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la cultura del branco (24)
Se […]
pensiamo [a quanto di più] i bimbi deboli, tubercolosi o rachitici, sono
esposti alla natura nei moderni sanatori, perché l’esperienza ha indicato come
unico mezzo a cui ricorrere per guarirli il farli dormire all’aria aperta e [il
farli] vivere al sole, deve rimaner chiaro che tanto più i fanciulli normali e
forti potrebbero non solo resistere, ma anche rinvigorirsi esponendosi più
largamente di quello che non facciano agli elementi naturali.
Tuttavia ci
sono ancora troppi pregiudizi su tale argomento, perché tutti ci siamo fatti
volontariamente prigionieri e abbiamo finito con l’amare la nostra prigione e
trasmetterla ai nostri figlioli.
La natura
si è a poco a poco ristretta, nella nostra concezione, ai fiorellini che
vegetano e agli animali domestici utili per il nostro nutrimento, per i nostri
lavori o per la nostra difesa. Con ciò anche l’anima nostra si è rattrappita:
si è adattata a contenere dei contrasti e delle contraddizioni, a confondere
perfino il piacere di vedere animali con l’esser vicini alle povere bestie
destinate a morire per nutrirci o a contemplare il canto e la bellezza di
uccelli prigionieri in piccole gabbie con una specie di nebuloso “amore per la
natura”!
Non c’è anche il pregiudizio che trasportando un po’ di sabbia del mare in un recipiente a forma di tavolino si “dia un immenso aiuto” al fanciullo? Molte volte, anzi, si pensa che la riva del mare sia educativa perché vi si trova la sabbia come nel recipiente. Così, nella confusione di una secolare prigionia, si giunge alle più assurde concezioni.
La natura,
in verità, fa paura alla maggior parte [delle persone che] temono l’aria e il
sole come nemici mortali. Si teme la brina notturna come un serpente nascosto
tra la vegetazione. Si teme la pioggia quasi quanto l’incendio. Se oggi le
esortazioni dell’igiene spingono un po’ l’uomo civile, questo carcerato
soddisfatto, verso la libera natura, egli lo fa timidamente, con la più oculata
precauzione. Dormire all’aperto, esporsi ai venti e alle piogge, sfidare il
sole, tuffarsi nell’acqua [sono cose] di cui si può giungere a parlare, ma non
sempre a metter[le] in pratica.
Chi non corre a chiudere una porta per timore di una corrente d’aria? E chi non chiude le finestre prima di addormentarsi, specialmente se è inverno e se piove? Quasi nessuno dubita che fare lunghissime passeggiate in aperta campagna anche sotto il sole o la pioggia, ricorrendo ai ripari che s’incontrano naturalmente, sia uno sforzo eroico, un rischio.
Bisogna
esserci abituati, dicono: e non si muovono.
Come
abituarsi, allora?
Forse i piccoli
bambini si dovranno abituare?
Ma no: essi
anzi sono i più protetti. Perfino gli inglesi, pionieri dello sport, escludono
i piccolini dalle prove della natura e della fatica: è proprio là che la buona
nurse li trascina, già grandi e cresciuti, in carrozzelle all’ombra quando fa
buon tempo, e non li lascia né camminare lungamente né agire spontaneamente.
No, lo sport, [proprio] dove è nato, è nato come una vera battaglia dei
giovanotti più robusti e più coraggiosi: quelli stessi che si chiamano sotto le
armi a combattere il nemico.
Sarebbe prematuro dire: sguinzagliate i bambini. Assecondateli: essi corrono fuori quando piove, si levano le scarpe quando trovano pozze d’acqua, e, quando l’erba dei prati è umida di brina, corrono con i loro piedini nudi per calpestarla; riposano pacificamente quando l’albero li invita ad addormentarsi alla sua ombra; gridano e ridono quando il sole li sveglia al mattino, [così] come sveglia ogni creatura vivente che divide la sua giornata tra la veglia ed il sonno. Ma noi invece ci domandiamo ansiosi come far dormire il bambino dopo l’aurora e come insegnargli a non levarsi le scarpe e a non fuggire sui prati. Quando [imprigionato] da noi, degenerato ed irritato dalla prigionia, egli uccide insetti o piccoli ed innocui animaletti, ci sembra “naturale”; e non ci accorgiamo che quell’anima è diventata già estranea alla natura. Ciò che chiediamo ai nostri bambini è che si adattino alla prigione senza darci fastidio.
Le energie
muscolari dei bambini piccolissimi sono superiori a quanto supponiamo: ma per
rivelarcele occorre la libera natura.
Il bimbo in città, dopo una piccola passeggiata, si dichiara stanco; e per questo noi crediamo che non abbia forza. Ma il suo languore viene [dall’artificialità] dell’ambiente, [dalla] noia, [dal] vestiario inadatto, [dal] tormento che il piccolo piede morbido soffre, chiuso nelle scarpe di cuoio che battono sul macigno nudo delle vie di città e dall’esempio accasciante delle persone che camminano tutte intorno silenziose, indifferenti e senza sorriso. Le attrattive di un abbigliamento di moda che può essere ammirato [o] di un club da raggiungere sono cose che non esistono per lui. Egli è al guinzaglio. L’accidia lo avvolge e vorrebbe essere trascinato.
Ma se i
bambini sono a contatto con la natura, allora viene la rivelazione della loro
forza. Anche al di sotto di due anni di età, i bambini normali, se di forte
costituzione e ben nutriti, fanno chilometri di cammino. Ripide e lunghe salite
al sole sono superate da quelle gambette instancabili. Mi ricordo che un
bambino di circa sei anni sparì per delle ore: aveva sempre camminato su di una
collina, pensando che, potendo arrivare in cima, avrebbe visto il mondo che sta
dall’altra parte.
Ma non era
stanco: era disilluso di non aver trovato quello che cercava.
Conobbi una volta una giovane coppia che aveva un bambino di appena due anni; babbo e mamma, volendo andare ad una spiaggia molto lontana, avevano pensato di portare il piccolo in braccio un po’ per uno: ma la fatica era stata eccessiva. Avvenne che il piccolo fece con entusiasmo tutta la strada da sé e ripeté la passeggiata ogni giorno. Invece di portarlo in braccio, i genitori facevano il sacrificio di camminare più adagio e di fermarsi quando il bambino si fermava per raccogliere qualche piccolo fiore oppure quando, scoprendo la bellezza di un asinello che mangiava l’erba di un prato, si sedeva serio e meditativo a far compagnia un istante a quell’essere umile e privilegiato. Invece di portare il loro bambino, quei genitori avevano risolto il problema seguendo il loro bambino.
Solo i
poeti sentono il fascino di un fine rivoletto di acqua sorgiva tra i macigni,
così come lo sente il piccolo bambino, che si entusiasma e ride, e vuol
fermarsi a toccarlo con la mano come per accarezzarlo. Nessuno che io sappia,
[tranne] san Francesco, ha ammirato l’insetto modesto o il profumo di
un’erbicciuola senza attrattive, come [fa] uno di questi piccolini.
Conducete, vi prego, fra le vostre braccia, un infante che non ha ancora cominciato a camminare; tenetelo, per una via di campagna da cui si scorga un orizzonte magnifico e grandioso; tenetelo, dico, in modo da rivolgere la schiena al panorama. Lo vedrete fare sforzi per rivoltarsi e guardare lo spettacolo. Arrestatevi con lui! Egli gode di quella bellezza quando ancora non sa reggersi in piedi e la sua lingua non sa chiedere di fermarsi. Sì, lo possiamo dire parafrasando [un detto evangelico]: egli non vive di solo latte.
E avete mai
visti [dei fanciulli] seri, affaccendati attorno al cadavere di un uccelletto
caduto dal nido, correre avanti ed indietro, raccontare, chiedere, agitarsi con
una pena sincera? Ebbene, quelli sono i bambini che, nel prossimo periodo di
degenerazione, potranno giungere fino a dar la caccia ai nidi.
Il
sentimento della natura cresce con l’esercizio come ogni altra cosa; e non è
certo trasfuso da noi con qualche descrizione od esortazione fatta
pedantescamente dinanzi ad un bimbo inerte e annoiato chiuso tra mura e
abituato a vedere o sentire che la crudeltà verso gli animali è una necessità
della vita. Sono le esperienze che lo colpiscono: la morte del primo colombo
ucciso volontariamente da [una] persona della sua famiglia è il punto nero nel
cuore di quasi tutti i fanciulli. Noi dobbiamo ai bambini una riparazione più
che una lezione. Dobbiamo guarire le ferite inconsce, le malattie spirituali,
che già si trovano in questi piccoli graziosi figli dei prigionieri
dell’ambiente artefatto.
(M. Montessori)
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