giuliano

martedì 27 settembre 2022

LA TEMPESTA DEL FIUME (30)

 










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Torino, 30 agosto 1890. 

 

Egregio signor Cainer,

 

Compio il triste dovere di darle i dettagli della disgraziata escursione al Cervino, dove mi morì sotto gli occhi Gio. Antonio Carrel.

 

Il giorno 21 agosto, essendo a Courmayeur, impegnai G. A. Carrel, appena reduce da una felice ascensione al Monte Bianco per la via del Rocher; con lui, Carlo Gorret (pure di Valtournanche), che conoscevo per prova eccellente guida. Nostra intenzione era traversare il Cervino che Carrel, desiderosissimo dell’escursione, mi assicurò dover essere in ottime condizioni.

 

Il 22 sera eravamo al Breuil, con tempo caldo e splendido. Il 23, alle 2,15 ant., sempre con tempo incantevole, partiamo pel Cervino coll’idea di scendere la stessa sera pel versante svizzero alla capanna dell’Hòrnli. Ma si camminò un po’ comodamente, sulle rocce presso al Col du Lion il verglas ritardò alquanto la nostra marcia, e quando si giunse alla Capanna della Gran Torre (3890 m.), verso le 10, la prudenza consigliava di rimetter la salita al giorno dopo, tanto più che il cielo veniva alquanto rannuvolandosi.

 

Così fu deciso, e si rimase.

 

Debbo qui ricordare di aver osservato non senza inquietudine (e con me Gorret) che Carrel a partire dal Col du Lion si mostrò stanco, e saliva le corde con molto stento. Attribuii questo a una passeggera debolezza, e non se ne parlò. Appena giunto alla Capanna, si sdraiò, e dormì due ore profondamente, svegliandosi ristorato e ben disposto. Intanto il tempo veniva guastandosi rapidamente, e nuvole procellose partite dal Monte Bianco già lambivano la vicina Dent d’Hérens. Ritenendo questo un temporale, fiduciosi nel vento del nord che soffiava sempre con insistenza, non ce ne inquietammo.




Intanto, verso le 3, i Maquignaz (Daniele e Antonio di Pietro e Antonio di Giuseppe) e Edoardo Bich, che avevamo trovato alla Capanna, reduci dall’aver collocato le corde, ripartivano pel Breuil. Li salutammo, e ci augurarono buona salita facendoci sperare in un’ottima giornata pel domani. Ma il tempo, partiti loro, peggiorò con grande rapidità; il vento cangiò e verso sera scoppiò una bufera violentissima di grandine e neve accompagnata da frequenti scrosci di fulmine; ricordo che l’aria era così satura di elettricità, che per due ore di seguito, nella notte, fu stranamente luminosa e ci si vedeva nella capanna come in pieno giorno.

 

La bufera continuò tutta la notte, il giorno e la notte seguente, sempre con incredibile violenza e pertinacia; nella capanna la temperatura scese a - 3°. La situazione diveniva inquietante, le provviste cominciavano a scemare, avevamo già intaccati i banchi della capanna per legna da ardere. Il continuo imperversare dell’uragano ci aveva messo in uno stato di tensione difficilmente sostenibile. Aveva poi continuamente nevicato e grandinato, le rocce erano già in pessimo stato, e temevamo, sostando più a lungo e continuando la bufera, di vederci sequestrati per qualche giorno alla capanna.




Così stando le cose, fu deciso tra le guide che, se appena il vento si fosse calmato, la mattina appresso si sarebbe discesi. Difatti, la mattina del 25, calmatosi un po’ il vento, ma con tempo sempre pessimo, si stabilì di comune accordo la discesa. Alle 9 a.m. lasciammo la capanna. Non dirò delle difficoltà e pericoli incontrati nello scendere la cresta sino al Col du Lyon, ove giungemmo alle 2,30 pomeriggio; le corde erano mezzo gelate, le rocce coperte di verglas e di neve fresca che aveva mascherato tutti gli appigli; alcuni tratti furono addirittura pessimi, e devo molto alla prudenza e al sangue freddo delle due guide se li superammo senza disgrazie.

 

Al Col du Lyon, quando speravamo un po’ di tregua dal vento e dalla neve, cominciò invece a soffiare la tormenta, in modo che nella traversata, che riuscì orribile, delle rocce e couloirs nevosi sotto la cresta del Lyon, eravamo quasi soffocati dal vento e dal nevischio che c’investivano da tutte le parti. Gorret mezz’ora prima sotto la capanna aveva già avuto una mano gelata, causa la perdita di un guanto; qui il freddo era spaventevole; tutti i momenti dovevamo toglierci il ghiaccio dagli occhi, stentavamo a parlare e ad intenderci.




Pure Carrel continuava a guidare questa discesa in modo ammirabile, con un sangue freddo, un’energia inesauribile, un’abilità superiore. Ero trasognato vedendolo cambiato così. Gorret lo secondava splendidamente e a nessuno di noi sfuggì una parola di scoraggiamento che sarebbe riuscita pericolosa. Tutta questa parte della discesa ci offrì inattese difficoltà, e fu in diversi punti pericolosissima, tanto più che la fitta tormenta impedì a Carrel di ben orizzontarsi nonostante la sua grande conoscenza del Cervino.

 

Verso le 11 di sera (calcolo almeno così, avevamo gli abiti mezzo gelati, mezzo gelati eravamo noi, né d’altra parte ci ricordammo mai di guardare l’orologio), eravamo ancora impegnati nelle ultime rocce; varie volte avevamo perso la buona direzione, col tempo sempre pessimo, e le guide si domandavano di tratto in tratto dove si andava; allora si camminava avanti, perché fermarsi non era possibile.




Carrel, per mirabile intuito, infilò finalmente il couloir buono, già seguìto nella salita e che doveva metterci in salvo al gran nevaio sopra i pascoli di Riondè. Lì, sotto una grotta, sostammo due minuti a bere il cognac. Nella traversata del nevaio, vedemmo Carrel rallentare la marcia, poi scivolare e cadere due o tre volte a terra. Gorret gli chiese che avesse; Carrel rispose: ‘rien’ e continuò, con stento. Attribuendo questo alla stanchezza per l’eccessivo lavoro, Gorret si pose a capo della carovana: molto si affondava nel la neve, e Carrel, dopo il cambio, parve star meglio e camminò speditamente, sebbene con insolita circospezione.

 

Dal nevaio sopraddetto un breve e ripido couloir erboso mette ai pascoli di Riondè, che dovevano essere la nostra àncora di salvezza. Gorret scese primo, io dopo lui. Gorret era quasi alla fine del passo (avevamo la corda lunga) quando sento tirare la corda dietro a me. Ci fermiamo e, mal collocati come eravamo, gridiamo a Carrel più volte di scendere. Nessuna risposta. Inquieti risaliamo un poco e lo sentiamo dire con voce debole:  ‘Montez me prendre, je n'ai plus de forces’.




Lo raggiungiamo immediatamente: era bocconi, aggrappato ad una roccia, mezzo intorpidito, incapace di alzarsi e fare un passo. Con grandissimo stento lo trasportiamo alcuni passi più sopra, in luogo sicuro, gli chiediamo cos’ha. Non rispondeva altro che ‘je ne sais plus où je suis’: le mani diventavano sempre più fredde, la parola più rotta e debole, il corpo inerte. Tutto ciò che potemmo per lui, fu fatto: gli introducemmo in bocca, a stento, l’avanzo del vino bianco e del cognac: gridò allora, parve rianimarsi, ma fu cosa passeggera: mettemmo in opera le frizioni di neve, le scosse energiche, le percosse : continuamente lo chiamavamo, e non rispondeva che con gemiti. Cercammo sollevarlo: impossibile, irrigidiva. Ci chinammo al suo orecchio, e gli chiedemmo se volesse raccomandarsi al Signore. Rispose di sì, con un ultimo sforzo; poi prese a rantolare e cadde rovescio sulla neve, morto.

 

Cosa passammo in quell’ora e in quel momento nelle nostre condizioni, è impossibile descrivere.




Eravamo assiderati, Gorret mi diceva: ‘Je commence à geler’ io mi sentiva minacciato dal sonno: conveniva non perdere un minuto. Col cuore serrato, tagliammo la corda che ci legava al povero, caro e valoroso compagno, e con un’emozione indicibile continuammo la discesa. Abbrevio: alle 5 di mattina, avendo sempre camminato con pertinacia, consci che qui solo era la nostra salvezza, arrivammo al Giomein, ove tutti erano inquietissimi per noi: una spedizione di soccorso doveva salire alla Capanna lo stesso giorno.

 

Avevamo camminato venti ore (in condizioni ordinarie la discesa dalla Capanna della Torre al Giomein si può fare in 4 o 5 ore), senza aver mai potuto mangiare e quasi senza sosta. L’impressione fu profonda e angosciosa. Niuno attendeva così tragica fine da un’escursione iniziata sotto un cielo splendido e colla più grande allegria.

 

Sei guide, di cui due svizzere, con nobilissimo pensiero offerte da due signori inglesi di cui mi spiace non ricordare il nome (ringrazio questi gentili con tutto il cuore) partirono immediatamente alla ricerca del cadavere.




Obbligato a continuare per poter giungere a Courmayeur, ove mia madre mi attendeva la stessa sera, ebbi tempo ancora di vedere col cannocchiale le guide a discendere colla salma. A mezzanotte ero di ritorno a Courmayeur.

 

Tale la relazione più completa che nel fantastico tumulto dei ricordi mi fu possibile, di questa disgrazia così intensamente triste in sé e per le circostanze che l’accompagnarono. Con Gio. Antonio Carrel l’alpinismo perde una delle sue più gloriose illustrazioni, uno dei nomi più cari e più stimati. Carrel è morto da santo e valoroso sulla sua montagna, dopo aver radunato tutta la energia di cui era capace, per salvare il suo viaggiatore; è morto dopo averlo messo al sicuro dai pericoli, esaurito dal supremo sforzo fatto in sedici ore di assiduo lavoro, fra continue lotte e difficoltà, sotto una tormenta che in molti punti pareva di quelle a cui non si resiste.

 

Non mi ricorderò mai di lui senza una commozione e una riconoscenza infinita. E a suo fianco voglio ricordare Carlo Gorret, uomo di cuore, di dovere e di coraggio come ve ne hanno pochi. Egli tenne il suo posto, difficilissimo, con un’intrepidezza e un’abnegazione che non esito a dire meravigliose: e per chi era anche a lui affidato ebbe le cure che un padre potrebbe avere per salvare il figlio.




Io lo ringrazio con tutto il cuore di quanto ha fatto per me. Non voglio chiudere senza ricordare ancora gli egregi colleghi Sciorelli e Melano che trovai all’Albergo del Giomein e che furono pieni delle più delicate attenzioni per la mia guida e per me; e così, a Châtillon, il collega Gervasone e il nostro ottimo presidente cav. Martelli, l’affettuosa accoglienza dei quali ci riuscì di qualche conforto.

 

Ne avevamo grande bisogno.

 

Mi creda, egregio sig. Gainer, colla maggior stima e considerazione di lei devano

 

Leone Sinigaglia (Sezione di Torino).

 

A rendere completa la narrazione del signor Sinigaglia, aggiungiamo che egli partì dal Giomein alle 10 1/2 a.m.  del 26, lasciando al proprietario signor Peraldo le opportune disposizioni per il funerale. A mezzogiorno ritornava la spedizione che era partita alle 5 a.m. per andare a rilevare la salma di Carrel. Era composta di otto persone: le guide Pession Alessandro, Pession Elia e Maquignaz Vittorio di Valtournanche, tre pastori del luogo e le guide svizzere Adolf Schaller e Pollinger concesse dai signori Littledale e Schinz di Liverpool. Mossero incontro alla salma questi due signori, i nostri soci G. B. Melano (Sez. Varallo) e Sciorelli (Sez. Torino) e l’ing. Copello di Torino, che pure si trovava all’albergo, e insieme accompagnarono la salma alla vicina cappella del Breuil, dove fu deposta e rimase sino al 29, nel qual giorno venne trasportata a Valtournanche e sepolta in quel cimitero.

 

(C.A.I.)






mercoledì 14 settembre 2022

LA CULTURA DEL BRANCO (24)










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Di una buona 'maestra' (23) 


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Rapporto annuale 


dell'ISTAT (2022)  


& l'immagine del mondo (25)







Tanto per cominciare, la preoccupazione di essere, e di restare, ‘in anticipo rispetto alle mode del branco’, cioè del proprio gruppo di riferimento, degli ‘altri significativi’, degli ‘altri che contano’, coloro dalla cui approvazione — o dal cui rifiuto — dipende il successo, o il fallimento.

 

Per dirla con Michel Maffesoli, ‘io sono colui che sono perché gli altri mi riconoscono come tale’, mentre ‘la vita sociale reale non è che un’espressione di sensi di appartenenza, che si succedono l’uno all’altro’ (Maffesoli, 2000, pp. 40-41). Per chi non riesce, in un modo o nell’altro, a ottenere il riconoscimento degli altri, l’ammenda — ovvero l’unica alternativa — è una sequela di rifiuti, o comunque di esclusioni.

 

Occorre ricordare, però, che in una società di consumatori, in cui i legami umani passano generalmente per il mercato dei beni di consumo, il senso di appartenenza non si ottiene eseguendo le procedure stabilite e sanzionate dalle ‘mode del branco’ a cui uno aspira, bensì tramite l’identificazione dell’aspirante, per metonimia, con il ‘branco’ stesso; il processo di autoidentificazione dipende, nel suo svolgimento e nei risultati che esibisce, da ‘segnali di appartenenza’ ben visibili, che di solito si ottengono nei negozi.




Nelle ‘tribù postmoderne’ (come Maffesoli preferisce ribattezzare le mode del branco della società del consumo), le figure emblematiche e i loro segnali di identificazione (gli indizi evocati dal modo di vestire e/o dai codici di condotta) rimpiazzano i totem delle tribù originarie. Essere in anticipo, nell’ostentare i segni delle figure emblematiche, delle mode del branco, è l’unica ricetta sicura per convincersi del fatto che il branco prescelto ci riconoscerebbe e ci accetterebbe senz’altro, se fosse al corrente della nostra esistenza. Rimanere in anticipo, d’altro canto, è l’unico modo per essere sicuri che il proprio desiderio di appartenere duri per tutto il tempo desiderato (ossia per convertire un permesso d’ingresso provvisorio in un permesso di soggiorno a tempo determinato, ma rinnovabile). Dopotutto, l’idea di anticipare gli altri porta con sé una chance di sicurezza, di certezza, di certezza di essere sicuri; proprio quel tipo di esperienza di cui la vita di oggi ci priva in modo tanto evidente e sofferto, nonostante il nostro desiderio di acquisirla.

 

L’idea di anticipare le mode del branco rispecchia la promessa di un grande apprezzamento, e di una domanda diffusa, da parte del mercato. Questo si traduce nella certezza del riconoscimento, dell’approvazione e dell’inclusione; o forse in un’offerta all’asta, che di fatto si riduce a una sfilata di emblemi: dall’acquisto degli emblemi, al pubblico annuncio della loro titolarità, sino a che il loro possesso non è un dato di pubblico dominio (e si traduce, a sua volta, in un senso di appartenenza).




L’idea di continuare ad anticipare il branco rappresenta invece una saggia precauzione, onde non dimenticarci che prima o poi gli emblemi di appartenenza con cui oggi ci identifichiamo andranno fuori mercato, per essere rimpiazzati da altri emblemi più nuovi. Si previene, così, il rischio di perdersi per strada, che poi si tradurrebbe, nel caso delle offerte di appartenenza mediate dal mercato, in un senso di rifiuto, di esclusione, di abbandono e di solitudine, e in ultima istanza in un penoso senso di inadeguatezza personale.

 

Mary Douglas, la cui celebre teoria ha smascherato i significati nascosti degli atteggiamenti dei consumatori, ha suggerito ‘che la teoria dei bisogni dovrebbe muovere dall’assunto che qualsiasi individuo abbia bisogno di certi beni per motivare altre persone a aderire ai suoi progetti […], i beni servono proprio per mobilitare gli altri’ (Douglas, 1988, p. 24). O almeno per darci la gradevole sensazione che sia stato fatto tutto ciò che andava fatto per ottenere questa mobilitazione.

 

In secondo luogo, il messaggio che ci arriva ha sempre una data di scadenza: attenti, lettori, varrà ‘per i prossimi mesi’, e non di più. È un aspetto che si accorda bene con la visione del tempo del divisionismo, fatta di istanti, di episodi di durata determinata, e di nuovi inizi. È un aspetto che libera il presente (che andrebbe esplorato e sfruttato appieno) dalle distrazioni del passato e del futuro, che avrebbero impedito la concentrazione e rovinato l’euforia della libera scelta. Ne deriva un duplice risvolto positivo: si è al contempo aggiornati e al riparo dal rischio di rimanere indietro in futuro (almeno per quanto riguarda il futuro prevedibile, se esiste una cosa del genere…). I consumatori più esperti avranno senz’altro modo di cogliere il messaggio, che li spingerà ad affrettarsi, rammentando loro che non c’è tempo da perdere.




Questo messaggio implica anche un assunto che è ancora più rilevante: per quanto si possa guadagnare, rispondendo solertemente al richiamo, non durerà per sempre. Quale che sia la garanzia che si acquista, sarà comunque necessario rinnovarla, una volta trascorsi i ‘prossimi mesi’. È pur sempre, e solo, un intervallo. In un romanzo che reca come titolo (appropriato) ‘Elogio della lentezza’, Milan Kundera rivela l’intimo legame che esiste fra velocità e oblio: ‘Il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio’.

 

Perché mai?

 

Perché ‘se per accedere alle luci della ribalta è necessario lasciare in disparte le altre persone’, per accedere a quella ribalta di peculiare importanza, nota come ‘attenzione dell’opinione pubblica’ (o meglio, come attenzione di una platea destinata a essere riciclata in forma di consumatori), è necessario estrometterne gli altri oggetti d’attenzione: gli altri personaggi, le altre trame, ivi compresa la trama che era appena andata in scena il giorno prima… La ‘ribalta — ci rammenta Kundera — è illuminata solamente nel corso dei primi minuti’. Nel mondo liquido moderno, la lentezza è il presagio della morte sociale. Come osserva Vincent de Gaulejac, ‘giacché tutti progrediscono, chi rimane fermo sarà inevitabilmente separato dagli altri, per effetto di una distanza sempre più incolmabile’ (de Gaulejac, 2005, p. 134). Il concetto di ‘esclusione’ suggerisce l’idea, infondata, dello spostamento di un oggetto dalla posizione originaria che occupava; in realtà, ‘è la stagnazione che esclude’.




In terzo luogo, giacché l’offerta di quella guida della moda non comprende un look soltanto, ma ‘una mezza dozzina’ di look diversi, si è veramente liberi (anche se — va aggiunta una nota cautelativa! — l’insieme delle offerte disponibili traccia un limite ben preciso, oltre il quale la scelta non può andare). Si può scegliere il look che si predilige. Ma la scelta in quanto tale — la scelta di un determinato look — non è in discussione, dato che è esattamente ciò che si deve fare e che non si può in alcun modo evitare di fare, se non si vuole rischiare l’esclusione. Né tanto meno si è liberi di influire sull’insieme delle scelte disponibili, dato che non esistono opzioni realistiche in alternativa a quelle che sono già state preselezionate, prestabilite e prescritte.

 

Tutte queste sfumature, però, non hanno poi grande importanza: che si tratti del poco tempo a disposizione; dell’esigenza di ingraziarsi i favori del ‘branco’ (qualora i suoi componenti, rivolgendoci lo sguardo, osservino i nostri indumenti e il nostro contegno, prendendone esempio); o del ristrettissimo numero di scelte a nostra disposizione (non più di mezza dozzina). Quello che importa veramente è che la responsabilità delle scelte è tutta nostra. E non potrebbe essere altrimenti: è possibile scegliere delle opzioni diverse, ma non è possibile fare a meno di scegliere. Ellen Seiter (1993, p. 3) osserva che ‘dai vestiti alla mobilia, dai dischi ai giocattoli’, tutte le cose che compriamo ci richiedono di prendere delle decisioni e di usare i nostri gusti e la nostra capacità di giudizio; come aggiunge la stessa autrice, però, ‘va da sé che non esercitiamo alcun controllo, ex ante, sull’insieme delle cose fra cui possiamo scegliere’. Rimane il fatto che ‘scelta’ e ‘libertà’, nella cultura del consumatore, sono praticamente sinonimi; e che è corretto trattarle come tali, quanto meno nel senso che si può fare a meno di scegliere soltanto nella misura in cui si rinuncia alla propria libertà.




L’avvento della libertà è visto sempre come un esaltante atto di emancipazione: che sia da doveri insopportabili e da irritanti proibizioni, o da abitudini ottuse e monotone. Ma non appena la libertà diventa una cosa abituale, e si trasforma nel pane quotidiano, subentra un nuovo orrore, in nulla inferiore a quello di cui ci si era appena liberati, e che fa addirittura impallidire i ricordi delle sofferenze e delle lamentele del passato: l’orrore della responsabilità. Le notti che seguono le giornate di routine obbligatorie sono piene di sogni di libertà dagli obblighi del passato. Le notti che seguono le giornate di scelte obbligatorie sono piene di sogni di liberazione dalla responsabilità.

 

Tutti e tre i messaggi sono l’annuncio, all’unisono, di uno stato di emergenza. In questo, di per sé, non vi è nulla di nuovo. Non è che l’ennesima reiterazione di quei principi, sovente ribaditi, per cui la vigilanza incessante, la costante disponibilità ad andare dove si deve, e i soldi e le energie da spendere a tale scopo, sono tutte cose buone e giuste. I segnali d’allerta sono visibilmente accesi (come un semaforo rosso? O giallo?), nuovi punti di partenza (carichi di promesse) e nuovi rischi (carichi di minacce) si presentano sul nostro cammino.




Da qualche parte, non lontano da dove ci troviamo, ci attendono tutti gli accessori necessari per fare le scelte giuste (ossia per onorare l’inalienabile responsabilità che abbiamo verso noi stessi e per noi stessi): i dispositivi e le procedure più idonei, insieme con le istruzioni su come meglio farne uso, a nostro vantaggio, sono senz’altro alla nostra portata, e non dovrebbe essere difficile trovarli, con un po’ di sforzi e di ingegno. La cosa più importante, però, è sempre la stessa: non perdere mai il momento giusto per intervenire, se non ci si vuole trovare — per un motivo o per l’altro — in ritardo rispetto alle ‘mode del branco’, invece di anticiparle. E non si può nemmeno distogliere lo sguardo dall’infinita varietà del mercato dei consumi, limitandosi a fare leva sulle esperienze e sulle abitudini che hanno funzionato bene in passato.

 

Nel suo importante studio sugli stravolgimenti che si producono, al giorno d’oggi, nella nostra percezione ed esperienza del tempo, Nicole Aubert sottolinea il ruolo cruciale rivestito dallo ‘stato d’emergenza’ e dal senso di urgenza che tale stato, una volta dichiarato, dovrebbe diffondere, disseminare e far attecchire. Secondo Aubert, lo stato e il senso di emergenza, nelle società attuali, soddisfanno tutta una serie di esigenze esistenziali che in altri tipi di società tenderebbero a essere soppresse e trascurate, o sarebbero realizzate attraverso stratagemmi del tutto diversi. I nuovi espedienti, che Aubert riconduce a una strategia di coltivazione intensiva del senso di urgenza, forniscono tanto agli individui, quanto alle istituzioni, un senso di sollievo illusorio, e nondimeno efficace, nella loro battaglia per mitigare le ricadute negative — potenzialmente assai gravi — della continua necessità di scegliere, propria del libero consumatore (Aubert, 2003, pp. 62-63).




Una delle illusioni principali è quella generata dalla condensazione momentanea di forme d’energia altrimenti disperse, provocata dai segnali d’allerta. Quando arriva alla soglia dell’autocombustione, l’accumulazione di queste energie è motivo di sollievo (sia pure effimero) a fronte del terribile senso di inadeguatezza che incombe sempre sulla vita quotidiana dei consumatori. Gli individui a cui Aubert parlava, e che osservava da vicino — individui, per inciso, ben allenati nell’arte di consumare la vita, e per questo ormai intolleranti verso ogni tipo di frustrazione, e non più capaci di fare fronte ad alcuna dilazione della gratificazione, che per loro non può non avere una valenza immediata —, questi individui, che si sono come rannicchiati nel momento presente, in una logica ostile a qualsiasi ritardo, si cullano nell’illusione di poter conquistare il tempo, abolendolo, o per lo meno mitigandone l’effetto di frustrazione.

 

Non si possono certo negare le potenzialità terapeutiche, e l’effetto tranquillizzante, di una siffatta illusione di padronanza del tempo: la capacità di dissolvere il futuro nel presente, e di richiuderlo tutto nell’hic et nunc. Se, come sostiene Alain Ehrenberg (1998) con dovizia d’argomenti, la sofferenza umana di oggi tende per lo più a scaturire dalla sovrabbondanza di possibilità, piuttosto che da un eccesso di divieti (come in passato), e se l’opposizione tra il possibile e l’impossibile è subentrata all’antinomia fra ciò che è consentito e proibito — come frame cognitivo e criterio essenziale di valutazione e scelta delle strategie di vita —, ebbene, non si può non aspettarsi che la depressione che scaturisce dal timore dell’inadeguatezza si sostituisca alla nevrosi provocata dal timore del senso di colpa (ossia di un’accusa di non conformità, a seguito di una violazione delle regole), come forma più caratteristica e diffusa di sofferenza psichica, fra i cittadini a metà (denizens) della società dei consumi.




Un importante servizio che può offrire una vita in condizioni di emergenza continua (anche se, magari, del tutto artificiose o retoriche), per la salute degli uomini del nostro tempo, è la versione aggiornata della ‘caccia alla lepre’ di Blaise Pascal, riadattata all’ambiente sociale odierno: una caccia che, al contrario di una lepre già uccisa, cucinata e consumata, lascia al cacciatore appena il tempo di riconoscere la brevità, la vacuità, l’inutilità dei suoi propositi d’azione, e più in generale di tutta quanta la sua vita terrena. I successivi cicli di recupero dall’ultimo allarme, di riadattamento e di recupero delle forze sino all’allarme successivo, di una vita che riattraversa il momento dell’emergenza e nuovamente si riprende dalle tensioni e dalla perdita d’energia che ha appena subito, ebbene, questi cicli riempiono tutti i potenziali buchi neri di una vita che potrebbe essere riempita, quale unica alternativa, della consapevolezza intollerabile — e solo provvisoriamente repressa — delle cose ultime: quelle cose che, per la propria salute e per amore della propria vita, si preferisce dimenticare. Per citare ancora una volta Aubert:

 

‘Gli affari incessanti, con un’urgenza che ne segue subito un’altra, diventano la garanzia di una pienezza di vita o di una carriera di successo, l’unica prova autentica di autoaffermazione, in un mondo da cui è assente ogni riferimento all’aldilà, e l’unica certezza è la dimensione finita dell’esistenza […]’.




‘Nel mentre agiscono, le persone pensano solamente al breve termine: le cose che andranno fatte subito, o nel futuro immediato […] fin troppo sovente, l’azione non è altro che una fuga dal proprio Sé, un rimedio per l’angoscia che ci prende (Aubert, 2003, pp. 62-63)’.

 

Potremmo aggiungere che quanto più l’azione è intensa, tanto più si potrà contare sui suoi effetti terapeutici. Quanto più ci immergiamo nell’urgenza di un compito immediato, tanto più allontaneremo l’angoscia da noi; o, quanto meno, essa ci risulterà un po’ meno intollerabile, se proprio non ci riuscirà di tenerla lontana.

 

Né l’apprendimento né l’oblio ci permettono di eludere gli effetti della tirannia del momento; dello stato di emergenza incessante; del tempo sprecato in una lunga sequela di nuovi inizi, apparentemente (e subdolamente) scollegati l’uno all’altro. La vita del consumatore è una vita di continuo apprendimento; e, parimenti, di rapido oblio.

 

L’oblio non è meno importante dell’apprendimento. Forse, anzi, è più importante. Per ogni ‘devi’ c’è un ‘non devi’, e quale dei due riveli l’autentico obiettivo dell’incessante processo di rinnovamento/rimozione, e quale, invece, non sia che uno strumento accessorio, rispetto al raggiungimento dell’obiettivo stesso, è questione inevitabilmente incerta e controversa. Il tipo di informazione che si potrebbe trovare più facilmente, in un’opera come la Guida alla moda citata poc’anzi, è che ‘il punto di riferimento di quest’autunno è la Carnaby Street degli anni Sessanta’; o che ‘l’attuale ripresa dello stile gotico è perfetta per questo mese’. Va da sé che ‘quest’autunno’ è qualche cosa di radicalmente diverso da ‘quest’estate’, e che ‘questo mese’ non assomiglia in nulla ai mesi appena trascorsi: ciò che era perfetto per il mese scorso è tutt’altro che perfetto per questo mese.




E gli esempi potrebbero proseguire a lungo. Nella stessa Guida alla moda, l’esortazione ad ‘aprire il beauty case e [a] dare dentro un’occhiata’ potrebbe essere seguita dall’indicazione ‘La prossima stagione sarà dominata dai colori forti’, e poi, magari, dall’avvertimento seguente: ‘Il beige e tutti i colori del genere, rassicuranti ma noiosi, hanno fatto il loro tempo… buttateli via, adesso!’. È naturalmente impossibile, in questa prospettiva, trovare un modo di combinare il ‘beige noioso’ con i ‘colori forti’. Una delle due tinte è condannata a lasciare il campo. È in sovrappiù. Un altro spreco, un altro effetto collaterale del progresso. Occorre sempre eliminare qualcosa, e bisogna farlo in fretta.

 

A che cosa serve, però, tutto questo? Occorre davvero buttare via il beige per poter usare delle tinte più vivaci, o sono forse queste ultime che, disposte in modo straripante sugli scaffali del supermercato, rispondono allo scopo di far buttare via subito l’offerta inutilizzata di beige?




Molte delle donne — dei milioni di donne — che scartano il beige, e si riempiono il beauty case di colori sgargianti, risponderebbero probabilmente che l’eliminazione del beige è uno sgradevole effetto collaterale del rinnovo e del miglioramento del loro make up; un sacrificio triste, ma necessario, che va fatto in nome del progresso. Fra le migliaia di responsabili di negozi di questo tipo, però, almeno qualcuno ci potrebbe forse rivelare che la scelta di riempire gli scaffali di trucchi dai colori sgargianti serviva ad abbattere i «tempi di vita» del trucco beige, e quindi a far andare avanti l’economia, ad aumentare i profitti. Non è forse vero che il PIL, la misura ufficiale del benessere della nazione, si misura in base alla quantità di denaro che le persone si scambiano le une con le altre? E la crescita dell’economia non è forse stimolata dall’energia e dell’attività dei consumatori? E un consumatore che non si liberi, a breve, di tutto ciò che ha già acquistato, è un po’ come un vento che ha smesso di soffiare…

 

A ben vedere, entrambe le risposte riportate poc’anzi sono corrette: si tratta di risposte complementari, e non contraddittorie. In una società abitata da consumatori, e in un’epoca di politiche della vita che vanno a sostituire la Politica di un tempo, quella che vantava la P maiuscola, l’autentico ciclo economico — l’unico che garantisca davvero il funzionamento dell’economia — è quello del compralo, goditelo, buttalo via…. Il fatto che due risposte simili, apparentemente contraddittorie, possano essere entrambe corrette, al medesimo tempo, è proprio l’impresa più straordinaria della società dei consumatori; quella che meglio spiega, a mio giudizio, la sua incredibile capacità di riprodursi e di espandersi nel tempo.


(Z. Bauman)








 

domenica 11 settembre 2022

L'ARTE DI EDUCARE ALLA NATURA (23)










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con taluni 'parenti' (22) 


Prosegue con...: 


la cultura del branco (24)







Se […] pensiamo [a quanto di più] i bimbi deboli, tubercolosi o rachitici, sono esposti alla natura nei moderni sanatori, perché l’esperienza ha indicato come unico mezzo a cui ricorrere per guarirli il farli dormire all’aria aperta e [il farli] vivere al sole, deve rimaner chiaro che tanto più i fanciulli normali e forti potrebbero non solo resistere, ma anche rinvigorirsi esponendosi più largamente di quello che non facciano agli elementi naturali.

 

Tuttavia ci sono ancora troppi pregiudizi su tale argomento, perché tutti ci siamo fatti volontariamente prigionieri e abbiamo finito con l’amare la nostra prigione e trasmetterla ai nostri figlioli.

 

La natura si è a poco a poco ristretta, nella nostra concezione, ai fiorellini che vegetano e agli animali domestici utili per il nostro nutrimento, per i nostri lavori o per la nostra difesa. Con ciò anche l’anima nostra si è rattrappita: si è adattata a contenere dei contrasti e delle contraddizioni, a confondere perfino il piacere di vedere animali con l’esser vicini alle povere bestie destinate a morire per nutrirci o a contemplare il canto e la bellezza di uccelli prigionieri in piccole gabbie con una specie di nebuloso “amore per la natura”!




Non c’è anche il pregiudizio che trasportando un po’ di sabbia del mare in un recipiente a forma di tavolino si “dia un immenso aiuto” al fanciullo? Molte volte, anzi, si pensa che la riva del mare sia educativa perché vi si trova la sabbia come nel recipiente. Così, nella confusione di una secolare prigionia, si giunge alle più assurde concezioni.

 

La natura, in verità, fa paura alla maggior parte [delle persone che] temono l’aria e il sole come nemici mortali. Si teme la brina notturna come un serpente nascosto tra la vegetazione. Si teme la pioggia quasi quanto l’incendio. Se oggi le esortazioni dell’igiene spingono un po’ l’uomo civile, questo carcerato soddisfatto, verso la libera natura, egli lo fa timidamente, con la più oculata precauzione. Dormire all’aperto, esporsi ai venti e alle piogge, sfidare il sole, tuffarsi nell’acqua [sono cose] di cui si può giungere a parlare, ma non sempre a metter[le] in pratica.




Chi non corre a chiudere una porta per timore di una corrente d’aria? E chi non chiude le finestre prima di addormentarsi, specialmente se è inverno e se piove? Quasi nessuno dubita che fare lunghissime passeggiate in aperta campagna anche sotto il sole o la pioggia, ricorrendo ai ripari che s’incontrano naturalmente, sia uno sforzo eroico, un rischio.

 

Bisogna esserci abituati, dicono: e non si muovono.

 

Come abituarsi, allora?

 

Forse i piccoli bambini si dovranno abituare?

 

Ma no: essi anzi sono i più protetti. Perfino gli inglesi, pionieri dello sport, escludono i piccolini dalle prove della natura e della fatica: è proprio là che la buona nurse li trascina, già grandi e cresciuti, in carrozzelle all’ombra quando fa buon tempo, e non li lascia né camminare lungamente né agire spontaneamente. No, lo sport, [proprio] dove è nato, è nato come una vera battaglia dei giovanotti più robusti e più coraggiosi: quelli stessi che si chiamano sotto le armi a combattere il nemico.




Sarebbe prematuro dire: sguinzagliate i bambini. Assecondateli: essi corrono fuori quando piove, si levano le scarpe quando trovano pozze d’acqua, e, quando l’erba dei prati è umida di brina, corrono con i loro piedini nudi per calpestarla; riposano pacificamente quando l’albero li invita ad addormentarsi alla sua ombra; gridano e ridono quando il sole li sveglia al mattino, [così] come sveglia ogni creatura vivente che divide la sua giornata tra la veglia ed il sonno. Ma noi invece ci domandiamo ansiosi come far dormire il bambino dopo l’aurora e come insegnargli a non levarsi le scarpe e a non fuggire sui prati. Quando [imprigionato] da noi, degenerato ed irritato dalla prigionia, egli uccide insetti o piccoli ed innocui animaletti, ci sembra “naturale”; e non ci accorgiamo che quell’anima è diventata già estranea alla natura. Ciò che chiediamo ai nostri bambini è che si adattino alla prigione senza darci fastidio.

 

Le energie muscolari dei bambini piccolissimi sono superiori a quanto supponiamo: ma per rivelarcele occorre la libera natura.




Il bimbo in città, dopo una piccola passeggiata, si dichiara stanco; e per questo noi crediamo che non abbia forza. Ma il suo languore viene [dall’artificialità] dell’ambiente, [dalla] noia, [dal] vestiario inadatto, [dal] tormento che il piccolo piede morbido soffre, chiuso nelle scarpe di cuoio che battono sul macigno nudo delle vie di città e dall’esempio accasciante delle persone che camminano tutte intorno silenziose, indifferenti e senza sorriso. Le attrattive di un abbigliamento di moda che può essere ammirato [o] di un club da raggiungere sono cose che non esistono per lui. Egli è al guinzaglio. L’accidia lo avvolge e vorrebbe essere trascinato.

 

Ma se i bambini sono a contatto con la natura, allora viene la rivelazione della loro forza. Anche al di sotto di due anni di età, i bambini normali, se di forte costituzione e ben nutriti, fanno chilometri di cammino. Ripide e lunghe salite al sole sono superate da quelle gambette instancabili. Mi ricordo che un bambino di circa sei anni sparì per delle ore: aveva sempre camminato su di una collina, pensando che, potendo arrivare in cima, avrebbe visto il mondo che sta dall’altra parte.

 

Ma non era stanco: era disilluso di non aver trovato quello che cercava.




Conobbi una volta una giovane coppia che aveva un bambino di appena due anni; babbo e mamma, volendo andare ad una spiaggia molto lontana, avevano pensato di portare il piccolo in braccio un po’ per uno: ma la fatica era stata eccessiva. Avvenne che il piccolo fece con entusiasmo tutta la strada da sé e ripeté la passeggiata ogni giorno. Invece di portarlo in braccio, i genitori facevano il sacrificio di camminare più adagio e di fermarsi quando il bambino si fermava per raccogliere qualche piccolo fiore oppure quando, scoprendo la bellezza di un asinello che mangiava l’erba di un prato, si sedeva serio e meditativo a far compagnia un istante a quell’essere umile e privilegiato. Invece di portare il loro bambino, quei genitori avevano risolto il problema seguendo il loro bambino.

 

Solo i poeti sentono il fascino di un fine rivoletto di acqua sorgiva tra i macigni, così come lo sente il piccolo bambino, che si entusiasma e ride, e vuol fermarsi a toccarlo con la mano come per accarezzarlo. Nessuno che io sappia, [tranne] san Francesco, ha ammirato l’insetto modesto o il profumo di un’erbicciuola senza attrattive, come [fa] uno di questi piccolini.




Conducete, vi prego, fra le vostre braccia, un infante che non ha ancora cominciato a camminare; tenetelo, per una via di campagna da cui si scorga un orizzonte magnifico e grandioso; tenetelo, dico, in modo da rivolgere la schiena al panorama. Lo vedrete fare sforzi per rivoltarsi e guardare lo spettacolo. Arrestatevi con lui! Egli gode di quella bellezza quando ancora non sa reggersi in piedi e la sua lingua non sa chiedere di fermarsi. Sì, lo possiamo dire parafrasando [un detto evangelico]: egli non vive di solo latte.

 

E avete mai visti [dei fanciulli] seri, affaccendati attorno al cadavere di un uccelletto caduto dal nido, correre avanti ed indietro, raccontare, chiedere, agitarsi con una pena sincera? Ebbene, quelli sono i bambini che, nel prossimo periodo di degenerazione, potranno giungere fino a dar la caccia ai nidi.

 

Il sentimento della natura cresce con l’esercizio come ogni altra cosa; e non è certo trasfuso da noi con qualche descrizione od esortazione fatta pedantescamente dinanzi ad un bimbo inerte e annoiato chiuso tra mura e abituato a vedere o sentire che la crudeltà verso gli animali è una necessità della vita. Sono le esperienze che lo colpiscono: la morte del primo colombo ucciso volontariamente da [una] persona della sua famiglia è il punto nero nel cuore di quasi tutti i fanciulli. Noi dobbiamo ai bambini una riparazione più che una lezione. Dobbiamo guarire le ferite inconsce, le malattie spirituali, che già si trovano in questi piccoli graziosi figli dei prigionieri dell’ambiente artefatto.

 

(M. Montessori)