braccia dei contadini si rendono disponibili per i grandi lavori pubblici (sia celebrativi, come le piramidi, sia utili, come i sistemi di irrigazione) e per le guerre.

 

In secondo luogo, la produzione alimentare genera eccedenze che permettono la specializzazione e la stratificazione della società, eccedenze che servono a mantenere i capi e gli altri membri delle élite, gli scribi, gli artigiani e i contadini stessi, quando sono reclutati per i lavori forzati o per l’esercito.

 

Infine, spinge le società a diventare sedentarie, il che è un prerequisito per l’accumulo di beni, lo sviluppo della tecnologia e la costruzione di opere pubbliche. Quando i missionari e i funzionari di governo entrano in contatto con una tribù isolata, in Nuova Guinea come in Amazzonia, si pongono due obiettivi immediati: uno è ‘pacificare’ gli indigeni, cioè dissuaderli dall’uccidere gli stranieri o dall’ammazzarsi tra di loro; il secondo è costringerli a risiedere in permanenza nello stesso posto, cosi che possano essere facilmente raggiunti, curati, istruiti, controllati e catechizzati...

 

(J. Diamond)







giovedì 24 febbraio 2022

A DIVENTARE IMBECILLE (32)

 


















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Di perché l'uomo soggetto a... (31) 


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l'industria... (33)








In questo modo non si è obbligati a fare dell’uomo un filosofo prima di farne un uomo; i suoi doveri verso gli altri non gli sono unicamente dettati dai tardivi insegnamenti della saggezza; e fin che non resisterà all’impulso interno della compassione, egli non farà mai del male a un altro uomo, e neanche ad alcun essere sensibile, eccettuato il caso legittimo in cui, essendo in giuoco la sua conservazione, sia obbligato a dare la preferenza a se stesso.

 

Per questa via si terminano anche le antiche dispute sulla partecipazione degli animali alla legge naturale; perché è chiaro che, sprovvisti d’intelletto e di libertà, essi non possono riconoscere questa legge; ma, essendo in qualche modo partecipi della nostra natura, per la sensibilità di cui sono dotati, si giudicherà che debbano anche partecipare al diritto naturale, e che l’uomo sia soggetto verso loro a qualche specie di doveri. Sembra infatti che, se io sono obbligato a non fare alcun male al mio simile, ciò sia non tanto perché egli è un essere ragionevole, quanto perché è un essere sensibile, qualità che, essendo comune alla bestia e all’uomo, deve almeno dare alla prima il diritto di non essere maltrattata inutilmente dal secondo.




Questo stesso studio dell’uomo originale, dei suoi veri bisogni, e dei principi fondamentali dei suoi doveri, è ancora il solo mezzo buono che si possa adoperare per rimuovere tutte quelle difficoltà che si presentano riguardo all’origine della disuguaglianza morale, ai veri fondamenti del corpo politico, ai diritti reciproci dei suoi membri, e a mille altre questioni simili, tanto importanti quanto mal chiarite.

 

Considerando la società umana con uno sguardo tranquillo e disinteressato, essa non sembra mostrare da prima se non la violenza degli uomini potenti e l’oppressione dei deboli: lo spirito si rivolta contro la durezza dei primi; e poiché nulla è meno stabile fra gli uomini che queste relazioni esteriori, che il caso produce più spesso della saggezza, e che si chiaman debolezza o potenza, ricchezza o povertà, le istituzioni umane appaiono, a prima vista, fondate su mobili dune di sabbia: soltanto esaminandole da vicino, dopo aver rimossa la polvere e la sabbia che circondano l’edificio, si vede la base incrollabile sulla quale esso è eretto, e si impara a rispettarne le fondamenta.




Ora, senza lo studio serio dell’uomo, delle sue facoltà naturali e dei loro sviluppi successivi, non si verrà mai a capo di far tali distinzioni e di separare, nell’attuale costituzione delle cose, ciò che ha fatto la volontà divina, da ciò che l’arte umana ha preteso di fare. Le indagini politiche e morali, cui dà luogo l’importante questione che io esamino, son dunque utili in ogni modo, e la storia ipotetica dei governi è per l’uomo una lezione istruttiva sott’ogni rispetto. Considerando ciò che saremmo divenuti, lasciati a noi stessi, dobbiamo apprendere a benedire colui, la cui mano benefica, correggendo le nostre istituzioni e dando loro un assetto irremovibile, ha prevenuto i disordini che ne avessero a risultare, e fa nascere la nostra felicità dai mezzi stessi che parrebbero dover colmare la nostra miseria.

 

Io devo parlare dell’uomo; e il problema che esamino mi mostra che sto per parlare a uomini; perché non si propongono di tali problemi, quando s’abbia paura di onorare la verità. Difenderò dunque con fiducia la causa dell’umanità dinanzi ai saggi che m’invitano a farlo, e non sarò malcontento di me, se mi renderò degno del mio argomento e dei miei giudici.




Nella specie umana concepisco due specie di disuguaglianza; l’una, che chiamo naturale o fisica, perché è stabilita dalla natura, e consiste nella differenza di età, di salute, di forze del corpo e di qualità spirituali o dell’anima; l’altra, che può dirsi morale o politica, perché dipende da una specie di convenzione, ed è stabilita o almeno permessa dal consenso degli uomini. Questa consiste nei vari privilegi di cui alcuni godono a danno degli altri, come d’esser più ricchi, più onorati, più potenti di loro, o anche di farsene obbedire.

 

Non si può domandare quale sia la fonte della disuguaglianza naturale, perché la risposta si troverebbe enunciata nella semplice definizione della parola. Meno ancora si può cercare se non vi fosse qualche nesso essenziale fra le due disuguaglianze: perché ciò equivarrebbe a chiedere se coloro che comandano valgono necessariamente meglio di coloro che obbediscono, e se la forza fisica o spirituale, la saggezza o la virtù si trovin sempre negli stessi individui in proporzione della potenza o della ricchezza: questione buona forse a esser dibattuta fra schiavi ascoltati dai loro padroni, ma che non conviene a uomini ragionevoli e liberi, che cerchino la verità.

 

Di che dunque si tratta precisamente in questo discorso?




Di segnare nel corso delle cose il momento in cui, succedendo il diritto alla violenza, la natura fu sottomessa alla legge; per spiegare per qual concatenazione di prodigi il forte abbia potuto risolversi a servir il debole, e il popolo a comperare una quiete immaginaria a prezzo d’una felicità reale.

 

I filosofi che hanno esaminato i fondamenti della società, han sentito tutti la necessità di rimontare fino allo stato di natura, ma nessuno di loro vi è arrivato. Gli uni non hanno esitato ad attribuire all’uomo in questo stato la nozione del giusto e dell’ingiusto, senza preoccuparsi di mostrare che esso dovesse avere tale nozione, e neppure che questa gli fosse utile. Altri han parlato del diritto naturale, che ognuno ha di conservare ciò che gli appartiene, senza spiegare che cosa intendano per appartenere. Altri, dando inizialmente al più forte l’autorità sul più debole, han fatto nascere senz’altro il governo, senza pensare al tempo che dovette trascorrere, prima che il senso delle parole d’autorità e di governo potesse esistere fra gli uomini.




Infine tutti parlando continuamente di bisogno, di avidità, di oppressione, di desiderio e d’orgoglio, han trasportato nello stato di natura idee prese nella società: parlavan dell’uomo selvaggio e dipingevano l’uomo civile. Non è neppur venuto in mente alla maggior parte dei nostri autori di dubitare che lo stato di natura sia esistito; mentre è evidente, dalla lettura dei libri sacri, che il primo uomo, avendo ricevuto immediatamente da Dio intelligenza e precetti, non era affatto per suo conto in tale stato; e che, attribuendo agli scritti di Mosè la fede che deve loro ogni filosofo cristiano, bisogna negare che, anche prima del diluvio, gli uomini si sian trovati mai nel puro stato di natura, a meno che non vi sian ricaduti per qualche avvenimento straordinario: paradosso molto imbarazzante a difendere e del tutto impossibile a provare.

 

Cominciamo dunque dall’escludere tutti i dati di fatto, perché essi non concernono punto la questione. Non bisogna prender le ricerche, in cui si può entrare su questo argomento, per verità storiche, ma solo per ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatti a chiarire la natura delle cose che a mostrarne la vera origine, e simili a quelli che fan sempre i nostri fisici intorno alla formazione del mondo. La religione ci comanda di credere che, avendo Dio stesso tratto gli uomini dallo stato di natura subito dopo la creazione, essi son disuguali perché egli ha voluto che tali fossero; ma essa non ci vieta di formular ipotesi, tratte dalla sola natura dell’uomo e degli esseri che lo circondano, su ciò che avrebbe potuto diventare il genere umano se fosse rimasto abbandonato a se stesso.

 

Ecco ciò che io mi domando, e mi propongo di esaminare in questo Discorso.




E poiché il mio argomento interessa l’uomo in generale, mi studierò di assumere un linguaggio che convenga a tutte le nazioni; o piuttosto, dimenticando il tempo e i luoghi per non pensare che agli uomini cui parlo, mi supporrò nel Liceo d’Atene, ripetendo gli insegnamenti dei miei maestri, avendo i Platone e i Senocrate a giudici, e il genere umano ad ascoltatore.

 

O uomo, quale che sia il tuo paese, quali che siano le tue opinioni, ascolta: ecco la tua storia, quale ho creduto leggerla, non nei libri dei tuoi simili, che sono menzogneri, ma nella natura, che non mente mai. Tutto ciò che verrà da lei sarà vero; non ci sarà di falso se non quello che io vi avrò mescolato di mio senza volerlo. I tempi, di cui imprendo a parlare, sono ben lontani; come hai cambiato tu da quel che eri! È, per così dire, la vita della tua specie, quella che mi accingo a descriverti secondo le qualità che hai ricevuto, che la tua educazione e le tue abitudini han potuto, sì, depravare, ma non distruggere. V’è, lo sento, un’età alla quale l’uomo individuale vorrebbe arrestarsi: tu cercherai l’età alla quale desidereresti che la tua specie si fosse fermata. Malcontento del tuo stato presente, per ragioni che preannunciano alla tua posterità infelice malcontenti più gravi ancora, forse vorresti poter retrocedere; e questo sentimento deve far l’elogio dei tuoi primi antenati, la critica dei tuoi contemporanei, e lo spavento di coloro che avran la disgrazia di viver dopo di te.




[…] Non ho considerato fin qui che l’uomo fisico: cerchiamo ora di considerarlo dal lato metafisico e morale.

 

Io non vedo in ogni animale che una macchina ingegnosa, alla quale la natura ha dato sensi per ricaricarsi da sé e per proteggersi, fino a un certo punto, da tutto ciò che tenda a distruggerla o a guastarla. Scorgo precisamente le stesse cose nella macchina umana, con questa differenza, che la natura fa tutto da sola nelle operazioni della bestia, là dove l’uomo concorre alle sue, in qualità di agente libero.

 

L’una sceglie o respinge per istinto, e l’altro per un atto di libertà; ciò fa sì che la bestia non possa allontanarsi dalla regola che le è prescritta, anche quando le sarebbe vantaggioso il farlo, e l’uomo invece se ne allontani spesso a suo danno. Così accade che un piccione morrebbe di fame accanto a un piatto pieno delle miglior carni, e un gatto su di un mucchio di frutta o di grani, per quanto l’uno e l’altro potrebbero benissimo nutrirsi dell’alimento che disdegnano, se avessero l’accortezza di provarlo; così accade che gli uomini dissoluti si diano in preda a eccessi, che cagionano loro la febbre e la morte, perché l’intelligenza deprava i sensi e la volontà parla ancora quando la natura tace.




Ogni animale ha idee poiché ha sensi; combina anche le sue idee fino a un certo punto: e l’uomo non differisce sotto questo rispetto dalla bestia, se non dal più al meno; alcuni filosofi hanno anzi affermato che c’è più differenza da un dato uomo a un altro, che da un dato uomo a una data bestia. Non è dunque tanto l’intelligenza che formi la differenza specifica dell’uomo dagli altri animali, quanto la sua qualità di agente libero.

 

La natura comanda a ogni animale, e la bestia obbedisce.

 

L’uomo prova la stessa impressione; ma si riconosce libero di consentire o di resistere; e nella coscienza di questa libertà, sopra tutto, si mostra la spiritualità della sua anima; poiché la fisica spiega in qualche modo il meccanismo dei sensi e la formazione delle idee; ma nella potenza di volere, o piuttosto di scegliere, e nel sentimento di questa potenza, non si trovano che atti puramente spirituali, di cui nulla si spiega per via delle leggi della meccanica.




Ma, quand’anche le difficoltà che avvolgono tutte queste questioni lasciassero un po’ di posto per discutere di questa differenza fra l’uomo e l’animale, c’è un’altra qualità più che mai specifica che li distingue, sulla quale non vi può essere contestazione; ed è la facoltà di perfezionarsi, facoltà che, con l’aiuto delle circostanze, sviluppa successivamente tutte le altre, e risiede in noi tanto nella specie quanto nell’individuo; là dove un animale è già al termine di qualche mese ciò che sarà per tutta la vita, e la sua specie è ancora al termine di mille anni ciò che era nel primo anno di questi mille.

 

Perché l’uomo solo è soggetto a diventare imbecille?

 

Non forse perché ritorna così al suo stato primitivo, e, mentre la bestia, che non ha acquistato nulla e nulla ha neanche da perdere, resta sempre col suo istinto, l’uomo invece, tornando a perdere per vecchiaia o per altri accidenti tutto ciò che la sua perfettibilità gli aveva fatto acquistare, ricade così più in basso che la bestia stessa?




Sarebbe triste per noi essere costretti a convenire che questa facoltà distintiva e quasi illimitata è la fonte di tutte le disgrazie dell’uomo; che essa lo trae fuori, a forza di tempo, da quella condizione originaria, nella quale trascorrerebbe giorni tranquilli e innocenti; che essa, facendo sbocciare coi secoli la sua capacità intellettuale e i suoi errori, i suoi vizi e le sue virtù, lo rende a lungo andare il tiranno di se stesso e della natura. Sarebbe orribile essere obbligati a lodare come un essere benefico colui che primo suggerì all’abitante delle rive dell’Orenoco l’uso di quelle assicelle che egli applica alle tempie dei suoi figliuoli, e che assicurano loro almeno una parte della loro imbecillità e della loro felicità originaria.

 

L’uomo selvaggio, lasciato dalla natura in balìa del solo istinto, o piuttosto ricompensato di questo, che forse gli manca, per mezzo di altre facoltà capaci di supplirvi all’inizio e di innalzarlo in seguito molto al disopra di quella, comincerà dunque dalle funzioni puramente animali. Percepire e sentire sarà il suo stato primitivo, comune a lui con tutti gli animali; volere e non volere, desiderare e temere saran le prime e forse sole operazioni della sua anima, fin che nuove circostanze non vi producano nuovi sviluppi.




Che ne dicano i moralisti, l’intelletto umano deve molto alle passioni, che, per confessione comune, gli devon molto del pari; per l’attività loro si perfeziona la nostra ragione; noi non cerchiamo di conoscere se non perché desideriamo godere; e non è possibile capire perché mai chi non avesse desideri né timori si darebbe pena di ragionare.

 

Le passioni a lor volta traggono origine dai nostri bisogni, e progresso dalle nostre conoscenze; giacché non si può desiderare o temere le cose, se non in base alle idee che si possa averne, o per semplice impulso di natura; e l’uomo selvaggio, privo d’ogni specie di scienza, non prova se non le passioni di quest’ultima specie; i suoi desideri non oltrepassano i bisogni fisici; i soli beni che conosca nell’universo sono il cibo, la femmina e il riposo; i soli mali che tema sono il dolore e la fame. Dico il dolore e non la morte; perché l’animale non saprà mai che sia morire; e la conoscenza della morte e dei suoi terrori è uno dei primi acquisti che l’uomo ha fatto, allontanandosi dalla condizione animale…

 

(J.J. Rousseau)









venerdì 18 febbraio 2022

(la perenne follia) DELL' IDIOTA (30)

 





















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...Della perenne follia  (29) 


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l'uomo...: (31/2)









Nella figura dello Sciocco si propone un curioso e irripetibile incrocio di adulto e di bambino - un corpo di uomo con l’anima di fanciullo. A questo personaggio e riservato il compito di scoprire il gioco delle ipocrisie altrui, di dare voce alla verità rappresentando l’ingenuità e il candore infantili, il sapere ultimo delle cose del mondo rivelato ai piccoli e agli indifesi. Pura figura di un intatto mondo sacrale, conosce solo il casto amore dell’anima. Nel palcoscenico della vita quotidiana solo il povero idiota non recita una parte prestabilita, e con la sua ingenua semplicità resta sempre e solo se stesso.


Egli il solo a sapere che nel mondo si muovono ombre e non persone, che dietro le maschere ci sono visi che vogliono nascondere, con gli inganni delle apparenze, i desideri e le passioni di anime inquiete. II Sempliciotto e ingenuo e schietto, dolce e mansueto, capa ce di leggere in fondo all’anima e di parlare a cuore aperto: con il suo sorriso riesce a infondere serenità e fiducia alle persone più' diffidenti mettendole subito a loro agio. Egli sa cogliere armonia e unione il dove gli altri non vedono che disaccordo e assurdità.




L’insegnamento fondamentale di questa sapienza e racchiuso nell’idea che non si può vivere pienamente se non per gli altri. Agli uomini che non sono in pace con se stessi un’intelligenza di questo tipo appare come un difetto, una malriuscita furberia o, addirittura, una follia e un’idiozia. Nel momento in cui qualcuno realizza da solo di essere un povero stolto superbo smette di essere tale ed acquisisce la vera sapienza, ‘la saggezza degli idioti’. II mondo intero dunque popolato da stupidi, e l’unica persona davvero autentica e il povero idiota che con la sua modestia sfida l’ironia e la derisione altrui.

 

Umile e mansueto come l’asino della tradizione biblica, lo stolto cum ratione del folklore russo possiede una ‘saggia stupidità’ che trionfa sempre nel momento in cui attacca la ‘saggezza stupida’ di chi si crede sapiente. Nella sua idiozia compare l’annuncio della verità alla quale tutti gli ipocriti hanno rinunciato perdendo cosi la loro vera identità. Egli vorrebbe suscitare sentimenti autentici che elevino lo spirito del suoi amici, ma non si rende conto di essere il bersaglio del loro brutale sarcasmo, non capisce come mai parlino di lui a bassa voce in sua presenza guardandolo in modo strano. Ecco perché si sente sempre sotto giudizio, si blocca per la paura di sbagliare, un escluso condannato a vivere con sofferenza la sua innocente diversità.




La sua sublime idiozia l’incapacità di giudicare e di condannare gli permette comunque di essere felice e di credere nell’intima capacita dell’uomo di amare unendo e accettando senza distinzione il buono e il cattivo. Egli il solo personaggio che si presenta sempre a viso aperto: non ha mai indossato maschere. non sa recitare, ignora le regole del teatro universale e per questo a volte offende con la sua spontaneità il regno della forma e delle convenzioni. E l’unico personaggio a comparire ‘nudo’, incapace com’è di comportarsi secondo le regole imposte dalle convenzioni. Non si sa muovere nel regno della formalità dove i suoi amici invece si destreggiano egregiamente non si sforza di nascondere i segni dell’insania che traspaiono visibilmente dai lineamenti del suo volto. Non conosce il disprezzo, l’ironia, la risposta tagliente. Quello che incanta in lui e la naturalezza: una semplicità e una bonarietà piene di candida grazia, una bontà che non conosce le intenzioni, i programmi e i propositi ma nasce spontaneamente dalle profondità del cuore.

 

Il cuore dello Scemo del villaggio aperto all’amore: egli suscita con il suo innocente comportamento il riso degli altri, ne è ferito, ma sa perdonarlo. II suo animo non conosce rancore: calunniato e dileggiato da alcuni giovani prepotenti e superbi, non cerca di sanare l’offesa con la vendetta, ma cosi facendo si rende ridicolo ai loro occhi e passa per idiota. La sua cieca fiducia non sembra capace di avvertire Io scherzo e l’ironia. La sua ingenuità lo porta addirittura a considerare lo sberleffo altrui come un segno di benevolenza nei suoi confronti, che bisogna imparare ad accettare e amare.




Ivan lo Sciocco del folklore russo non lontano dalla follia: le fiabe raccontano che egli vive costantemente ai limiti dell’equilibrio umano, assalito dall’eccesso dei pensieri, in balia degli impulsi e delle sensazioni, immerso in un mondo di improbabili sogni, aggredito dal reale e dall’irreale, dall’impossibile e dall’impensabile. Egli e il capro espiatorio della comunità rurale, lo zimbello dei bambini, il più mite abitante del villaggio turlupinato dai compaesani più furbi che passa le giornate all’aria aperta girando per la campagna con gli abiti strappati a brandelli, il misero pastrano ridotto a brandelli e la camicia stracciata che ripara appena il suo scarno corpo irrigidito dal gelo e bagnato dalla neve disciolta.

 

Analogamente il folle in Cristo (jurodivyj) delle agiografie, mite agnello del Signore, subisce i torti senza ribellarsi e accoglie su di sé tutti i peccati dell’umanità. Il santo stolto era considerato come uno straniero nella sua stessa patria. Egli e profeta di un Cristianesimo fatto di amore concreto, di attività incessante, di fiducia che non si arrende, di una silenziosa umiltà che non dispera mai. I piccoli, raccontano le agiografie, erano incuriositi dal folle sacro, lo guardavano attenti e silenziosi senza negargli all’occasione la loro derisione e il loro scherno. Gli jurodivye della Santa Russia amavano molto i fanciulli e li rispettavano profondamente anche se erano spesso vittime dei loro terribili scherzi.




Scontrosi con gli adulti superbi e menzogneri, essi dimostravano una particolare benevolenza solo verso i bambini e gli ingenui, umili vittime di torti ed ingiustizie  coloro che nella vita erano ingiustamente schiacciati dai forti. Creature predilette dal Padre celeste, avevano ricevuto una sorta di dono profetico innato. Depositari dei segreti, delle debolezze e delle umane miserie, incarnavano agli occhi del mondo la saggezza dello spirito al riparo dal male. Non era dato a tutti il dono di saper essere semplici: solo i piccoli e gli innocenti lo erano per volontà divina. Esempio di dolcezza e di purezza per i cristiani peccatori, i ragazzi vedevano tutto con occhi limpidi e sinceri ma sapevano anche essere terribili nel giudicare lasciandosi a volte ingannare dalle apparenze.

 

Nel 1578 nacque nel villaggio di Korjakin, a sei verste da Chlynov (governatorato di Vjatka) il beato Prokopij (Prokopij Vjatskij), unico figlio di una devota coppia di contadini sposati da molti anni. Quando il ragazzo compì i dodici anni, il padre lo portò a lavorare nei campi. Un giorno scoppiò un violento temporale e il cavallo sul quale stava viaggiando il giovane si imbizzarrì e lo disarcionandolo violentemente. I genitori disperati lo portarono al monastero della Dormizione di Vjatka e lo affidarono alle preghiere del santo archimandrita Trifon. II fanciullo riacquistò la salute e dopo qualche tempo lasciò la casa paterna e si trasferì in una città vicina, ove lavorò per tre anni come inserviente del sacerdote Ilarion, presso la Chiesa di Santa Caterina Martire. Nel villaggio nativo nessuno seppe più nulla di lui, e cosi i due anziani braccianti pensarono che il loro unico figlio si fosse sposato. Prokopij invece iniziò a comportarsi come uno jurodivyj: andava in giro nudo, alternava le profezie a lunghi silenzi, suonava le campane di notte. I fanciulli di campagna lo deridevano per il suo ridicolo aspetto fisico e il disordine della sua persona, ma egli non riusciva mai a passare con indifferenza accanto a loro. Al suo passaggio i monelli si scambiavano un’occhiata di intesa, sulle loro labbra aleggiava un ghigno beffardo e, in men che non si dica, volavano sul povero folle una pioggia di pietre.




Il miserabile sopportò tutte queste umiliazioni con beata rassegnazione fino alla morte, avvenuta il 21 dicembre 1627. Venne sepolto nel Monastero della Dormizione accanto a Trifon, il santo monaco che lo aveva guarito da bambino.

 

In uno sperduto villaggio a 50 verste da Tot’ma (governatorato di Vologda) nacque nel luglio 1638 Andrej lo stolto di Dio (Andrej Totemski). Frequentò la scuola locale iniziando a meditare sin dalla pio tenera età sulle Scritture. Era noto per le sue stranezze e le sue doti profetiche. Alla morte dei genitori si ritirò nel vicino Monastero della Resurrezione vivendo in completa umiltà e cibandosi di solo pane e acqua. Lasciò il convento in seguito alla morte del caro egumeno Stefan, che non aveva mai permesso ai confratelli di maltrattarlo e di insultarlo a causa del suo bizzarro comporta mento. Vagabondò a lungo nelle foreste presso il fiume Suchona e si stabili a Tot’ma, ove nessuno lo conosceva. Lungo gli argini andavano spesso a giocare dei bambini e ben presto lo jurodivyj divenne il loro beniamino, il compagno di giochi preferito. Spesso egli sentiva le loro allegre voci dalla sua capanna e correva a salutarli per trascorrere qualche ora in allegria. Un giorno un ragazzo lo colpì con una verga di ferro. Il santo folle cadde svenuto a terra ma rimase illeso e non disse nulla al suo aggressore. L’insolente monello non ammise il suo errore né si scusò per l’incidente, ma venne punito da Dio e poco dopo stramazzò al suolo privo di vita.




Nel XVI secolo visse nella città di Jur’evec sul Volga lo jurodivy Simon (Simon Jur’evckij). Figlio di semplici contadini, lavorò per parecchio tempo come domestico presso un prete. Era noto tra la gente per i suoi miracoli e per il dono di saper camminare sull’acqua, ma non aveva mai posseduto un paio di scarpe. Andava in giro con la sola camicia trascorrendo l’intera giornata a chiedere l’elemosina in città e vegliando la notte in preghiera. Come tutti i folli in Cristo amava molto i bambini, li proteggeva e li benediceva. Il suo affetto verso i più piccoli abitanti della città infastidì molto i genitori, che cercavano di evitarlo il più possibile durante le passeggiate pomeridiane con i piccoli o nei giorni di festa. Il santo stolto morì in giovane età a causa delle terribili bastonate inflitte per ordine del vojvoda, il governatore locale. Le raffigurazioni iconografiche di questo beato ancora fanciullo lo presentano come un giovinetto indifeso dallo sguardo mite. 

(M. P. Pagani)