giuliano

domenica 27 giugno 2021

ENTRA IL MATTO (Secondo atto) (4)

 










Precedenti capitoli:


Circa il matto (3/1)


Prosegue con...:


Il capitolo quasi completo.... 


& Uno e più strani matrimoni


& La psicologia delle folle








Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 7,7 miliardi mentre quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,8 miliardi; mentre il debito degli Enti di previdenza, spiega Banca d'Italia, è rimasto quasi invariato.

 

Alla fine di marzo la quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia era pari al 22,2 per cento (0,4 punti percentuali in più rispetto al mese precedente); la vita media residua del debito è lievemente aumentata a 7,4 anni.

 

A marzo sono state erogate due ulteriori tranche (per un totale di 5,7 miliardi) dei prestiti previsti nell’ambito dello strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency, SURE); alla fine del mese i prestiti erogati dalle istituzioni europee al nostro Paese ammontavano nel complesso a 26,7 miliardi.




A marzo infine le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 30,1 miliardi, in aumento del 9,8 per cento (2,7 miliardi) rispetto allo stesso mese del 2020, che era stato influenzato, tra l'altro, dagli slittamenti d'imposta disposti dal decreto Cura Italia. 

 

I CAPACI (& buffoni associati) S.PA.

 

Sovranismo è un neologismo che, a quanto si legge nella sezione dedicata del vocabolario Treccani, si è attestato stabilmente nel 2017, anche se è comparso tra le prime volte, debitamente virgolettato, in un articolo di Andrea Manzella, pubblicato su la Repubblica il 13 novembre 2002:

 

Dove il necessario affievolimento di sovranità degli Stati a favore di un ordinamento sovrastatuale non tocca minimamente l’unità politica degli Stati-nazione. Solo da noi si riesce a sposare un sovranismo antieuropeo con una devolution anti-nazionale.




Sin dall’inizio la deriva antieuropeista della parola è ben chiara, tanto che la ritroviamo sui giornali in concomitanza con Brexit.

 

Il sovranismo forse è il più recente degli ismi contemporanei, poiché mediante la sostantivizzazione dell’aggettivo sovrano – che sta sopra, più in alto degli altri – ispirata al vocabolo francese souverainisme, dove vale come concetto bipartisan, connota un preciso movimento culturale, le cui basi culturali si distinguono per instabilità e vacuità.

 

Ora ne conosciamo il contesto, ma abbiamo davvero capito cosa vuol dire?




Treccani definisce il sovranismo come una ‘posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovranazionali di concertazione’.

 

Una dotta evoluzione del campanilismo? Forse, ma a scorrere Google e Wikipedia, i termini correlati al sovranismo sono gollismo (movimento politico ispirato a Charles de Gaulle per cui il nemico non era l’Europa bensì USA e URSS), euroscetticismo, federalismo (caro a Umberto Bossi), nazionalismo, e populismo.

 

A noi interessa molto quest’ultimo.




Viktor Mihály Orbán, Vladimir Vladimirovič Putin, Donald John Trump. Due nomi a testa per gli autocrati della contemporaneità che, per amore della sovranità nazionale, non temono di sbandierare il loro gerarchismo razziale.

 

Nonostante le apparenze, fra i tre intercorrono anche profonde differenze riguardanti la gestione degli interessi nazionali.

 

Andando a curiosare sul web si trovano aspetti e idee interessanti.

 

Andiamo con ordine.




Il governo Orbán, ad esempio, in un documento stilato dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) relativo all’andamento delle elezioni politiche ungheresi del 2018, è stato accusato di aver recintato i confini nazionali, di aver indetto un referendum per respingere la quota migranti dell’UE, di aver presentato il fenomeno migratorio come una minaccia alla sicurezza nazionale e alla cultura dell’Ungheria, includendo qualsiasi tipo di ingerenza esterna come l’ONU e Soros.

 

Una retorica definita intollerante dal punto di vista etnico e religioso.

 

Le cose si complicano quando vengono messi in luce alcuni rapporti tra l’Ungheria e il team delle politiche estere di Donald Trump, formato da Jeff Sessions, Carter Page, Jeffrey D. “J.D.” Gordon. Gli ultimi due sembrano avere un’intensa passione per Budapest, visto il loro andirivieni. Gordon, in particolare, come riportato nel 2016 dal Budapest Business Journal, durante un panel si è complimentato con Orbán, dicendo che, al pari di Trump, sogna di rendere l’Ungheria di nuovo grande.




 Orbán, inoltre, è da tempo definito come uno degli strumenti più importanti della campagna contro l’Occidente di Putin, soprattutto perché pare che da strenuo oppositore si sia trasformato in sostenitore dopo quindici minuti di colloquio con il leader russo nel 2010, durante il Congresso della Russia Unita tenutosi a San Pietroburgo.

 

Da lì è anche iniziata la sua ascesa al potere, condita con strette di mano e simpatie ideologiche comuni, ma con una lieve differenza rispetto ai metodi, sicuramente più soft nel caso dell’ungherese. Basti pensare alla strategia contro la stampa avversa che non prevede l’oscuramento o l’eliminazione, bensì l’esaltazione di coloro che stanno dalla parte giusta.

 

Sostanzialmente Putin ha bisogno di un cavallo di Troia sia in sede UE che in prossimità dell’Ucraina, con cui l’Ungheria condivide la frontiera e parecchi cittadini migranti. Non solo visioni comuni, dunque. Restando più vicini non ha mai nascosto il suo supporto nei confronti di Matteo Salvini, con cui condivide i temi centrali del discorso politico, come la difesa della Nazione dall’invasione dei migranti, portatori sani di terrorismo, la rotta all’islamizzazione dell’Europa, la conservazione delle tradizioni locali (ad esempio made in Italy e made in France), il lavoro e la previdenza sociale.




Le Pen ha definito il suo percorso come ‘rivoluzione della vicinanza’, ma qualcosa sarà andato storto visto che il vicino padano ha iniziato a prendere le distanze dal Front National, rifiutando l’invito alla kermesse populista del primo maggio 2018 a Nizza, pare, almeno da quanto si vede nel video condiviso su Twitter, per prendere lezioni di ruspa e andare a governare. Meno male che sia Le Pen che Salvini si erano dichiarati più moderati, soprattutto riguardo al nemico comune UE, passando dall’anti-europeismo assoluto a un’Europa unita senza Unione.

 

Eroi stranieri, l’alter ego del giustiziere Salvini offre pieno sostegno a Putin e Trump, perché si rispecchia nelle loro pratiche politiche, di cui cita spesso i tagli alle tasse, i rapporti con Israele, e ovviamente i controlli dei confini (5 dicembre 2017 il tweet è in inglese, in segno di amicizia: ‘Full support to President Trump’s policies on tax cuts, Israel and border control’). Salvini vorrebbe innalzare muri vetero-sovietici e chiudere i porti per proteggere i suoi amati cittadini?

 

Il vero nemico non è Putin ma gli immigrati clandestini che invadono l’Italia (e il mondo) perché, come ricorda sommessamente in un tweet del 15 novembre 2017, in Italia tutta l’Africa non ci sta.




La sua è un’invettiva contro Gentiloni l’africano, apostrofato come Publio Cornelio Scipione, noto per aver sconfitto i cartaginesi a Zama nel 202 a.C., che, accusato di proditio, cioè di alto tradimento, e di condotta amorale, decise di finire i suoi giorni in esilio. Insomma, Scipione ha fatto sì che Roma dominasse l’Africa, non che fosse invasa da quest’ultima, ma Salvini, non avendo terminato il suo corso di laurea in Storia, potrebbe esserne all’oscuro.

 

Salvini si immedesima molto in Trump in qualità di nume tutelare del Paese, come leggiamo nel tweet del 28 gennaio 2017, dove commenta il provvedimento di veto all’ingresso negli USA per gli immigrati di sette paesi islamici per tre mesi con le seguenti parole:

 

Razzista? No, semplicemente GRANDE.

 

Infatti anela, o almeno così afferma il 28 maggio 2017, alla trumpizzazione, perché è sinonimo dell’avere cura degli interessi di una Nazione.




Trump e Putin sono eroi perché hanno contro tutti quelli che stanno antipatici a Salvini, tra cui l’Unione Europea, le Nazioni Unite, Merkel, Soros, Zuckerberg (che gli ha offerto i suoi canali più prolifici di comunicazione), i giornalisti, i giudici, le celebrità snob o radical chic e l’Islam.

 

Salvini si riflette in Trump e Putin, il loro modo di affrontare situazioni analoghe a quelle nostrane genera effetti di rispecchiamento, raddoppiamento per omologazione, e di uniformazione delle diversità individuali.

 

Salvini si sente simile a loro per analogia, perché riconosce delle somiglianze rispetto al modo di governare una nazione, ma l’ammirazione provata nei confronti dei big della politica estera non è cieca, tanto che, a quanto dichiarato nella diretta Facebook del 14 aprile

 

Se qualcuno che io stimo commette degli errori è mio dovere ricordare che sta sbagliando,




schierandosi a sfavore di Trump riguardo ai bombardamenti in Siria, su cui assume una posizione netta e pacifista, che arriva a essere condivisa persino da Vauro Senesi in forma di retweet di uno status di Facebook.

 

Niente male per uno che, oltre a Putin e Trump, ha al suo attivo una fugace cotta per Kim Jong-un, da cui è stato sedotto dopo una visita in Corea del Nord nel 2014, approfittando del “gancio” Antonio Razzi, che lì è una vera e propria autorità assoluta, una star, come dichiarato a Massimo Rebotti in un’intervista al Corriere della Sera del 3 settembre 2014.

 

A Pyongyang Salvini – con indosso la polo Milan – ha visto un senso di comunità splendido, e uno Stato che potrebbe rappresentare un modello da seguire perché fornisce

 

tutto: scuola, casa, lavoro.


(Prosegue con il capitolo quasi completo...)









martedì 22 giugno 2021

(l'antropologo) & I DIVERSI (2)

 










Precedenti capitoli:


Circa la passeggiata dell'antropologo


Prosegue con...:


I buffoni di corte 








Quando Lynda Dematteo, antropologa francese che ha condotto una ricerca presso la sede bergamasca della Lega, in una discussione con il segretario locale dichiara con sincerità di non condividere le idee razziste del partito e ricorda che il richiamo ai celti evoca il mito ariano, il segretario le risponde:

 

E allora i bretoni sono nazisti? Gli irlandesi sono nazisti?

 

Ma gli italiani non sono celti. Bretoni e irlandesi hanno lingue celtiche,

 

…ribatte lei.

 

Ma come? Scusami, Bergamo è una città celtica!




Ecco un ottimo esempio delle connessioni evocate da Amselle, che sembra confermare quanto afferma Benedict Anderson, ossia che le comunità devono essere distinte non dalla loro falsità/genuinità, ma dallo stile in cui esse sono immaginate. Ciò che conta non è tanto la veridicità delle affermazioni e delle ricostruzioni storiche, quanto piuttosto la loro efficacia sul presente. Tale efficacia dipende dalla funzione che tali narrazioni possono svolgere nel presente e dall’influenza che riescono a esercitare sulla gente.

 

Occorre pertanto una certa dose di fantasia se non addirittura di menzogna, per convincere la gente di fare parte di uno stesso popolo ed edificare l’immagine di una nazione.

 

Qualsiasi nazione, soprattutto se ancora deve nascere, come la Padania.

 

Perciò nonostante la maggior parte delle affermazioni leghiste legate alla storia e all’identità non abbia alcun riscontro, la cosa ha poca, pochissima importanza, sarebbe sbagliato pensare che certe dichiarazioni siano vanificate una volta appurata la loro insensatezza. Esse diventano socialmente vere in quanto finiscono per alimentare un’identità in chi le ascolta e le prende per buone.




Non ci si può limitare a valutare la veridicità o meno di tali espressioni, ma la loro efficacia politica. In questo senso, per esempio, la Padania esiste solo nelle retoriche leghiste, corroborate da atti simbolici come il Giro ciclistico della Padania, l’elezione di Miss Padania. Si tratta di una scommessa, ma se questa scommessa viene vinta, la Padania esiste. Esiste perché è soprattutto un concetto culturale. Non importa se non se ne trovano tracce nel passato e nessuno in nessuna epoca mai si sia sentito padano, come dice Roberto Biorcio, attento studioso dei fenomeni leghisti:

 

la Padania esiste, perché esiste la Lega, non viceversa.

 

A differenza di quando accaduto in passato la costruzione della Padania, o meglio la sua invenzione, come dichiara con disarmante sincerità il titolo di un libro di Gilberto Oneto, uno dei primi ideologi della Lega, non è opera di élites intellettuali, impegnate seriamente nella ricerca di elementi che possano legittimare le aspirazioni di un ipotetico popolo padano. Si riscontra qui un primo elemento di diversità: rispetto ai nazionalismi classici, manca quasi del tutto l’apporto intellettuale. La retorica dominante è fatta di simboli abborracciati e di linguaggi volutamente, marcatamente e a volte forzosamente popolari, nel senso più basso, quasi triviali.




Se molti nazionalisti del passato volgevano lo sguardo alle civiltà classiche, è proprio contro la civiltà dell’antica Roma che le élites leghiste, assai più politiche che culturali, lanciano i loro peggiori strali. La loro fascinazione si esprime totalmente nei confronti dei popoli pre-romani, oppure, con una frattura storica ritenuta insignificante, dei Comuni medievali. La Lega sembra ricercare antenati mitici, senza però nemmeno sentire troppo il bisogno di definirli o individuarli.

 

Lasciata la discendenza culturale, si arriva all’eredità genetica, attribuendole la capacità di determinare i tratti culturali dei diversi popoli.

 

I padani sarebbero culturalmente diversi dagli italiani (sic), perché questi sono gli eredi degli etruschi, dei greci e delle popolazioni italiche che si erano stanziate nel Meridione, questa divisione è oggi puntualmente confermata dalle più moderne e attendibili indagini scientifiche che mostrano una penisola divisa in tre grandi aree dove dominano rispettivamente il residuo genetico dei liguri, degli etruschi e dei greci.




Premesso che non vengono mai citate le moderne e attendibili indagini scientifiche che sosterrebbero la teoria leghista, in tutta la retorica leghista c’è un forte richiamo al mondo contadino e in particolare a quello montanaro. Le valli alpine, in particolare quelle bergamasche, costituiscono lo zoccolo duro della fede leghista e uno dei più ampi e consolidati bacini elettorali. Inoltre, la montagna costituisce una sorta di marchio di genuinità: impadronendosi della retorica sui montanari forti e sinceri, semplici, fieri e generosi, rudi ma buoni, la Lega si costruisce un retroterra fatto di radici popolari, di costumi tradizionali dei bei tempi andati.

 

Non a caso in più di un articolo nei Quaderni Padani si sostiene la matrice alpina della Padania e dei suoi popoli e si esaltano i valori della gente di montagna. Il Po, in questo caso, risale i suoi affluenti, culturalmente parlando, per andare a ritrovare nelle purezze alpine popoli da pensare come antichi.




L’elaborazione identitaria della Lega è il risultato di un bricolage culturale iconoclasta e razzista, la costruzione del nemico si gioca quindi non sul terreno delle idee e della politica, ma sulla sua origine o sulla sua presunta cultura, pensata però in modo deterministico, come si pensa alla razza, vincolata al territorio d’origine e immutabile. Il primato va non al prodotto di un’elaborazione politico-culturale, ma all’autoctonia.

 

È nota la distinzione che gli antichi greci facevano tra civilizzati – coloro che parlavano correttamente il greco – e barbari (letteralmente balbuzienti), cioè gli stranieri che non conoscevano bene quella lingua. Queste due categorie non erano però ereditarie ed erano, invece, avocabili. Un barbaro che avesse imparato bene il greco non veniva più considerato tale; analogamente, il figlio di un barbaro, di quelli che adesso chiameremmo di seconda generazione, non si portava dietro il marchio del padre, purché sapesse parlare correttamente.

 

La distinzione tra greci e barbari si fondava sulla lingua, non sul colore della pelle o su altri tratti somatici. Si trattava di un fatto culturale, un gap colmabile e comunque non trasmissibile. Il legame fra terra e sangue rimanda, invece, a una concezione tribale e fissista: si nasce e non si diventa. L’individuo appare come condannato dalla nascita a essere ciò che la sua terra genera, come un prodotto naturale, d.o.c. Ecco allora che la metafora delle radici risulta quanto mai appropriata a questo tipo di discorso.




Siamo nel mondo della natura, di cui non si può e non si deve modificare il corso. La costruzione dell’altro si basa su un noi naturale, quando invece anche i noi sono costruiti: non sono dati in natura e nemmeno sono dati nella storia.

 

Invece, secondo Bossi,

 

i popoli sono il frutto naturale della famiglia naturale. E tutto ciò che è naturale è anche morale.

 

Ecco un altro sintomo di tribalismo.

 

Naturalizzando l’essenza umana, la cultura, e vincolandola alla terra, il noi diventa inevitabilmente un non-loro.

 

Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli, recita un proverbio masai.




Al contrario, nella retorica leghista dell’autoctonia si evoca una terra lasciata dagli antenati e si sottintende un diritto di possesso inalienabile e di libero utilizzo. Questo può valere per la proprietà privata, ma una nazione non è fatta solamente di spazi privati, ma anche e soprattutto da beni pubblici e comuni.

 

L’ideologia leghista mescola elementi etnici a concezioni aziendali, care ai tanti piccoli imprenditori che costituiscono buona parte del suo elettorato. Nella piccola impresa i rapporti gerarchici sono ben chiari e definiti. Il padrone è il proprietario e gestisce la sua azienda senza intermediazioni. La presenza sindacale è scarsa, il rapporto datore di lavoro-dipendente è diretto, in molti casi fondato su relazioni di lunga conoscenza e di legami che vanno al di là del contratto aziendale.

 

Non ci sono la spersonalizzazione della grossa industria, né le istituzioni preposte a gestire i rapporti tra due funzioni come direzione e dipendenti. Questa concezione tribal-privatistica della terra e della cosa pubblica è perfettamente sintetizzata dallo slogan ‘padroni a casa nostra’, caro a molti leghisti, che ribadisce il diritto di possesso e di comando su una terra per il fatto di esserci nato e di discendere da generazioni nate e vissute lì. Un concetto che, corroborato da certe retoriche politiche, si traduce in un’insofferenza verso qualsiasi regola che limiti l’iniziativa locale.




Il paesaggio e l’ambiente sono beni comuni e la loro tutela pone dei vincoli, che spesso vengono mal sopportati dalle amministrazioni locali.

 

Qui emerge una contraddizione tra la retorica leghista e la pratica: da un lato si esalta il valore delle radici, della tradizione e del territorio; dall’altro possiamo vedere come, per esempio, i piccoli imprenditori del Nord-Nordest, protagonisti di un boom tardivo, non si siano fatti molti scrupoli a distruggere quel territorio tanto celebrato, facendosi forza dell’idea che a loro è dovuto.

 

Al lombardo e al veneto che lavorano dieci-dodici ore al giorno tutto deve essere concesso, nessun vincolo deve limitare chi lavora per arricchirsi. La concezione della Lega è infatti assolutamente antropocentrica: la natura esiste per essere asservita all’uomo, o meglio al profitto. Così accade che da una parte si devastino province intere con capannoni e magazzini, e dall’altra gli stessi protagonisti di tali interventi, finalizzati solo al guadagno, rimpiangano i bei tempi andati di una terra contadina dove si parlava in dialetto e non c’erano stranieri. Quegli stessi stranieri che in gran parte contribuiscono alla costruzione di tale ricchezza.

 

I masai guardano al futuro per difendere il presente; al contrario, da noi si guarda al passato per distruggere il futuro.

 

(M. Aime)






domenica 20 giugno 2021

DA QUAL BOCCA LA VERITA' (31)

 























Precedenti capitoli:


Dei racconti della Domenica,


ovvero: DA QUAL BOCCA LA VERITA' (30)











&  Il Capitolo (alle porte) completo... 


Prosegue ancora con...:


Pupi di cartapesta  &


L'antropologo (& i diversi)








....Riprese,

 

‘perché non ne faremo venire anche uno allegro, amante del lieto vivere?’

 

E Zeus:

 

‘Ah, no! non è dato di mettere il piede qui dentro a chi non segua i nostri principi’.

 

‘Se è solo per questo’,

 

ribatte Dioniso,

 

‘lo si faccia venire all’entrata, e lì lo si giudichi.

 

Dunque, se siete d’accordo, io ne conosco uno che, non inesperto nelle cose di guerra, è però assai più approfondito nei piaceri e nei godimenti. Venga, non oltre il vestibolo, Costantino!’

 

Ciò approvato, rimaneva ancora da deliberare la forma del dibattito.




 Ermete proponeva che ciascuno a turno parlasse delle proprie azioni, e poi gli Dei dessero il voto. Ma non pareva ad Apollo che questo modo garbasse, perché — diceva — di verità, non di arte persuasoria o di astuzia si fa questione da parte dei Numi. Sennonché Zeus, che voleva compiacere ad entrambi e, in pari tempo, prolungare di più in più l’adunanza:

 

‘Nulla vieta’,

 

dice, 

 

‘che si lascino arringare, misurando a ciascuno una piccola razione d’acqua, e poi si interroghino ammodo e si saggino i profondi pensieri d’ognuno’.

 

E Sileno, scherzando: 

 

‘Purché Traiano ed Alessandro, prendendola per nettare, non si tracannino tutta quell’acqua, e non lascino gli altri all’asciutto!’. 

 

...Ma Posidone:


 

‘Non della mia acqua, sì del tuo liquore andavano pazzi quei due signori. Il pericolo è dunque più per le tue proprie viti, che non per le mie fontane’.

 

Sileno, scottato, non fiatò più, e rivolse, da questo punto, tutta la sua attenzione ai contendenti….

 

 

Ermete faceva da banditore:





  

S’apre una gara

Che al vincitore

Gioia prepara

D’ambiti onor.

È tempo, via!

Che ormai si ascolti

La voce mia

Di banditor.

 

Voi che una volta,

Imperatori,

Osaste molta

Gente asservir,

E, guerreggiando,

Il fine ingegno

Al par del brando

Crudele acuir,

 

Ora ad eguale

 Lotta sorgete

Or quel che vale

Dimostri ognun!

 

Che la sapienza

Fosse lo scopo

Dell’esistenza

Parve a talun.

 

Altri i nemici

Di molti mali,

Di ben gli amici

Amò colmar.

 

Tale in conviti

Goder la vita,

D’oro e vestiti

Gran sfoggio far,

Al braccio in cima

Cinger monili

Stimò la prima

Felicità.

 

Ma dell’agone

A chi più spetti

Il guiderdone

Giove dirà.

 

Siam lieti di assistere

a tal evento propiziato

al banchetto offerto

in onor e per conto

dello stato

da loro troppo spesso seviziato.

 

Anche quando questo

offeso e vilipeso

da chi sazia il proprio appetito

al seggio conquistato

…e poi come sempre inquisito.

 

Non dimenticando così

pur con tutto l’affetto

compreso (nel prezzo)

che è pur banchetto e diletto

spesso ignaro all’ignaro popolo

agognato e digiuno

del vero movimento

con cui si compone

l’appetito di un potenziale recluso.

 

Ma solo in nome del potere detto

che rende l’innominato loro ardire

volontà e Dei reclamati

mai uguagliati nei lunghi digiuni

neppure - se per questo -

nel sobrio aspetto

dal tempio all’altare offerto:

 

nobile vista

penitente nella forma

aliena alla sostanza

crollata alla forza tellurica

di diversa Omerica Natura.

 

Consumati al banchetto 

e tradire in ogni loro dire

il principio offerto

motivo del palchetto

divisi ed uniti

consumati da ugual pasto

cambiare portata

 

così come un tempo

si era soliti

accompagnare il miele con le mele

alla bocca del porco

del porco offerto

teatro della commedia

recita di un impero.

 

Dolce e salato

con il contorno estasiato

da chi esiliato

nutrire il misero corpo

con ordine e gradimento

adatto - oltre al palato -

anche all’antico Spirito vegetariano

ed ugualmente esiliato.

 

Ma s’aprano le danze

chi della democrazia

non meno della filosofia

nonché del povero Nazzareno

fece scempio

tutto il popolo è cameriere

nell’ora in cui la Grande Notizia

al banchetto e cospetto

di un ben diverso movimento…

 

(Giuliano dedicato ai Cesari) 

       

 


 In seguito, fu un’altra leggenda a farsi strada.

 

Secondo la leggenda la Bocca della Verità fu realizzata da Virgilio Grammatico, erudito vissuto nel corso del VI secolo ed esperto di arti magiche. Costui incaricò l’idolo di scoprire gli uomini e le donne che si erano macchiati di tradimento. La leggenda fu confermata da alcuni scritti risalenti al XV secolo, nei quali viaggiatori tedeschi e italiani ricordano che la lapide della verità aveva il potere di indicare le donne che avevano tradito i propri mariti.

 

Un’altra leggenda proveniente dalla Germania e risalente al Quattrocento, racconta di quando la Bocca non osò mordere la mano di un’imperatrice romana che, malgrado avesse tradito il marito, fu risparmiata.




 La storia si intreccia con un’altra leggenda in auge nel Medioevo. Una giovane donna, condotta dal marito sospettoso davanti alla Bocca della Verità, riuscì a salvare la mano grazie ad un espediente. La ragazza, infatti, chiese all’amante di raggiungere la piazza e di fingersi pazzo, quindi di abbracciarla davanti alla folla. L’amante fece esattamente ciò che gli fu chiesto, cosicché quando la donna infilò la mano nella Bocca, giurò di essere stata abbracciata soltanto dal marito e dall’uomo accorso quel mattino stesso. Trattandosi della verità, la donna superò indenne la prova, nonostante avesse commesso davvero l’adulterio.


[& il capitolo completo]

 

Il nome con cui tutti conosciamo l’effige fece la sua prima comparsa in un testo del 1485: da allora, la Bocca è diventata una delle opere più famose della città, costantemente menzionata tra le curiosità di Roma. Dal testo stesso apprendiamo che in origine era collocata in un’altra posizione e che fu Papa Urbano VIII a farla spostare al di sotto del portico nel 1631.

 

La Piazza in cui fu sistemata la Bocca della Verità sorge all’incrocio tra Via della Greca e Via Luigi Petroselli, nel rione Ripa. Situata nell’area su cui una volta sorgeva il Foro Boario, di fronte all’Isola Tiberina, prende il nome dalla Bocca della Verità, che presumibilmente fu collocata sulle pareti esterne della chiesa di Santa Maria in Cosmedin già prima del Quattrocento.