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l'industria... (33)
In
questo modo non si è obbligati a fare dell’uomo un filosofo prima di farne un
uomo; i suoi doveri verso gli altri non gli sono unicamente dettati dai tardivi
insegnamenti della saggezza; e fin che non resisterà all’impulso interno della
compassione, egli non farà mai del male a un altro uomo, e neanche ad alcun
essere sensibile, eccettuato il caso legittimo in cui, essendo in giuoco la sua
conservazione, sia obbligato a dare la preferenza a se stesso.
Per
questa via si terminano anche le antiche dispute sulla partecipazione degli
animali alla legge naturale; perché è chiaro che, sprovvisti d’intelletto e di
libertà, essi non possono riconoscere questa legge; ma, essendo in qualche modo
partecipi della nostra natura, per la sensibilità di cui sono dotati, si
giudicherà che debbano anche partecipare al diritto naturale, e che l’uomo sia
soggetto verso loro a qualche specie di doveri. Sembra infatti che, se io sono
obbligato a non fare alcun male al mio simile, ciò sia non tanto perché egli è
un essere ragionevole, quanto perché è un essere sensibile, qualità che,
essendo comune alla bestia e all’uomo, deve almeno dare alla prima il diritto
di non essere maltrattata inutilmente dal secondo.
Questo stesso studio dell’uomo originale, dei suoi veri bisogni, e dei principi fondamentali dei suoi doveri, è ancora il solo mezzo buono che si possa adoperare per rimuovere tutte quelle difficoltà che si presentano riguardo all’origine della disuguaglianza morale, ai veri fondamenti del corpo politico, ai diritti reciproci dei suoi membri, e a mille altre questioni simili, tanto importanti quanto mal chiarite.
Considerando
la società umana con uno sguardo tranquillo e disinteressato, essa non sembra
mostrare da prima se non la violenza degli uomini potenti e l’oppressione dei
deboli: lo spirito si rivolta contro la durezza dei primi; e poiché nulla è
meno stabile fra gli uomini che queste relazioni esteriori, che il caso produce
più spesso della saggezza, e che si chiaman debolezza o potenza, ricchezza o
povertà, le istituzioni umane appaiono, a prima vista, fondate su mobili dune
di sabbia: soltanto esaminandole da vicino, dopo aver rimossa la polvere e la
sabbia che circondano l’edificio, si vede la base incrollabile sulla quale esso
è eretto, e si impara a rispettarne le fondamenta.
Ora, senza lo studio serio dell’uomo, delle sue facoltà naturali e dei loro sviluppi successivi, non si verrà mai a capo di far tali distinzioni e di separare, nell’attuale costituzione delle cose, ciò che ha fatto la volontà divina, da ciò che l’arte umana ha preteso di fare. Le indagini politiche e morali, cui dà luogo l’importante questione che io esamino, son dunque utili in ogni modo, e la storia ipotetica dei governi è per l’uomo una lezione istruttiva sott’ogni rispetto. Considerando ciò che saremmo divenuti, lasciati a noi stessi, dobbiamo apprendere a benedire colui, la cui mano benefica, correggendo le nostre istituzioni e dando loro un assetto irremovibile, ha prevenuto i disordini che ne avessero a risultare, e fa nascere la nostra felicità dai mezzi stessi che parrebbero dover colmare la nostra miseria.
Io
devo parlare dell’uomo; e il problema che esamino mi mostra che sto per parlare
a uomini; perché non si propongono di tali problemi, quando s’abbia paura di
onorare la verità. Difenderò dunque con fiducia la causa dell’umanità dinanzi
ai saggi che m’invitano a farlo, e non sarò malcontento di me, se mi renderò
degno del mio argomento e dei miei giudici.
Nella specie umana concepisco due specie di disuguaglianza; l’una, che chiamo naturale o fisica, perché è stabilita dalla natura, e consiste nella differenza di età, di salute, di forze del corpo e di qualità spirituali o dell’anima; l’altra, che può dirsi morale o politica, perché dipende da una specie di convenzione, ed è stabilita o almeno permessa dal consenso degli uomini. Questa consiste nei vari privilegi di cui alcuni godono a danno degli altri, come d’esser più ricchi, più onorati, più potenti di loro, o anche di farsene obbedire.
Non
si può domandare quale sia la fonte della disuguaglianza naturale, perché la
risposta si troverebbe enunciata nella semplice definizione della parola. Meno
ancora si può cercare se non vi fosse qualche nesso essenziale fra le due
disuguaglianze: perché ciò equivarrebbe a chiedere se coloro che comandano
valgono necessariamente meglio di coloro che obbediscono, e se la forza fisica
o spirituale, la saggezza o la virtù si trovin sempre negli stessi individui in
proporzione della potenza o della ricchezza: questione buona forse a esser
dibattuta fra schiavi ascoltati dai loro padroni, ma che non conviene a uomini
ragionevoli e liberi, che cerchino la verità.
Di
che dunque si tratta precisamente in questo discorso?
Di segnare nel corso delle cose il momento in cui, succedendo il diritto alla violenza, la natura fu sottomessa alla legge; per spiegare per qual concatenazione di prodigi il forte abbia potuto risolversi a servir il debole, e il popolo a comperare una quiete immaginaria a prezzo d’una felicità reale.
I
filosofi che hanno esaminato i fondamenti della società, han sentito tutti la
necessità di rimontare fino allo stato di natura, ma nessuno di loro vi è
arrivato. Gli uni non hanno esitato ad attribuire all’uomo in questo stato la
nozione del giusto e dell’ingiusto, senza preoccuparsi di mostrare che esso
dovesse avere tale nozione, e neppure che questa gli fosse utile. Altri han parlato
del diritto naturale, che ognuno ha di conservare ciò che gli appartiene, senza
spiegare che cosa intendano per appartenere. Altri, dando inizialmente al più
forte l’autorità sul più debole, han fatto nascere senz’altro il governo, senza
pensare al tempo che dovette trascorrere, prima che il senso delle parole
d’autorità e di governo potesse esistere fra gli uomini.
Infine tutti parlando continuamente di bisogno, di avidità, di oppressione, di desiderio e d’orgoglio, han trasportato nello stato di natura idee prese nella società: parlavan dell’uomo selvaggio e dipingevano l’uomo civile. Non è neppur venuto in mente alla maggior parte dei nostri autori di dubitare che lo stato di natura sia esistito; mentre è evidente, dalla lettura dei libri sacri, che il primo uomo, avendo ricevuto immediatamente da Dio intelligenza e precetti, non era affatto per suo conto in tale stato; e che, attribuendo agli scritti di Mosè la fede che deve loro ogni filosofo cristiano, bisogna negare che, anche prima del diluvio, gli uomini si sian trovati mai nel puro stato di natura, a meno che non vi sian ricaduti per qualche avvenimento straordinario: paradosso molto imbarazzante a difendere e del tutto impossibile a provare.
Cominciamo
dunque dall’escludere tutti i dati di fatto, perché essi non concernono punto
la questione. Non bisogna prender le ricerche, in cui si può entrare su questo
argomento, per verità storiche, ma solo per ragionamenti ipotetici e
condizionali, più adatti a chiarire la natura delle cose che a mostrarne la
vera origine, e simili a quelli che fan sempre i nostri fisici intorno alla
formazione del mondo. La religione ci comanda di credere che, avendo Dio stesso
tratto gli uomini dallo stato di natura subito dopo la creazione, essi son
disuguali perché egli ha voluto che tali fossero; ma essa non ci vieta di
formular ipotesi, tratte dalla sola natura dell’uomo e degli esseri che lo
circondano, su ciò che avrebbe potuto diventare il genere umano se fosse
rimasto abbandonato a se stesso.
Ecco
ciò che io mi domando, e mi propongo di esaminare in questo Discorso.
E poiché il mio argomento interessa l’uomo in generale, mi studierò di assumere un linguaggio che convenga a tutte le nazioni; o piuttosto, dimenticando il tempo e i luoghi per non pensare che agli uomini cui parlo, mi supporrò nel Liceo d’Atene, ripetendo gli insegnamenti dei miei maestri, avendo i Platone e i Senocrate a giudici, e il genere umano ad ascoltatore.
O
uomo, quale che sia il tuo paese, quali che siano le tue opinioni, ascolta: ecco
la tua storia, quale ho creduto leggerla, non nei libri dei tuoi simili, che
sono menzogneri, ma nella natura, che non mente mai. Tutto ciò che verrà da lei
sarà vero; non ci sarà di falso se non quello che io vi avrò mescolato di mio
senza volerlo. I tempi, di cui imprendo a parlare, sono ben lontani; come hai
cambiato tu da quel che eri! È, per così dire, la vita della tua specie, quella
che mi accingo a descriverti secondo le qualità che hai ricevuto, che la tua
educazione e le tue abitudini han potuto, sì, depravare, ma non distruggere.
V’è, lo sento, un’età alla quale l’uomo individuale vorrebbe arrestarsi: tu
cercherai l’età alla quale desidereresti che la tua specie si fosse fermata.
Malcontento del tuo stato presente, per ragioni che preannunciano alla tua
posterità infelice malcontenti più gravi ancora, forse vorresti poter
retrocedere; e questo sentimento deve far l’elogio dei tuoi primi antenati, la
critica dei tuoi contemporanei, e lo spavento di coloro che avran la disgrazia
di viver dopo di te.
[…] Non ho considerato fin qui che l’uomo fisico: cerchiamo ora di considerarlo dal lato metafisico e morale.
Io
non vedo in ogni animale che una macchina ingegnosa, alla quale la natura ha
dato sensi per ricaricarsi da sé e per proteggersi, fino a un certo punto, da
tutto ciò che tenda a distruggerla o a guastarla. Scorgo precisamente le stesse
cose nella macchina umana, con questa differenza, che la natura fa tutto da
sola nelle operazioni della bestia, là dove l’uomo concorre alle sue, in
qualità di agente libero.
L’una
sceglie o respinge per istinto, e l’altro per un atto di libertà; ciò fa sì che
la bestia non possa allontanarsi dalla regola che le è prescritta, anche quando
le sarebbe vantaggioso il farlo, e l’uomo invece se ne allontani spesso a suo
danno. Così accade che un piccione morrebbe di fame accanto a un piatto pieno
delle miglior carni, e un gatto su di un mucchio di frutta o di grani, per
quanto l’uno e l’altro potrebbero benissimo nutrirsi dell’alimento che
disdegnano, se avessero l’accortezza di provarlo; così accade che gli uomini
dissoluti si diano in preda a eccessi, che cagionano loro la febbre e la morte,
perché l’intelligenza deprava i sensi e la volontà parla ancora quando la
natura tace.
Ogni animale ha idee poiché ha sensi; combina anche le sue idee fino a un certo punto: e l’uomo non differisce sotto questo rispetto dalla bestia, se non dal più al meno; alcuni filosofi hanno anzi affermato che c’è più differenza da un dato uomo a un altro, che da un dato uomo a una data bestia. Non è dunque tanto l’intelligenza che formi la differenza specifica dell’uomo dagli altri animali, quanto la sua qualità di agente libero.
La
natura comanda a ogni animale, e la bestia obbedisce.
L’uomo
prova la stessa impressione; ma si riconosce libero di consentire o di
resistere; e nella coscienza di questa libertà, sopra tutto, si mostra la
spiritualità della sua anima; poiché la fisica spiega in qualche modo il
meccanismo dei sensi e la formazione delle idee; ma nella potenza di volere, o
piuttosto di scegliere, e nel sentimento di questa potenza, non si trovano che
atti puramente spirituali, di cui nulla si spiega per via delle leggi della
meccanica.
Ma, quand’anche le difficoltà che avvolgono tutte queste questioni lasciassero un po’ di posto per discutere di questa differenza fra l’uomo e l’animale, c’è un’altra qualità più che mai specifica che li distingue, sulla quale non vi può essere contestazione; ed è la facoltà di perfezionarsi, facoltà che, con l’aiuto delle circostanze, sviluppa successivamente tutte le altre, e risiede in noi tanto nella specie quanto nell’individuo; là dove un animale è già al termine di qualche mese ciò che sarà per tutta la vita, e la sua specie è ancora al termine di mille anni ciò che era nel primo anno di questi mille.
Perché
l’uomo solo è soggetto a diventare imbecille?
Non
forse perché ritorna così al suo stato primitivo, e, mentre la bestia, che non
ha acquistato nulla e nulla ha neanche da perdere, resta sempre col suo
istinto, l’uomo invece, tornando a perdere per vecchiaia o per altri accidenti
tutto ciò che la sua perfettibilità gli aveva fatto acquistare, ricade così più
in basso che la bestia stessa?
Sarebbe triste per noi essere costretti a convenire che questa facoltà distintiva e quasi illimitata è la fonte di tutte le disgrazie dell’uomo; che essa lo trae fuori, a forza di tempo, da quella condizione originaria, nella quale trascorrerebbe giorni tranquilli e innocenti; che essa, facendo sbocciare coi secoli la sua capacità intellettuale e i suoi errori, i suoi vizi e le sue virtù, lo rende a lungo andare il tiranno di se stesso e della natura. Sarebbe orribile essere obbligati a lodare come un essere benefico colui che primo suggerì all’abitante delle rive dell’Orenoco l’uso di quelle assicelle che egli applica alle tempie dei suoi figliuoli, e che assicurano loro almeno una parte della loro imbecillità e della loro felicità originaria.
L’uomo
selvaggio, lasciato dalla natura in balìa del solo istinto, o piuttosto
ricompensato di questo, che forse gli manca, per mezzo di altre facoltà capaci
di supplirvi all’inizio e di innalzarlo in seguito molto al disopra di quella,
comincerà dunque dalle funzioni puramente animali. Percepire e sentire sarà il
suo stato primitivo, comune a lui con tutti gli animali; volere e non volere,
desiderare e temere saran le prime e forse sole operazioni della sua anima, fin
che nuove circostanze non vi producano nuovi sviluppi.
Che ne dicano i moralisti, l’intelletto umano deve molto alle passioni, che, per confessione comune, gli devon molto del pari; per l’attività loro si perfeziona la nostra ragione; noi non cerchiamo di conoscere se non perché desideriamo godere; e non è possibile capire perché mai chi non avesse desideri né timori si darebbe pena di ragionare.
Le
passioni a lor volta traggono origine dai nostri bisogni, e progresso dalle
nostre conoscenze; giacché non si può desiderare o temere le cose, se non in
base alle idee che si possa averne, o per semplice impulso di natura; e l’uomo
selvaggio, privo d’ogni specie di scienza, non prova se non le passioni di
quest’ultima specie; i suoi desideri non oltrepassano i bisogni fisici; i soli
beni che conosca nell’universo sono il cibo, la femmina e il riposo; i soli
mali che tema sono il dolore e la fame. Dico il dolore e non la morte; perché
l’animale non saprà mai che sia morire; e la conoscenza della morte e dei suoi
terrori è uno dei primi acquisti che l’uomo ha fatto, allontanandosi dalla
condizione animale…
(J.J. Rousseau)
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