giuliano

venerdì 25 febbraio 2022

IL MONDO FINO A IERI (34)









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Commentario (36)







Più lo spirito si illuminava, e più si perfezionò l’industria.

 

La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti, la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione. Per il poeta è l’oro e l’argento; ma per il filosofo sono il ferro e il grano gli autori della civilizzazione degli uomini e della perdizione del genere umano. Così l’uno come l’altro erano sconosciuti ai selvaggi d’America, che per ciò son rimasti sempre tali; gli altri popoli sembran pure esser rimasti barbari, finché han praticato una di queste arti senza l’altra. E una delle migliori ragioni per cui l’Europa è stata, se non prima, almeno più costantemente e meglio civilizzata delle altre parti del mondo, è che essa è da un tempo la più abbondante di ferro e la più fertile di grano.

 

(J. J. Rousseau)




Come accennavo nel capitolo precedente, nelle società di piccola scala le guerre di tipo tradizionale sono diffuse ma non generalizzate. Gli interrogativi che sollevano sono tuttavia oggetto di acceso dibattito: come si definisce una guerra?

 

Le guerre cosiddette tribali sono guerre a tutti gli effetti?

 

Come paragonare il costo in vite umane delle guerre nelle società di piccola scala a quello delle guerre nelle società di larga scala?

 

Il contatto con gli europei e con società più centralizzate contribuisce ad aumentare o a diminuire i conflitti?

 

Esistono società umane particolarmente pacifiche?

 

Se sì, perché?

 

Infine: quali sono i moventi e le cause della guerra tradizionale?

 

Partiamo dalla prima domanda: come si definisce una guerra?



La violenza umana può infatti assumere molte forme, ma solo ad alcune si dà il nome di guerra. Naturalmente tutti chiamiamo guerra una battaglia fra grandi eserciti di soldati regolari al servizio di stati nemici in aperta e dichiarata ostilità, e la maggioranza di noi conviene che esistono forme di violenza umana che non rientrano invece in questa definizione, come i singoli omicidi (l’assassinio di un individuo per mano di un altro individuo appartenente alla stessa unità politica) o le faide famigliari in seno alla stessa unità politica (come quella scoppiata intorno al 1880 tra le famiglie Hatfield e McCoy, negli Stati Uniti orientali).

 

I casi limite includono violenze ricorrenti fra gruppi rivali all’interno della medesima unità politica, come gli scontri fra gang urbane (scontri normalmente chiamati guerra fra gang), cartelli della droga o fazioni politiche, laddove i combattimenti non abbiano ancora raggiunto lo stadio della guerra civile dichiarata (si prendano per esempio gli scontri tra le milizie fasciste e socialiste che in Italia e in Germania portarono all’ascesa al potere di Mussolini e Hitler).

 

Dove possiamo dunque tirare la linea di demarcazione?

 

Come spiegato da Steven LeBlanc:

 

‘Per risultare di una qualche utilità nello studio dei conflitti passati, le definizioni di guerra non devono dipendere dalle dimensioni del gruppo o dai metodi di combattimento impiegati [...] Molti studiosi definiscono guerra ciò che può essere riferito soltanto a società complesse dotate di attrezzi di metallo [in altre parole, a battaglie pianificate fra eserciti professionali] Tutto il resto, come per esempio qualche sporadica incursione, non viene perciò considerato guerra “vera”, ma qualcosa che, più affine al gioco, non desta particolare attenzione o preoccupazione. Un approccio di questo genere confonde tuttavia i metodi della guerra con i suoi risultati [...] Il conflitto tra unità politiche indipendenti porta a un numero di vittime e a una perdita territoriale significativi, nonché all’abbandono di alcuni territori perché divenuti troppo pericolosi per continuare a viverci? La popolazione dedica grandi quantità di tempo e di energia alla difesa? [...] Se i combattimenti hanno un forte impatto sulla popolazione, si tratta di guerra a prescindere dal metodo con cui viene condotta’.




Prendiamo ora una definizione abbastanza classica, quella contenuta nella quindicesima edizione della Encyclopaedia Britannica:

 

‘Stato di conflitto armato aperto e dichiarato fra unità politiche quali stati o nazioni, o tra fazioni politiche opposte del medesimo stato o nazione. La guerra è caratterizzata da atti di violenza intenzionale da parte di larghi gruppi di individui, espressamente organizzati e addestrati per partecipare a tali atti [...] In generale, si considerano guerre solo i conflitti armati su scala estesa e si escludono quelli che coinvolgono meno di 50000 combattenti’.

 

Come molte definizioni comunemente accettate, anche questa risulta di gran lunga troppo restrittiva per i nostri fini, in quanto implica ‘larghi gruppi di individui, espressamente organizzati e addestrati’ e nega dunque la possibilità della guerra all’interno delle società di piccole bande. Il prerequisito arbitrario di un minimo di 50000 combattenti corrisponde infatti a oltre sei volte l’intera popolazione (uomini guerrieri, donne e bambini) coinvolta nella guerra fra i dani del capitolo III, e in generale a popolazioni assai più numerose di quelle delle società di piccola scala oggetto del nostro libro.

 

Gli studiosi di quest’ultimo genere di società hanno quindi elaborato definizioni del concetto di guerra alternative e più ampie, simili fra loro e generalmente legate a tre condizioni.




La prima è che la violenza può essere perpetrata da gruppi di qualunque entità numerica, fuorché da singoli individui. (Un’uccisione portata a termine da un singolo è anche qui considerata un omicidio, non un atto di guerra).

 

La seconda è che la violenza abbia luogo fra gruppi appartenenti a unità politiche diverse.

 

Infine, la violenza deve essere sancita dall’intera unità politica, anche laddove a portarla avanti materialmente siano soltanto alcuni dei suoi membri. Da questo punto di vista, perciò, le uccisioni in seno alle famiglie Hatfield e McCoy non costituirono una guerra perché entrambe appartenevano alla medesima unità politica (gli Stati Uniti) e gli Stati Uniti nel loro complesso non approvavano la faida. Combinando fra loro le tre condizioni si giunge così alla sintetica definizione di guerra che utilizzerò in questo libro, simile alle definizioni formulate da altri studiosi sia di società di piccola scala, sia di società di tipo statale:

 

‘La guerra è uno stato di violenza ricorrente fra gruppi appartenenti a unità politiche contrapposte, sancito dalle unità stesse’.




[….] Negli ultimi 13000 anni della storia del genere umano c’è stata una tendenza ben definita all’emergere di società sempre più grandi e complesse. Si tratta certo di una media statistica, con molte oscillazioni e passi indietro (magari 1000 fusioni di stati contro 999 frammentazioni). E sotto gli occhi di tutti la disintegrazione in questi anni dell’ex Unione Sovietica, dell’ex Jugoslavia e dell’ex Cecoslovacchia, ed è ben noto il collasso di grandi imperi del passato come quello di Alessandro il Grande alla sua morte. Grandi unità sovranazionali, come gli imperi romano e cinese, possono soccombere di fronte a minacce esterne (i barbari e i mongoli rispettivamente) portate da popoli non organizzati in stati. Ma la tendenza di lungo periodo è chiara: si va dal semplice al complesso, dal piccolo al grande.

 

Certamente, parte del successo degli stati è dato dal fatto che sono in genere meglio dotati di armi e tecnologie, e hanno eserciti più numerosi. Ma non solo: per prima cosa, il processo di decisione centralizzata rende più facile concentrare truppe e risorse; inoltre il condizionamento ideologico e religioso può spingere alcuni eserciti a lottare con molto più accanimento, fino al sacrificio spontaneo.

 

Quest’ultimo fatto è cosi radicato nella nostra società, nella scuola, nella chiesa e nella politica, che ci dimentichiamo quanto sia stato dirompente il suo arrivo nella storia. Ogni stato in ogni epoca ha i suoi slogan patriottici, che incitano anche a morire se necessario per il bene comune: se da un lato gli spagnoli gridavano ‘Per Dio e per la Spagna!’, gli aztechi non erano da meno; dice un testo azteco: ‘Non c’è nulla come la morte in battaglia, nulla come la gloriosa morte tanto cara a Lui [il dio Huitzilopochtli], che dà la vita: già la vedo, il mio cuore anela a tanto!’.




Sono sentimenti impensabili in una banda o in una tribù. In tutti i racconti che i miei amici guineani mi hanno fatto delle loro guerre, manca ogni vago accenno al patriottismo o al sacrificio personale per il bene della tribù, o anche solo ad azioni militari condotte ben sapendo che si correva il rischio di venire uccisi. Le loro guerre erano fatte di imboscate e di attacchi in forze superiori, in modo da minimizzare la probabilità di morire. È un atteggiamento che rende gli eserciti tribali assai meno efficienti di quelli statali. Ovviamente, ciò che rende un kamikaze così pericoloso per gli avversari non è la sua morte in sé, ma la volontà di accettare la morte per una causa superiore, per sconfiggere i nemici, gli infedeli. Il fanatismo che ritroviamo nelle guerre tra Islam e Cristianità era probabilmente sconosciuto sul pianeta fino a 6000 anni fa.

 

Come fa una società piccola, non organizzata e fondata sui legami di parentela a diventare un’entità complessa con un governo centrale e tenuta insieme da rapporti non di sangue?

 

Dopo aver esaminato i vari stadi di questa trasformazione, possiamo chiederci perché mai sia avvenuta.




In molti momenti della storia gli stati sono sorti in modo indipendente, in assenza di altre società analoghe nei dintorni. La cosa è avvenuta almeno una volta, e quasi sicuramente anche di più, in tutti i continenti esclusa l’Australia e l’America settentrionale: in Mesopotamia, nella Cina settentrionale, nelle valli del Nilo e dell’Indo, in Mesoamerica, nelle Ande e in Africa occidentale. Stati indigeni in contatto con l’Occidente sono sorti negli ultimi tre secoli in Madagascar, nelle Hawaii e a Tahiti, e in molte parti dell’Africa. Le chefferies sono nate indipendentemente ancora più spesso, in tutte le regioni sopra elencate e in più in Nordamerica, in Amazzonia, in Polinesia e nell’Africa subsahariana. Abbiamo dunque molti dati a disposizione per rispondere alla nostra domanda.

 

Tra le molte teorie proposte per spiegare la nascita degli stati, la più semplice afferma che non c’è proprio nulla da spiegare. Secondo Aristotele questa è la condizione naturale del genere umano, e nulla più. Il suo errore è comprensibile, perché tutte le società che potevano essere note a un greco del IV secolo a. C. erano di questo tipo.

 

Noi sappiamo invece che ancora nel 1492 gran parte dell’umanità abitava in bande, tribù o chefferies. La nascita dello stato ha proprio bisogno di essere spiegata.

 

La teoria successiva è molto nota.




Secondo Jean-Jacques Rousseau gli stati si formano per un contratto sociale, una decisione razionale a cui si giunge dopo aver considerato i propri interessi e scoperto che questi sarebbero meglio tutelati in una società complessa. In pratica, però, non si è mai visto uno stato sorgere in questa eterea atmosfera di spassionata lungimiranza: le società più semplici non rinunciano spontaneamente alla sovranità per fondersi con altre, ma lo fanno perché conquistate o perché spinte da qualche altra pressione esterna.

 

Una terza teoria, ancora molto popolare, prende le mosse dal fatto assodato che in Mesopotamia, cosi come in Cina e in Messico, lo stato sorse più o meno contemporaneamente ai primi grandi sistemi di irrigazione, sistemi che richiedono un’organizzazione centralizzata per essere costruiti e mantenuti. Da questa osservazione si ricava un processo di causa ed effetto: alcuni popoli si accorsero di quanto sarebbe stato utile avere un sistema di irrigazione (che, per inciso, non avevano mai visto), e da veri lungimiranti tramutarono le loro inefficienti società in stati in grado di organizzare questi grandi lavori pubblici.

 

Questa ‘teoria idraulica’ della formazione degli stati si presta alle stesse obiezioni di quella di Rousseau, perché si occupa solo dello stadio finale dell’evoluzione, e non parla dell’impulso fondamentale che spinse dalle bande alle tribù alle chefferies nel corso dei millenni, molto prima che l’idea dell’irrigazione potesse balenare in mente a qualcuno. Inoltre è smentita dai dati archeologici più precisi: in Mesopotamia, Cina, Messico e Madagascar esistevano sistemi di canalizzazione delle acque anche prima della nascita degli stati, e le grandi opere di irrigazione arrivarono più tardi. Tra i maya e sulle Ande, i sistemi idraulici rimasero sempre su scala locale, e ogni piccola comunità poteva costruirsene uno. Quindi la nascita delle grandi opere fu una conseguenza dell’arrivo degli stati, che deve essere spiegato in altro modo.




Mi sembra che si vada nella giusta direzione se si osserva che il semplice numero degli abitanti di una regione è tra i più sicuri indicatori di complessità della medesima. Abbiamo visto che nel passaggio dalle bande alle tribù, alle chefferies e agli stati, la popolazione aumenta in modo considerevole, da poche decine fino ad almeno 50000. Oltre a questa correlazione generale tra numero e tipo di società, se ne osserva una analoga anche all’interno delle singole categorie: le chefferies più popolose, ad esempio, sono sempre le più socialmente stratificate e le più centralizzate.

 

Questo mostra con chiarezza che la popolazione e la sua densità hanno qualcosa a che fare con la nascita degli stati. Ma non ci dice nulla sul perché ciò accada, su quale sia la funzione precisa del numero nella catena di cause ed effetti che porta alle società complesse. Richiamiamo alla mente, però, cosa porta all’aumento di popolazione; potremo così capire perché una società numerosa ma poco strutturata non è in grado di sopravvivere, e quindi sapere perché la complessità deve per forza andare di pari passo con il numero.

 

Abbiamo visto che l’aumento della popolazione è provocato dalla produzione di cibo, o per lo meno da condizioni di eccezionale abbondanza delle risorse spontanee. Alcuni cacciatori-raccoglitori raggiunsero il livello delle chefferies, ma mai quello degli stati: gli stati nutrono i loro cittadini con il cibo da loro prodotto e coltivato.




Queste considerazioni hanno portato a una diatriba del genere ‘è nato prima l’uovo o la gallina’: nella fattispecie, è il progredire dell’agricoltura che fa aumentare la popolazione e quindi nascere le società complesse, o sono queste ultime che permettono la nascita dell’agricoltura?

 

La domanda, cosi posta, ci porta fuori strada. In realtà l’una favorisce l’altra per autocatalisi. La crescita della popolazione porta alla complessità, che a sua volta porta a una maggiore produzione di cibo, e quindi a un ulteriore aumento del numero degli abitanti. Le società complesse sono in grado di realizzare grandi opere pubbliche (tra cui i sistemi di irrigazione), di organizzare il commercio su lunghe distanze (tra cui l’importazione di metalli per fabbricare attrezzi agricoli migliori), di mantenere gruppi diversi di specialisti (ad esempio nutrendo i pastori con i cereali prodotti dai coltivatori, e dando a questi ultimi gli animali dei primi per trainare gli aratri): tutte cose che migliorano la produzione agricola.

 

Quest’ultima, a sua volta, ha tre caratteristiche importanti. Innanzitutto, ha ritmi di lavoro stagionali; quando il raccolto è tutto nei magazzini, le braccia dei contadini si rendono disponibili per i grandi lavori pubblici (sia celebrativi, come le piramidi, sia utili, come i sistemi di irrigazione) e per le guerre.

 

In secondo luogo, la produzione alimentare genera eccedenze che permettono la specializzazione e la stratificazione della società, eccedenze che servono a mantenere i capi e gli altri membri delle élite, gli scribi, gli artigiani e i contadini stessi, quando sono reclutati per i lavori forzati o per l’esercito.

 

Infine, spinge le società a diventare sedentarie, il che è un prerequisito per l’accumulo di beni, lo sviluppo della tecnologia e la costruzione di opere pubbliche. Quando i missionari e i funzionari di governo entrano in contatto con una tribù isolata, in Nuova Guinea come in Amazzonia, si pongono due obiettivi immediati: uno è ‘pacificare’ gli indigeni, cioè dissuaderli dall’uccidere gli stranieri o dall’ammazzarsi tra di loro; il secondo è costringerli a risiedere in permanenza nello stesso posto, cosi che possano essere facilmente raggiunti, curati, istruiti, controllati e catechizzati...

 

(J. Diamond)







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