giuliano

domenica 29 settembre 2013

GENTE DI PASSAGGIO (72)















Precedente capitolo:

Gente di passaggio (71)

Prosegue in:

Gente di passaggio: Trittico Portinari (con adorazione del Bambino..) (73)

.... e la saggezza dei libri:

Forse per questo divenni viandante

... e la storia vidi sfilare...

così in un lontano mare ti voglio portare

... e la creazione del mondo narrare....










Il giorno, dopo mangiare, cavalcai lungo un fiumicello, e mi
fermai la sera ad una villa in gran parte rovinata chiamata
Orchen.
 L'Imperatore non molto avanti aveva avuto guerra colli
Svizzeri, ed essi scesi avevano guastato circa due giornate
di Paese dove avevo a cavalcare, e tutto si trovava arso, e
rovinato, pure si cominciava a rassettare; alloggiai con un'-
oste ricco di bestiame, e praterie rna la casa era tutta di le-
gname, e perché era accanto al monte l'acqua per tutto si
conduceva insino presso al tetto, e per farmi più onore mi
fece cenare sopra un tavolino alto forse dieci braccia da
terra che era davanti ad una camera, e sopra esso veniva
una doccia d'acqua: il vino era buono, ed i cibi non erano
tristi, ma non avevo ancora mezzo cenato che il tavolato
rovinò, e tutti noi che in su quello ci trovammo ne io, ne




alcuno de' miei sentimmo nocumento alcuno perchè ca-
demmo davanti la stalla dove era il letame alto un brac-
cio. L'oste, non so come, si ruppe la gamba, credo per
esser grasso e vecchio in modo che la notte poco si potè
dormire che del continuo si senti rumore per casa che fa-
ceva lui, e quelli che lo medicavano.
La mattina cavalcai trovando sempre paese guasto dalla
Svizzeri, e mi posai ad una villetta detta Crust, e fui forza-
to, per non trovare altro, stare in un'osteria tutta fracassa-
ta che aveva solo rassettata, e fatta quasi di nuovo la stal-
la; il resto era come essere allo scoperto: eravi un'ostessa
di forse anni cinquante, ma piacevole, ed allegra, e, secon-
do il luogo, ci trattò bene, dopo mangiare ella faceva una
gran gorgagliata con un Tedesco avevo meco; volli inten-
dere quello diceva; egli mi disse che per la guerra fatta in
quel paese dalli Svizzeri lei aveva marito, e tre figliuoli i
quali quando gli Svizzeri arrivarono qui erano malati di pe-
ste in modo non si poterono ne ajutare, ne partire e da es-
si furono morti, e la casa messa a sacco, ed in parte arsa.




Ella vedutto questo, e considerando che i nemici dovano
star qui qualche giorno deliberò, sebbene dovessi morire,
vendicare tanta ingiuria, e per poter mettere ad effetto tal
pensiero finse esser matta, e cantava, e saltava, e rideva,
e faceva cose tutte contrarie ad un'afflizione nella quale si
doveva trovare.
Era alloggiato in questa casa uno Svizzero con tutta la sua
famiglia che aveva sei figliuoli tra maschj, e femine, e la
donna, e tutti gli aveva condotti qui per fare allegrezza, e
traevansi piacere di questa donna sbeffandola, e ella face-
va la pazza al possibile né gli avevano gli occhi alle mani,
ma la lasciavano andare, e stare dove ella voleva.
Cominciava a venire l'inverno, e però tutta la brigata dello
svizzero si riduceva nella stufa, che dal fuoco aveva patito
manco in modo, che essa una notte sotto questa stufa con-
dusse gran quantità di legna con due bariglioni di polvere
la quale essi tenevano in su questa piazza sopra un carro ri-
spetto al fuoco; e così ordinato tutto in sulla mezza notte,




quando ciascuno dormiva, messe fuoco nelle legna, e nella
polvere: la stufa era di legname, le legna secche, la polvere
faceva rumore di qualità che vide la casa ardere, lo Svizzero,
e tutta la sua famiglia, e così vendicata si fuggi in un bosco
qui vicino, e vi stette tanto che gli altri svizzeri si partirono,
ed al presente è ridotta qui, ed ha qualche bestia, e praterie,
ma non ha che un piccolo nipotino, che in quel tempo non e-
ra in questo borgo.
Io, come ebbi mangiato mi partii subito porche il luogo arso
mostrava malinconia, ed il paese dove dovevo cavalcare era
assai fresco perchè cominciavo a salire il monte, il quale seb-
bene è grande non è difficile, perché in Alemagna le strade so-
no molto bene assettate, e per tutto vanno i carri.
La sera alloggiai a Nait a piè del monte, ed ancorché fosse di
luglio mi ridussi volentieri nella stufa calda.......

(G. Osti, Attraverso la regione trentino-tirolese nel Cinquecento)













sabato 28 settembre 2013

GENTE DI PASSAGGIO (70)










































Precedente capitolo:

Gente di passaggio (69)

Prosegue in:

Gente di passaggio (71)





























Da Trento a Merano







Stetti la notte in Trento e la mattina cavalcai per tempo....
E mi bisognò andare a desinare a uno luogo detto Monti,
distante da Trento ben quattro miglia, che sono venti delle
nostre, perché vi erono molti luoghi vessati di peste.
Raggiunsomi la mattina pel cammino dua gentiluomini, che
ancor loro andavano dallo Imperatore: l'uno era mandato
dalla donna che fu del Re Federigo di Napoli, el quale ave-
va nome Messer Luca Buonfini; l'altro, che si chiamava
Borso da Mantova, andava per commissione delli signori
Lodovico e Federigo da Bozzole, che sono di casa Gonza-
ga.




Accompagnammoci insieme e ci posammo per desinare al-
l'osteria sopradetta, la quale era presso all'Adice e nuova e
pulita; ma in quella non trovammo altri che una fanciuletta
d'anni quattordici.
E, volendo desinare, non potemmo avere altro che uova
sode ancora che fussi domenica; il vino era assai buono. E
noi mangiammo fuori al fresco sotto una pergola di melo,
come s'usa in Alamagna, quando giunse quivi el cavaliere del
capitano di Trento che andava uccellando et, ancorché fussi
tedesco, parlava molto bene italiano.




Dolemmoci con lui che il primo alloggiamento che avammo
fatto in terra tedesca c'era riuscito assai cattivo. Lui disse:
"Non vi meravigliate di questo, perché l'oste qui suole tene-
re chi va a torno molto bene, ma li è accaduto a questi gior-
ni uno infortunio per il quale è suto necessario partirsi di qui
con la famiglia, altrimenti saria capitato male".

(G. Osti, Attraverso la regione trentino-tirolese nel Cinquecento)













martedì 24 settembre 2013

IL POETA GUERRIERO (68)








































Precedente capitolo:

La fuga di Osvaldo (67)

Prosegue in:

Gente di passaggio (69)











Quando la guerra finisce (1417) Osvaldo torna all'altipiano di Siusi,
e trova che del suo castello, assaltato da Federico, non rimangono
che poche rovine.
Lo ricostruisce e cerca di riprendere con la moglie e un figlio il filo
della vita. Ha soltanto quarant'anni, ma le lunghe e dure vicende lo
hanno provato.
Vorrebbe un po' di pace, ma ora la sorte gli gioca un nuovo tiro.
Lo spirito della vendetta suggerisce a Sabina, bizzarro temperamen-
to di donna in eterna contrapposizione con se stessa, un tiro atroce;
un gruppo di sicari sorprende Osvaldo durante un viaggio in Val d'I-
sarco, ha ragione della sua scorta e cattura il poeta che viene tradot-
to in ceppi a Foresta.




Per molti mesi Osvaldo langue in cella, schernito dall'antica amante.
Poi per intervento dello stesso duca Federico, la prigionia ha fine e
Osvaldo può finalmente tornare alla libertà.
Gli ultimi anni non hanno molta storia.
Quando Osvaldo nel 1445 muore, tutti i personaggi che vivificarono la
 sua esistenza, sono morti da tempo: Federico da sei anni. Sigismon-
do e Sabina da poco meno.
Come poeta egli fu così giudicato:




"Esperto nella musica strumentale non meno che nell'arte del canto,
egli compone e intona delle strofe così manierate, così ricche e così
ampie, come solo pochi maestri (fra una guerra e l'altra) cantori san-
no fare...
Egli arriva così alla più sdolcinata verbosità del 'Minnesang' dal pari
che alle più sudice oscenità della poesia rustico-cortigiana ed osten-
ta pure all'occasione una qualche conoscenza di storia naturale e di
materia religiosa del 'Weistersang', ma nello stesso tempo intona an-
che semplici e forti arie popolaresche e riesce ad esprimere in varia
forma, la pazza baldoria come la seria pietà, la violenta gioia della
battaglia, come il lamento della disperazione, il nobile affetto del cu-
ore, come la leggera sensualità di un temperamento tanto patetico...
quanto rozzo.
Sovrattutto egli possiede una ricca e svariata esperienza personale
per conferire vita e colore alla sua poesia".





Un umile esempio della sua grandezza.....


                                         DO FRAIG AMORS.....


Dò fraig amors                                    Tu gentile amore (in provenzale)
adjuva me                                            aiutami (latino)
ma lot, min hors.                                  o mio destriero (ungherese e inglese)
Na moy sercce                                    il mio cuore per questo (slavo)
rennt mit Gedanken                              corre col pensiero (tedesco)
Fran pur a ty.                                       Solo a te donna (italiano e tedesco)
Eck lopp ick slapp                               Se corro, dormo (fiammingo)
vel quò vado                                        o dovunque vado (latino)
wasseg, mein Krapp                             invero la mia testa (slavo e tedesco)
ne dirs dobrò                                        non può star ferma (slavo)
luf/ sglaff                                               lo schiavo (italiano)
ee frank                                                un tempo libero (tedesco)
Merschy voys gry                                  ti grido 'grazie' (francese)













 

domenica 22 settembre 2013

NELL' ALCHIMIA DELLA VITA (66)













Precedente capitolo:

L'oro riluceva (65)

Prosegue in:

La fuga di Osvaldo (67) &

Corpo Ermetico










Nel basso Medioevo un 'Libro dei segreti' attribuito ad Alberto Magno
ebbe larga circolazione.
Parlava di vari tipi di magia, tutti meno sofisticati dell'astrologia e dell'-
alchimia professionali; era essenzialmente un'opera di divulgazione, ma
le aggiungeva fascino la 'pretesa di segretezza'.
L'opera di gran lunga più influente del genere era lo pseudo-aristotelico
'Segreto dei Segreti', che qualcuno ha chiamato, con perdonabile esa-
gerazione, il libro più popolare dell'Europa medievale.
Accettato largamente come opera autentica di Aristotele, questo libro
era assai noto nella versione latina, fu tradotto in quasi tutte le lingue
volgari d'Europa, e se ne fece anche una parafrasi in versi.




Contiene, a suo dire, gli insegnamenti di Aristotele al suo allievo Ales-
sandro Magno; in realtà è una compilazione di svariati materiali, messa
insieme in parecchie versioni arabe differenti nell'alto medioevo, molto
tempo prima della traduzione in latino.
Gran parte del libro è dedicata ai princìpi di governo e della salute per-
sonale, ma nelle sue pagine compare anche la magia naturale; si parla
di medicina, dei poteri delle gemme, di astrologia e del potere terapeu-
tico del riso, o meglio, l'arte di screditare i cattivi governanti con la sa-
tira...




La mostra di segretezza non è limitata al titolo: buona parte dell'opera,
che si presenta come esposizione del sapere esoterico di Aristotele si
cela in enigmi e in formule criptiche, e Aristotele esorta Alessandro a
non violare i divini misteri lasciando che il libro cada in mani sbagliate.
Ma sarebbe difficile trovare esempio migliore di un'altra ragione per
esibire tanta segretezza: la parvenza di mistero è di per sé un'ottima
pubblicità, e un modo di procurare ampia diffusione a un'opera (in
India, ad esempio, è enumerata o meglio contemplata questa discipli-
na esoterica, abbattendo la concezione di casta, e schematizzando la
reale, o, al contrario, impropria appartenenza....).




Fra gli umanisti del Secondo Quattrocento e del primo Cinquecento
troviamo alcuni dei più vigorosi cultori della magia.
Marsilio Ficino unì alla sua filosofia platonica un vivo interesse per la
medicina, e scrisse un trattato di medicina astrologica fondato sul Neo-
Platonismo.
In Jacques Lefèvre d'Etaples (1450-1536) la magia e l'astrologia si col-
legano a un interesse pitagorico per il potere dei numeri.
Johannes Reuchlin (1455-1522), insigne dotto ebreo, esaltò i poteri oc-
culti dei nomi e di altre parole.
Giovanni Tritemio, pur ricusando il titolo di mago, propose un sistema
di scrittura segreta, sostenne la possibilità di una sorta di comunicazio-
ne telepatica, e affermò che gli era stata rivelata la conoscenza di mol-
ti prodigi.




Chi meglio rappresenta la tradizione del mago rinascimentale nel-
la seconda metà del Quattrocento è Marsilio Ficino.
In gioventù Cosimo de' Medici gli commissionò la traduzione dal
greco del 'Corpus Hermeticum', attribuito ad Ermete Trismegisto.
Cosimo gli aveva chiesto di tradurre le opere di Platone, ma quan-
do un frate portò a Firenze il manoscritto di Ermete, Platone dovet-
te aspettare: Ermete era considerato (erroneamente) autorità più
antica, e quindi più importante.
Anni dopo, Ficino scrisse il 'De vita' trattato medico basato su prin-
cìpi astrologici; la terza e ultima sezione di quest'opera insegna a
trarre il massimo beneficio dagli influssi astrali delle stelle.




Ficino attingeva la sua magia astrale a varie fonti.
Aveva, tra i primi in Occidente dopo la fine dell'età antica, cono-
scenza diretta dell'opera del neoplatonico Plotino, e si proponeva
esplicitamente di fornirne un commento.
Per Plotino tutta la natura era pervasa da influssi magici, e Ficino
espresse lo spirito di questo concetto con la sua massima che 'la
natura è ovunque maga'. Ma a differenza dei suoi predecessori
occidentali, egli conosceva anche i neoplatonici posteriori come
Porfirio e Giamblico, al cui pensiero attinse largamente....




Il concetto più importante per Ficino era quello dell'anima del
mondo o spirito cosmico, concetto ben presente nei Neoplato-
nici... e da loro ben difeso....... ma soprattutto..... ben inter-
pretato.....

(Kieckhefer, La magia nel Medioevo)
















venerdì 20 settembre 2013

L' INFORME (2)














Precedente capitolo:

L'informe (1)









- Del medesimo rabbino si dice anche che sia stato invitato
alla cittadella dell'imperatore per evocare, rendendole visi-
bili, le ombre dei trapassati,
interloquì Prokop,
- e ci sono degli studiosi moderni che affermano che sia ri-
corso a una lanterna magica.
- E già, non c'è spiegazione per quanto balorda a cui la gen-
te non batte le mani,
proseguì imperterrito Zwakh.
- Una lanterna magica! Come se l'imperatore Rodolfo, che
per tutta la vita seguì attentamente tali cose, non dovesse
avvedersi alla prima occhiata di un trucco così grossolano!
Logicamente ignori a che cosa si possa ricondurre la leggen-
da del Golem, sono però sicuro che qualcosa un essere che
si aggira in questo quartiere e che non può morire, si ricon-
nette a tale leggenda.
Di generazione in generazione i miei antenati hanno abitato
qui, e nessuno quanto me può vantare tanti e così lontani ri-
cordi, ereditati e diretti, circa il periodico apparire del Golem.




Zwakh cessò a un tratto di parlare, si sentiva che i suoi pen-
sieri riandavano ai tempi lontani. Così come stava seduto al
tavolo, con la testa reclinata all'indietro, al lume della lampa-
da, le sue guance rosse e giovanili contrastavano singolarmen-
te col bianco dei suoi capelli, e mi trovai senza volerlo a para-
gonare i suoi tratti con le maschere delle sue marionette, che
tante volte mi aveva mostrato.
Strano, quanto a quelle figure di legno assomigliasse il vecchio!
L'espressione era la medesima, medesimo il taglio del viso!
Sentii dentro di me che ci sono cose su questa terra che è scrit-
to non si separino le une dalle altre. E come volsi il pensiero al
semplice destino di Zwakh, mi parve insieme irreale e mostruo-
so che un uomo come lui, che pure aveva goduto di un'educazio-
ne superiore a quella dei suoi genitori e avrebbe dovuto diven-
tare un attore, avesse improvvisamente potuto ritornare alla
misera cassetta delle sue marionette e battere daccapo fiere,
continuando a far fare a quegli stessi pupazzi, con i quali i suoi
avi si erano guadagnati miseramente da vivere, le loro goffe re-
verenze, rappresentare quelle loro esperienze trasognate.




Compresi come egli non potesse staccarsene; vivono esse del-
la medesima sua vita, e quando ne era lontano gli si trasforma-
vano in pensieri (i suoi pensieri) e prendevano stanza nella sua
mente, rendendolo irrequieto e febbrile, sì che prese la decisio-
ne di tornare.
Per questo ora le tiene (le marionette) così amorosamente ed
è così orgoglioso di tutti quei fronzoli e lustrini di cui le veste.
- Zwakh, non vuole continuare il racconto?
domandò Prokop al vecchio, guardando con aria interrogati-
va Vrieslander e me per accertarsi che lo desideravamo anche
noi.
- Non so proprio da dove cominciare,
disse il vecchio esitando,
- la storia del Golem è difficile formularla. Come prima dice-
va Pernath: di sapere esattamente qual era l'aspetto di quello
sconosciuto, e tuttavia di non riuscire a dipingerlo.
Ogni trentatré anni all'incirca si ripete nelle nostre viuzze un av-
venimento che in se stesso non ha proprio niente di particolar-
mente allarmante e tuttavia riesce a propagare uno spavento
per il quale non si possono trovare né spiegazioni né giustifica-
zioni.........

(G. Meyrink Il Golem)









mercoledì 18 settembre 2013

'HO COMPASSIONE DI QUESTE CREATURE LIMITATE'













Prosegue in:

'Una risata li seppellirà tutti quanti'











- E' la principessa di Guermantes,
disse la mia vicina al suo accompagnatore,
non trascurando di premettere alla parola
'principessa' un numero di 'p' sufficiente
a indicare la risabilità di quella qualifica.
- "Non ha fatto certo economia di perle.
Se ne avessi altrettante, non penso che
le metterei così in mostra; non mi sembra
molto fine".
Ciò non toglie che, riconoscendo
la principessa, tutti gli spettatori intenti
sentissero risorgere in cuore il trono
legittimo della bellezza.
Per la duchessa di Luxembourg,
per Madame de Saint-Euverte,
per tante altre, quel che consentiva
di identificarne il viso era la connessione
d'un gran naso rosso con un labbro
leporino, o di due guance rugose
con un paio di baffetti.
Tratti sufficienti, d'altronde,
ad affascinare, giacché,
non avendo altro valore che quello
convenzionale d'una scrittura,
erano come le lettere di un nome celebre
e impressionate; ma suggerivano altresì
l'idea che la bruttezza ha qualcosa
di aristocratico,
e che non importa
che il viso di una gran dama
(e il popolo che rappresenta...)
purché distinto (come la sua 'nobile idiozia'),
sia bello...






....Essendo arrivato a Dingri, sulla strada per Chubar che
passa attraverso Peku, mi ero coricato sul ciglio della stra-
da.
Alcune graziose fanciulle, ornate di gioielli, che andavano
a Snog mo, videro il mio corpo consumato dall'ascetismo.

Una disse:
- Olà! Guardate che miseria! Voglia il cielo che io non ri-
nasca mai un essere simile!
Un'altra disse:
- Che pietà! Un tale spettacolo solleva anche lo sdegno.

Ma io pensai:
- Ho compassione di queste creature limitate.
E preso da pietà, mi sollevai e dissi loro:
- "Fanciulle, del vostro gradito bel 'Paese', non parlate
così. Non c'è di che affliggervi tanto.
Avreste un bel desiderare di rinascere simili a me, ma
non lo potreste.

Giacché siete così inclini alla pietà, guardatevi voi stes-
se e trasferite su di voi la vostra compassione.
Ascoltate il canto che sto per dire".
Allora cantai questo canto:




"Prego il Signore. O pieno di grazie,
Marpa, vogliate benedirmi.
Le creature spronfondate nel peccato
Non vi si vedono, ma vi vedono il loro prossimo.
Le fanciulle peccatrici hanno fede solo nel mondo.
Ma il cattivo pensiero della contentezza di sé brucia
                                                         come il fuoco.

Ho pietà di voi, infatuate di voi stesse.
Nel tempo impuro dei cattivi 'kalpa',
L'Ydam ingannatore è onorato come gli Dèi.
L'orpello è preferito all'oro e alle gemme.
E i religiosi sono sospinti via come le pietre sul
                                                       cammino.

Ho pietà delle creature inintelligenti.
Voi, belle fanciulle, e le vostre sorelle,
Insieme a Milarepa del Khungthang,
Noi proviamo vergogna l'uno di fronte all'altro;
Proviamo pietà l'uno dell'altro.
Paragoniamo la nostra pietà.
E vediamo quale sarà vittoriosa in futuro.
A chi gli rivolge ignoranti sproloqui
Milarepa risponde con l'insegnamento dei precetti.
Egli rende vino per acqua.
Egli rende bene per male".




Parlai così.
La fanciulla che aveva avuto pietà di me rispose:
- "E' colui che si chiama Milarepa. Noi tutte pro-
viamo molte cose da non dirsi. Ora chiediamogli
perdono".
Incoraggiai la fanciulla che parlava così a conver-
tirsi. Allora essa mi offrì sette conchiglie e, salutan-
domi, tutte le fanciulle mi chiesero perdono.
In risposta alla loro richiesta di essere istruite (cir-
ca la loro ignoranza), cantai loro questo canto:




"Prego il Signore pieno di grazie.
Riassumo la santa dottrina in brevi strofe.
In alto nel beato palazzo degli Dèi,
Si rifiuta il senso mistico, si ama il senso comune delle
                                                                         cose.

In basso, nel palazzo del Naga,
Si rifiuta la legge profonda, si amano i beni del mondo.
Nel mezzo, sulla Terra degli uomini,
Si rifiuta la scienza religiosa, si ama la menzogna.
Nei quattro regni dello Tsang centrale,
Si rifiuta la meditazione, si ama la parola.
Nel tempo impuro dei cattivi 'kalpa',
Si rifiutava l'uomo buono, si amava il cattivo.
Nel paese delle belle fanciulle,
Si scaccia l'eremita, si cerca l'uomo bello.
L'orecchio delle giovani vergini
Non ascolta il cimbalo religioso, ascolta le ....
                                            belle canzoni.
Ecco le formule cantate.
E' la mia risposta alla vostra parola....
ed ai vostri gesti.....".

(M. Proust & Vita di Milarepa)








martedì 10 settembre 2013

FRATE GIROLAMO VESCOVO DI 'CARAFA' (60)













Precedente capitolo:

Abitanti di governi e mondi sconosciuti (59)

Prosegue in:

Il Primo (Dio) (61)











Fu a questo punto che risentito si alzò (da tavola...) frate Girolamo,
vescovo di 'Carafa', con la barba che gli tremava dall'ira, dallo sdegno
lui che aveva l'ardire e l'arguzia di tante ciarle seminate nei decenni
del suo vescovato, anche se poi le sue parole cercavano di apparire
concilianti.
E iniziò una argomentazione che a tutti parve alquanto confusa...
"Quello che vorrò dire al santo padre, e me medesimo che lo dirò, pon-
go sin d'ora sotto alla sua correzione, perché credo veramente che Gio-
vanni sia vicario di Cristo e per questa confessione fui preso dai sara-
ceni.
E inizierò citando un fatto riportato da un grande dottore (mio collega),
sulla disputa che sorse un giorno tra monaci su chi fosse il padre di Mel-
chisedec. E allora l'abate Copes, interrogato su questo, si percosse il
capo e disse: guai a te Copes perché cerchi solo quelle cose che Dio
non ti comanda di cercare e sei negligente in quelle che lui ti comanda!
Ecco, come si deduce limpidamente dal mio esempio, è così chiaro che
Cristo e la Beata Vergine e gli apostoli non ebbero nulla né in speciale
né in comune, che meno chiaro sarebbe riconoscere che Gesù fu uomo
e Dio al tempo stesso, e però mi pare chiaro che chi negasse la prima
evidenza dovrebbe poi negar la seconda".




Disse trionfalmente, e vidi Guglielmo che alzava gli occhi al cielo.
Sospetto reputasse il sillogismo di Girolamo alquanto difettoso (come
molte se non tutte le sue affermazioni...), e non so dargli torto, ma più
difettosa ancora mi parve l'adiratissima e contraria argomentazione di
Giovanni Dalbena, il quale disse che chi afferma qualcosa sulla povertà
di Cristo afferma ciò che si vede (o non si vede) per l'occhio, mentre
a definire la sua umanità e divinità interviene la fede, per cui le  due
proporzioni non possono essere messe alla pari.
Nella risposta, Girolamo fu più acuto (o forse più furbo) dell'avversa-
rio:
"Oh no, caro fratello",  disse, "mi par vero proprio il contrario, perché
tutti i vangeli dichiarono che Cristo era uomo e mangiava e beveva e,
per via dei suoi evidentissimi miracoli, era anche Dio, e tutto questo
balza proprio all'occhio!".
"Anche i maghi e gli indovini fecero dei miracoli", disse con sufficien-
za il Dalbena.
"Sì", ribatté Girolamo, "ma, per operazione d'arte magica, E tu vuoi
ugugliare i miracoli di Cristo all'arte magica?". Il consesso mormorò
sdegnato che non voleva così.




"E infine", continuò Girolamo che ormai si sentiva vicino alla vittoria,
"messere cardinale del Poggetto vorrebbe considerare eretica la cre-
denza nella povertà di Cristo quando su questa proposizione si regge
la regola dell'ordine come quello francescano, tale che non v'è regno
dove i suoi figli non siano andati predicando e spargendo il loro san-
gue dal Marocco sino all'India?".
"Anima santa di Pietro Ispano", mormorò Guglielmo, "proteggici tu".
"Fratello dilettissimo", vociferò allora il Dalbena facendo un passo a-
vanti, "parla pure del sangue dei suoi frati, ma non dimenticare che
questo tributo è stato pagato anche dai religiosi di altri ordini.....".
"Salva la riverenza al signor cardinale", gridò Girolamo, "nessun do-
menicano è mai morto tra gli infedeli, mentre solo ai tempi miei no-
ve minori sono stati ammazzati!". 
Rosso in viso si alzò allora il domenicano vescovo di Alborea: "Allo-
ra io posso dimostrare che prima che i minori fossero in Tartaria, il
papa Innocenzo vi mandò tre domenicani!".




"Ah sì?" cachinnò Girolamo. "Ebbene io so che da ottant'anni i mino-
ri sono in Tartaria e hanno quaranta chiese per tutto il paese, men-
tre i domenicani hanno solo cinque posti sulla costa e in tutto saran-
no quindici frati! E questo risolve la questione!".
"Non risolve alcuna questione", gridò l'Alborea, "perché questi mino-
riti che partoriscono pinzocheri come le cagne partoriscono cagnolini
attribuiscono tutto a sé, millantan martiri e poi hanno le belle chiese,
paramenti sontuosi e comperano e vendono come tutti gli altri religio-
si!".
"No, messere mio, no,", intervenne Girolamo, "essi non comperano e
vendono essi stessi, ma attraverso i procuratori della sedia apostolica,
e i procuratori detengono il possesso mentre i minori hanno solo l'uso!".
"Davvero?" sogghignò l'Alborea, "e quante volte allora tu hai venduto
senza procuratori, quante volte ti sei intascato le rendite dei (tuoi) be-
ni ... senza procuratori o gli esattori? Sappiamo tutti i qui presenti del-
la storia dei tuoi poderi....".
"Se l'ho fatto ho sbagliato", interruppe precipitosamente Girolamo, "non
riversare sull'ordine quella che può essere stata una mia debolezza!".
"Ma venerabili fratelli", intervene allora Abbone "il nostro problema non
è se siano poveri i minoriti, ma se fosse povero Nostro Signore....".




"Ebbene", si fece udire a questo punto ancora Girolamo, "ho su tale
questione un argomento che taglia come la mia Spada...".
"Santo Francesco proteggi i tuoi figli..." disse sfiduciatamente Gu-
glielmo.
"L'argomento è, continuò Girolamo, "che gli orientali e i greci, ben più
 familiari di noi con la dottrina dei santi padri, tengono per ferma la
povertà di Cristo. E se questi eretici e scismatici sostengono così lim-
pidamente una così limpida verità, vorremmo esser noi più eretici e
scismatici di loro??......".
(E a questo punto vedemmo tutti distintamente che si versò sulla ricca
carafa (donde il suo luogo d'origine) una bevanda fermentata con il lup-
polo e brindò verso la delegazione Alemanna appena tornata da un viag-
gio d'affari da quelle lontane contrade d'oriente......).

(U. Eco, Il nome della rosa)

















  

domenica 8 settembre 2013

UN ERETICO RISPONDE AD UN PAPA (58)













Precedente capitolo:

Un Pagano risponde ad un Cristiano (57)

Precedenti capitoli in merito alla 'quaestio' sulla povertà del Cristo:

Fra Ubertino da Casale &

L'Eresia del lettore ed i limiti della cultura

Prosegue in:

Abitanti di governi e mondi sconosciuti (59)












.... Questa è la lettera, la quale mandò papa Giovanni
al predetto frate Michele generale, abiendo lui per i-
scusato, però che non giunse a corte al termino per
cagione della sua infermità; e comincia così:

Iohannes espiscupus, servus servorum Dei, dilecto fi-
lio Michaeli, ordinis fratrum minorum generali ministro,
salutem et appostolicam benedictionem ec.

E finisce così:

Datum Avinioni ec. Consequentemente raquistata la
sanità il predetto generale, prese il cammino verso Vi-
gnione, dove giunse il primo di dicembre dell'anno pre-
detto, ed il seguente visitò papa Giovanni, il quale lo
ricevette benignamente e graziosamente, e di tanto in-
dugio l'ebbe legittimamente per iscusato. Et essendo
il generale ministro ancora in Viglione, a di XVIJ di
gennaio, che fu la domenica delle nozze, anno domini
MCCCXXVIII, il sopradetto prencipe, Messer Ludovico
(in trono) re de' romani per lo papa, ma per quattro sin-
dachi del popolo romano, ordinati e deputati spezial-
mente a questo, nella chiesa di San Piero fu solenne-
mente coronato imperatore de' romani.
Consequentemente a di nove d'aprile del detto anno
MCCCXXVIII, che fu il sabato, infra l'ottava della
pascua di resurresso, il predetto papa Giovanni fecie
venire innanzi alla sua presenza il detto generale, et
in presenza di messer Beltrando, cardinale e vesco-
vo tuscoliano, e di frate Pietro da Prato, allora mini-
stro della provincia di San Francesco, e di frate Ra-
mondo Delodos, procuratore del detto ordine nella
corte romana, e di frate Lorenzo detto Albono, bac-
celliere di Vignione, riprese il detto generale ministro,
e spezialmente della sopra detta lettera della 'pover-
tà di Cristo e delgli appostoli', fatta e composta per
lo capitolo generale di Perugia; e più volte prenunziò
et afermò, o vero disse, che la predetta lettera era
eretica, si come si manifesta per le lettere de' detti
frati; cioè frate Piero, frate Ramondo e frate Loren-
zo, con loro suscrizioni fortificate. E conciò sia co-
sa che'l predetto papa Giovanni dicesse et afermas-
se la detta lettera, del detto capitolo generale, esse-
re stata et essere eretica, esso medesimo frate Mi-
chele generale, resistette a esso papa Giovanni nel-
la faccia virilemente e costantemente, dicendo, che
essa lettera non n'era eretica, ma sana, cattolica e
fedele; e che colla diterminazione di suo predeces-
sore, cioè Messer papa Nicolao terzo, e della chie-
sa s'acordava; agiungniendo che, se la detta lettera
fosse eretica, allora seguiterebbe che esso Messere
Nicolao papa terzo, il quale nella detta dicretale
'Exijt', diterminò e diffinì le predette cose, sarebbe
stato eretico manifesto; imperò che chi diffiniscie,
insengnia, o vero afferma pubblicamente eresie, deb-
ba essere giudicato eretico manifesto; e che tutti i
sommi pontefici succedenti a lui nello ufficio et il con-
cilio generale, e la chiesa romana, la quale fecie e
ricevette et aprovò la predetta diffinizione, furono
e sono manifestamente eretici; imperò che lo errore,
al quale non si resiste per colui al quale s'apartiene
e può resistere, è aprovato, e non manca di scrupo-
lo e di sospetto d'oculta compagnia quelgli, che al
manifesto peccato si rimane o cessa di contradire.
E più altre cose rispuose ivi e disse, le quali sareb-
be lungo tutte particularmente narrare. Et il tenore
della detta pronunziazione, o vera afermazione del
detto papa Giovanni, fortificata colle suscrizioni de'
tre detti frati, si è questo.

Nell'anno domini Mille trecento ventotto, di VIIIJ.
d'aprile, che fu il sabato fra l'ottava della pasqua,
papa Giovanni vigesimo secundo fecie chiamare i-
nanzi a sé frate Michele generale ministro, in pre-
senza di Messere frate Bertrando della Torre, car-
dinale; e di frate Piero da Prato, ministro della pro-
vincia di san Francesco; e di frate Ramondo Dela-
dos, procuratore dell'ordine nella corte romana; e
di frate Lorenzo Decoalcone, baccelliere di Vignio-
ne: e disse il detto papa Giovanni a esso general
ministro, riprendendolo, intra molte altre cose, ch'-
egli era stolto, temerario, capitoso, tiranno e favo-
reggiatore d'eretici, e ch'egli era serpente nutricato
nel seno da essa chiesa. E spezialmente lo riprese
d'alcuna lettera del capitolo generale fatta a Peru-
gia, che pendendo la questione nella corte di Roma,
egli avea presunto di determinarla col capitolo gene-
rale; la quale lettera, disse più volte e spesse volte,
essere stata et essere eretica.
Ultimamente comandò al detto frate Michele, per
obedienza e sotto pena di scomunicazione e di pri-
vazione dell'ufficio e di inabilitazione a qualunque
ufficio e beneficio, che non uscisse di corte di Ro-
ma senza sua licienzia speziale; nelle quali pene, si
come elgli disse,voleva ch'egli incorresse isso fatto
in quell'ora ch'egli atentasse d'uscire di corte. Et io,
frate Ramondo di sopra detto, procuratore dell'ordi-
ne, le predette cose scrissi a richiesta del predetto
generale ministro, e dico le dette cose essere state
vere et averle udite di sopra si contiene.
(Storia di fra Michele Minorita)
















mercoledì 4 settembre 2013

IL GIUDICE DEI DIVORZI (2)





































Precedente capitolo:

il giudice dei divorzi













VECCHIETTO. A dir il vero signori miei, il cattivo alito che essa dice
che ho, non dipende dai miei denti marci, dal momento che non ho den-
ti, né tanto meno, procede dal mio stomaco che è sanissimo, bensì dal-
la cattiveria del suo animo.
Le loro signorie non conoscono bene la signora, che in fede mia, se la
conoscessero, la terrebbero a distanza o le darebbero la cresima. Son
ventidue anni che vivo martire di lei senza aver mai confessato i di-
spetti, gli strilli, i capricci suoi; e da quasi due anni, mi sta dando spin-
toni  quotidiani verso la fossa, con le sue grida m'ha fatto diventare
mezzo sordo , e pazzo a furia di litigi.
Se mi cura, come essa dice, lo fa a contraggenio, mentre la mano ed
il fare del medico devono essere delicati. In conclusione, signori, son
io che muoio in suo potere ed è lei che mi tiene ai suoi ordini dal mo-
mento che è padrona con piene facoltà di quel che ho.

MARIANA. Di quel che avete? E che possedete voi che non abbiate
guadagnato dalla mia dote? E i beni acquistati in patrimonio per metà
sono miei, a dispetto vostro. Di essi e della dote, se morissi ora, non
vi lascerei il becco di un sol quattrino, perché vediate l'amore che vi
porto.

GIUDICE. Ditemi, signore, quando entraste in potere di vostra mo-
glie, non eravate sano, gagliardo e in buone condizioni?

VECCHIETTO. Ho già detto che son ventidue anni che entrai al suo
comando come un forzato sotto un aguzzino calabrese a remare nel-
le galere. Allora ero così in gamba che potevo dire e fare come chi
al gioco ha sempre la carta buona.

MARIANA. Scopa nuova, scopa bene tre giorni!

GIUDICE. Tacete, tacete per...., brava donna, e andate con Dio che
non trovo motivo alcuno per separarvi; dal momento che avete preso
il dolce, accettate anche l'amaro: nessun marito è obbligato a fermare
la veloce corsa del tempo perché non passi dalla sua porta e dalla sua
vita; così scontate i brutti giorni di adesso con i buoni che vi diede
quando poté, e non una parola di più.

VECCHIETTO. Se fosse possibile, vossignoria mi farebbe proprio una
grazia a sollevarmi dalle pene liberandomi da questa prigionia; per-
ché, se mi lascia in questo stato, ora che che siamo arrivati a que-
sta rottura, sarà come consegnarmi di nuovo al boia che mi torturi.
E se non fosse proprio possibile, facciamo una cosa: si chiuda lei in
un convento ed io in un altro, dividiamo la sostanza, e così potremo...
vivere in pace e al servizio di Dio quel che ci resta di vita.

MARIANA. Un accidente! Avete proprio trovato quella buona che se
 ne sta rinchiusa! Sì, sì, venite un po' a vedere la ragazzina amante
di grate, di ruote, inferriate e guardiane! Rinchiudetevi voi che po-
tete sopportarlo, che non avete né occhi per vedere; né orecchi per
sentire, né piedi per camminare, né mani per toccare; io, invece, son
sana, ho i miei cinque sensi a posto, vivi e vegeti, e voglio usarli allo
scoperto e non di sottecchi e per indovinelli come giocando alla.....
'quinola'.

CANCELLIERE. E' sfrontata, la moglie!

PROCURATORE. E il marito serio, ma non ne può più.

GIUDICE. Ebbene, io non posso farvi divorzio 'quia nullam invenio
causam' (oppure come si suol dire... fra noi Eretici:
'Dio mette i suoi frutti sugli alberi peg.....ri...')
(Cervantes, Il Giudice dei divorzi)