giuliano

martedì 27 settembre 2022

LA TEMPESTA DEL FIUME (30)

 










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Torino, 30 agosto 1890. 

 

Egregio signor Cainer,

 

Compio il triste dovere di darle i dettagli della disgraziata escursione al Cervino, dove mi morì sotto gli occhi Gio. Antonio Carrel.

 

Il giorno 21 agosto, essendo a Courmayeur, impegnai G. A. Carrel, appena reduce da una felice ascensione al Monte Bianco per la via del Rocher; con lui, Carlo Gorret (pure di Valtournanche), che conoscevo per prova eccellente guida. Nostra intenzione era traversare il Cervino che Carrel, desiderosissimo dell’escursione, mi assicurò dover essere in ottime condizioni.

 

Il 22 sera eravamo al Breuil, con tempo caldo e splendido. Il 23, alle 2,15 ant., sempre con tempo incantevole, partiamo pel Cervino coll’idea di scendere la stessa sera pel versante svizzero alla capanna dell’Hòrnli. Ma si camminò un po’ comodamente, sulle rocce presso al Col du Lion il verglas ritardò alquanto la nostra marcia, e quando si giunse alla Capanna della Gran Torre (3890 m.), verso le 10, la prudenza consigliava di rimetter la salita al giorno dopo, tanto più che il cielo veniva alquanto rannuvolandosi.

 

Così fu deciso, e si rimase.

 

Debbo qui ricordare di aver osservato non senza inquietudine (e con me Gorret) che Carrel a partire dal Col du Lion si mostrò stanco, e saliva le corde con molto stento. Attribuii questo a una passeggera debolezza, e non se ne parlò. Appena giunto alla Capanna, si sdraiò, e dormì due ore profondamente, svegliandosi ristorato e ben disposto. Intanto il tempo veniva guastandosi rapidamente, e nuvole procellose partite dal Monte Bianco già lambivano la vicina Dent d’Hérens. Ritenendo questo un temporale, fiduciosi nel vento del nord che soffiava sempre con insistenza, non ce ne inquietammo.




Intanto, verso le 3, i Maquignaz (Daniele e Antonio di Pietro e Antonio di Giuseppe) e Edoardo Bich, che avevamo trovato alla Capanna, reduci dall’aver collocato le corde, ripartivano pel Breuil. Li salutammo, e ci augurarono buona salita facendoci sperare in un’ottima giornata pel domani. Ma il tempo, partiti loro, peggiorò con grande rapidità; il vento cangiò e verso sera scoppiò una bufera violentissima di grandine e neve accompagnata da frequenti scrosci di fulmine; ricordo che l’aria era così satura di elettricità, che per due ore di seguito, nella notte, fu stranamente luminosa e ci si vedeva nella capanna come in pieno giorno.

 

La bufera continuò tutta la notte, il giorno e la notte seguente, sempre con incredibile violenza e pertinacia; nella capanna la temperatura scese a - 3°. La situazione diveniva inquietante, le provviste cominciavano a scemare, avevamo già intaccati i banchi della capanna per legna da ardere. Il continuo imperversare dell’uragano ci aveva messo in uno stato di tensione difficilmente sostenibile. Aveva poi continuamente nevicato e grandinato, le rocce erano già in pessimo stato, e temevamo, sostando più a lungo e continuando la bufera, di vederci sequestrati per qualche giorno alla capanna.




Così stando le cose, fu deciso tra le guide che, se appena il vento si fosse calmato, la mattina appresso si sarebbe discesi. Difatti, la mattina del 25, calmatosi un po’ il vento, ma con tempo sempre pessimo, si stabilì di comune accordo la discesa. Alle 9 a.m. lasciammo la capanna. Non dirò delle difficoltà e pericoli incontrati nello scendere la cresta sino al Col du Lyon, ove giungemmo alle 2,30 pomeriggio; le corde erano mezzo gelate, le rocce coperte di verglas e di neve fresca che aveva mascherato tutti gli appigli; alcuni tratti furono addirittura pessimi, e devo molto alla prudenza e al sangue freddo delle due guide se li superammo senza disgrazie.

 

Al Col du Lyon, quando speravamo un po’ di tregua dal vento e dalla neve, cominciò invece a soffiare la tormenta, in modo che nella traversata, che riuscì orribile, delle rocce e couloirs nevosi sotto la cresta del Lyon, eravamo quasi soffocati dal vento e dal nevischio che c’investivano da tutte le parti. Gorret mezz’ora prima sotto la capanna aveva già avuto una mano gelata, causa la perdita di un guanto; qui il freddo era spaventevole; tutti i momenti dovevamo toglierci il ghiaccio dagli occhi, stentavamo a parlare e ad intenderci.




Pure Carrel continuava a guidare questa discesa in modo ammirabile, con un sangue freddo, un’energia inesauribile, un’abilità superiore. Ero trasognato vedendolo cambiato così. Gorret lo secondava splendidamente e a nessuno di noi sfuggì una parola di scoraggiamento che sarebbe riuscita pericolosa. Tutta questa parte della discesa ci offrì inattese difficoltà, e fu in diversi punti pericolosissima, tanto più che la fitta tormenta impedì a Carrel di ben orizzontarsi nonostante la sua grande conoscenza del Cervino.

 

Verso le 11 di sera (calcolo almeno così, avevamo gli abiti mezzo gelati, mezzo gelati eravamo noi, né d’altra parte ci ricordammo mai di guardare l’orologio), eravamo ancora impegnati nelle ultime rocce; varie volte avevamo perso la buona direzione, col tempo sempre pessimo, e le guide si domandavano di tratto in tratto dove si andava; allora si camminava avanti, perché fermarsi non era possibile.




Carrel, per mirabile intuito, infilò finalmente il couloir buono, già seguìto nella salita e che doveva metterci in salvo al gran nevaio sopra i pascoli di Riondè. Lì, sotto una grotta, sostammo due minuti a bere il cognac. Nella traversata del nevaio, vedemmo Carrel rallentare la marcia, poi scivolare e cadere due o tre volte a terra. Gorret gli chiese che avesse; Carrel rispose: ‘rien’ e continuò, con stento. Attribuendo questo alla stanchezza per l’eccessivo lavoro, Gorret si pose a capo della carovana: molto si affondava nel la neve, e Carrel, dopo il cambio, parve star meglio e camminò speditamente, sebbene con insolita circospezione.

 

Dal nevaio sopraddetto un breve e ripido couloir erboso mette ai pascoli di Riondè, che dovevano essere la nostra àncora di salvezza. Gorret scese primo, io dopo lui. Gorret era quasi alla fine del passo (avevamo la corda lunga) quando sento tirare la corda dietro a me. Ci fermiamo e, mal collocati come eravamo, gridiamo a Carrel più volte di scendere. Nessuna risposta. Inquieti risaliamo un poco e lo sentiamo dire con voce debole:  ‘Montez me prendre, je n'ai plus de forces’.




Lo raggiungiamo immediatamente: era bocconi, aggrappato ad una roccia, mezzo intorpidito, incapace di alzarsi e fare un passo. Con grandissimo stento lo trasportiamo alcuni passi più sopra, in luogo sicuro, gli chiediamo cos’ha. Non rispondeva altro che ‘je ne sais plus où je suis’: le mani diventavano sempre più fredde, la parola più rotta e debole, il corpo inerte. Tutto ciò che potemmo per lui, fu fatto: gli introducemmo in bocca, a stento, l’avanzo del vino bianco e del cognac: gridò allora, parve rianimarsi, ma fu cosa passeggera: mettemmo in opera le frizioni di neve, le scosse energiche, le percosse : continuamente lo chiamavamo, e non rispondeva che con gemiti. Cercammo sollevarlo: impossibile, irrigidiva. Ci chinammo al suo orecchio, e gli chiedemmo se volesse raccomandarsi al Signore. Rispose di sì, con un ultimo sforzo; poi prese a rantolare e cadde rovescio sulla neve, morto.

 

Cosa passammo in quell’ora e in quel momento nelle nostre condizioni, è impossibile descrivere.




Eravamo assiderati, Gorret mi diceva: ‘Je commence à geler’ io mi sentiva minacciato dal sonno: conveniva non perdere un minuto. Col cuore serrato, tagliammo la corda che ci legava al povero, caro e valoroso compagno, e con un’emozione indicibile continuammo la discesa. Abbrevio: alle 5 di mattina, avendo sempre camminato con pertinacia, consci che qui solo era la nostra salvezza, arrivammo al Giomein, ove tutti erano inquietissimi per noi: una spedizione di soccorso doveva salire alla Capanna lo stesso giorno.

 

Avevamo camminato venti ore (in condizioni ordinarie la discesa dalla Capanna della Torre al Giomein si può fare in 4 o 5 ore), senza aver mai potuto mangiare e quasi senza sosta. L’impressione fu profonda e angosciosa. Niuno attendeva così tragica fine da un’escursione iniziata sotto un cielo splendido e colla più grande allegria.

 

Sei guide, di cui due svizzere, con nobilissimo pensiero offerte da due signori inglesi di cui mi spiace non ricordare il nome (ringrazio questi gentili con tutto il cuore) partirono immediatamente alla ricerca del cadavere.




Obbligato a continuare per poter giungere a Courmayeur, ove mia madre mi attendeva la stessa sera, ebbi tempo ancora di vedere col cannocchiale le guide a discendere colla salma. A mezzanotte ero di ritorno a Courmayeur.

 

Tale la relazione più completa che nel fantastico tumulto dei ricordi mi fu possibile, di questa disgrazia così intensamente triste in sé e per le circostanze che l’accompagnarono. Con Gio. Antonio Carrel l’alpinismo perde una delle sue più gloriose illustrazioni, uno dei nomi più cari e più stimati. Carrel è morto da santo e valoroso sulla sua montagna, dopo aver radunato tutta la energia di cui era capace, per salvare il suo viaggiatore; è morto dopo averlo messo al sicuro dai pericoli, esaurito dal supremo sforzo fatto in sedici ore di assiduo lavoro, fra continue lotte e difficoltà, sotto una tormenta che in molti punti pareva di quelle a cui non si resiste.

 

Non mi ricorderò mai di lui senza una commozione e una riconoscenza infinita. E a suo fianco voglio ricordare Carlo Gorret, uomo di cuore, di dovere e di coraggio come ve ne hanno pochi. Egli tenne il suo posto, difficilissimo, con un’intrepidezza e un’abnegazione che non esito a dire meravigliose: e per chi era anche a lui affidato ebbe le cure che un padre potrebbe avere per salvare il figlio.




Io lo ringrazio con tutto il cuore di quanto ha fatto per me. Non voglio chiudere senza ricordare ancora gli egregi colleghi Sciorelli e Melano che trovai all’Albergo del Giomein e che furono pieni delle più delicate attenzioni per la mia guida e per me; e così, a Châtillon, il collega Gervasone e il nostro ottimo presidente cav. Martelli, l’affettuosa accoglienza dei quali ci riuscì di qualche conforto.

 

Ne avevamo grande bisogno.

 

Mi creda, egregio sig. Gainer, colla maggior stima e considerazione di lei devano

 

Leone Sinigaglia (Sezione di Torino).

 

A rendere completa la narrazione del signor Sinigaglia, aggiungiamo che egli partì dal Giomein alle 10 1/2 a.m.  del 26, lasciando al proprietario signor Peraldo le opportune disposizioni per il funerale. A mezzogiorno ritornava la spedizione che era partita alle 5 a.m. per andare a rilevare la salma di Carrel. Era composta di otto persone: le guide Pession Alessandro, Pession Elia e Maquignaz Vittorio di Valtournanche, tre pastori del luogo e le guide svizzere Adolf Schaller e Pollinger concesse dai signori Littledale e Schinz di Liverpool. Mossero incontro alla salma questi due signori, i nostri soci G. B. Melano (Sez. Varallo) e Sciorelli (Sez. Torino) e l’ing. Copello di Torino, che pure si trovava all’albergo, e insieme accompagnarono la salma alla vicina cappella del Breuil, dove fu deposta e rimase sino al 29, nel qual giorno venne trasportata a Valtournanche e sepolta in quel cimitero.

 

(C.A.I.)






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