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Nella figura dello Sciocco si propone un curioso e irripetibile incrocio di adulto e di bambino - un corpo di uomo con l’anima di fanciullo. A questo personaggio e riservato il compito di scoprire il gioco delle ipocrisie altrui, di dare voce alla verità rappresentando l’ingenuità e il candore infantili, il sapere ultimo delle cose del mondo rivelato ai piccoli e agli indifesi. Pura figura di un intatto mondo sacrale, conosce solo il casto amore dell’anima. Nel palcoscenico della vita quotidiana solo il povero idiota non recita una parte prestabilita, e con la sua ingenua semplicità resta sempre e solo se stesso.
Egli
il solo a sapere che nel mondo si muovono ombre e non persone, che dietro le
maschere ci sono visi che vogliono nascondere, con gli inganni delle apparenze,
i desideri e le passioni di anime inquiete. II Sempliciotto e ingenuo e
schietto, dolce e mansueto, capa ce di leggere in fondo all’anima e di parlare
a cuore aperto: con il suo sorriso riesce a infondere serenità e fiducia alle
persone più' diffidenti mettendole subito a loro agio. Egli sa cogliere armonia
e unione il dove gli altri non vedono che disaccordo e assurdità.
L’insegnamento fondamentale di questa sapienza e racchiuso nell’idea che non si può vivere pienamente se non per gli altri. Agli uomini che non sono in pace con se stessi un’intelligenza di questo tipo appare come un difetto, una malriuscita furberia o, addirittura, una follia e un’idiozia. Nel momento in cui qualcuno realizza da solo di essere un povero stolto superbo smette di essere tale ed acquisisce la vera sapienza, ‘la saggezza degli idioti’. II mondo intero dunque popolato da stupidi, e l’unica persona davvero autentica e il povero idiota che con la sua modestia sfida l’ironia e la derisione altrui.
Umile
e mansueto come l’asino della tradizione biblica, lo stolto cum ratione del folklore russo possiede
una ‘saggia stupidità’ che trionfa sempre nel momento in cui attacca la ‘saggezza
stupida’ di chi si crede sapiente. Nella sua idiozia compare l’annuncio della verità
alla quale tutti gli ipocriti hanno rinunciato perdendo cosi la loro vera
identità. Egli vorrebbe suscitare sentimenti autentici che elevino lo spirito
del suoi amici, ma non si rende conto di essere il bersaglio del loro brutale
sarcasmo, non capisce come mai parlino di lui a bassa voce in sua presenza
guardandolo in modo strano. Ecco perché si sente sempre sotto giudizio, si
blocca per la paura di sbagliare, un escluso condannato a vivere con sofferenza
la sua innocente diversità.
La sua sublime idiozia l’incapacità di giudicare e di condannare gli permette comunque di essere felice e di credere nell’intima capacita dell’uomo di amare unendo e accettando senza distinzione il buono e il cattivo. Egli il solo personaggio che si presenta sempre a viso aperto: non ha mai indossato maschere. non sa recitare, ignora le regole del teatro universale e per questo a volte offende con la sua spontaneità il regno della forma e delle convenzioni. E l’unico personaggio a comparire ‘nudo’, incapace com’è di comportarsi secondo le regole imposte dalle convenzioni. Non si sa muovere nel regno della formalità dove i suoi amici invece si destreggiano egregiamente non si sforza di nascondere i segni dell’insania che traspaiono visibilmente dai lineamenti del suo volto. Non conosce il disprezzo, l’ironia, la risposta tagliente. Quello che incanta in lui e la naturalezza: una semplicità e una bonarietà piene di candida grazia, una bontà che non conosce le intenzioni, i programmi e i propositi ma nasce spontaneamente dalle profondità del cuore.
Il
cuore dello Scemo del villaggio aperto all’amore: egli suscita con il suo
innocente comportamento il riso degli altri, ne è ferito, ma sa perdonarlo. II
suo animo non conosce rancore: calunniato e dileggiato da alcuni giovani
prepotenti e superbi, non cerca di sanare l’offesa con la vendetta, ma cosi
facendo si rende ridicolo ai loro occhi e passa per idiota. La sua cieca fiducia
non sembra capace di avvertire Io scherzo e l’ironia. La sua ingenuità lo porta
addirittura a considerare lo sberleffo altrui come un segno di benevolenza nei
suoi confronti, che bisogna imparare ad accettare e amare.
Ivan lo Sciocco del folklore russo non lontano dalla follia: le fiabe raccontano che egli vive costantemente ai limiti dell’equilibrio umano, assalito dall’eccesso dei pensieri, in balia degli impulsi e delle sensazioni, immerso in un mondo di improbabili sogni, aggredito dal reale e dall’irreale, dall’impossibile e dall’impensabile. Egli e il capro espiatorio della comunità rurale, lo zimbello dei bambini, il più mite abitante del villaggio turlupinato dai compaesani più furbi che passa le giornate all’aria aperta girando per la campagna con gli abiti strappati a brandelli, il misero pastrano ridotto a brandelli e la camicia stracciata che ripara appena il suo scarno corpo irrigidito dal gelo e bagnato dalla neve disciolta.
Analogamente
il folle in Cristo (jurodivyj) delle agiografie, mite agnello del Signore,
subisce i torti senza ribellarsi e accoglie su di sé tutti i peccati dell’umanità.
Il santo stolto era considerato come uno straniero nella sua stessa patria.
Egli e profeta di un Cristianesimo fatto di amore concreto, di attività
incessante, di fiducia che non si arrende, di una silenziosa umiltà che non
dispera mai. I piccoli, raccontano le agiografie, erano incuriositi dal folle
sacro, lo guardavano attenti e silenziosi senza negargli all’occasione la loro
derisione e il loro scherno. Gli jurodivye della Santa Russia amavano molto i
fanciulli e li rispettavano profondamente anche se erano spesso vittime dei
loro terribili scherzi.
Scontrosi con gli adulti superbi e menzogneri, essi dimostravano una particolare benevolenza solo verso i bambini e gli ingenui, umili vittime di torti ed ingiustizie coloro che nella vita erano ingiustamente schiacciati dai forti. Creature predilette dal Padre celeste, avevano ricevuto una sorta di dono profetico innato. Depositari dei segreti, delle debolezze e delle umane miserie, incarnavano agli occhi del mondo la saggezza dello spirito al riparo dal male. Non era dato a tutti il dono di saper essere semplici: solo i piccoli e gli innocenti lo erano per volontà divina. Esempio di dolcezza e di purezza per i cristiani peccatori, i ragazzi vedevano tutto con occhi limpidi e sinceri ma sapevano anche essere terribili nel giudicare lasciandosi a volte ingannare dalle apparenze.
Nel 1578 nacque nel
villaggio di Korjakin, a sei verste da Chlynov (governatorato di Vjatka) il
beato Prokopij (Prokopij Vjatskij), unico figlio di una devota coppia di
contadini sposati da molti anni. Quando il ragazzo compì i dodici anni, il
padre lo portò a lavorare nei campi. Un giorno scoppiò un violento temporale e
il cavallo sul quale stava viaggiando il giovane si imbizzarrì e lo disarcionandolo
violentemente. I genitori disperati lo portarono al monastero della Dormizione
di Vjatka e lo affidarono alle preghiere del santo archimandrita Trifon. II
fanciullo riacquistò la salute e dopo qualche tempo lasciò la casa paterna e si
trasferì in una città vicina, ove lavorò per tre anni come inserviente del
sacerdote Ilarion, presso la Chiesa di Santa Caterina Martire. Nel villaggio
nativo nessuno seppe più nulla di lui, e cosi i due anziani braccianti
pensarono che il loro unico figlio si fosse sposato. Prokopij invece iniziò a
comportarsi come uno jurodivyj: andava in giro nudo, alternava le profezie a
lunghi silenzi, suonava le campane di notte. I fanciulli di campagna lo deridevano
per il suo ridicolo aspetto fisico e il disordine della sua persona, ma egli
non riusciva mai a passare con indifferenza accanto a loro. Al suo passaggio i
monelli si scambiavano un’occhiata di intesa, sulle loro labbra aleggiava un
ghigno beffardo e, in men che non si dica, volavano sul povero folle una
pioggia di pietre.
Il miserabile sopportò tutte queste umiliazioni con beata rassegnazione fino alla morte, avvenuta il 21 dicembre 1627. Venne sepolto nel Monastero della Dormizione accanto a Trifon, il santo monaco che lo aveva guarito da bambino.
In
uno sperduto villaggio a 50 verste da Tot’ma (governatorato di Vologda) nacque nel luglio 1638 Andrej lo stolto di Dio
(Andrej Totemski). Frequentò la scuola locale iniziando a meditare sin dalla pio
tenera età sulle Scritture. Era noto per le sue stranezze e le sue doti
profetiche. Alla morte dei genitori si ritirò nel vicino Monastero della
Resurrezione vivendo in completa umiltà e cibandosi di solo pane e acqua. Lasciò
il convento in seguito alla morte del caro egumeno Stefan, che non aveva mai
permesso ai confratelli di maltrattarlo e di insultarlo a causa del suo
bizzarro comporta mento. Vagabondò a lungo nelle foreste presso il fiume
Suchona e si stabili a Tot’ma, ove nessuno lo conosceva. Lungo gli argini
andavano spesso a giocare dei bambini e ben presto lo jurodivyj divenne il loro
beniamino, il compagno di giochi preferito. Spesso egli sentiva le loro allegre
voci dalla sua capanna e correva a salutarli per trascorrere qualche ora in
allegria. Un giorno un ragazzo lo colpì con una verga di ferro. Il santo folle cadde
svenuto a terra ma rimase illeso e non disse nulla al suo aggressore. L’insolente
monello non ammise il suo errore né si scusò per l’incidente, ma venne punito
da Dio e poco dopo stramazzò al suolo privo di vita.
Nel XVI secolo visse nella città di Jur’evec sul Volga lo jurodivy Simon (Simon Jur’evckij). Figlio di semplici contadini, lavorò per parecchio tempo come domestico presso un prete. Era noto tra la gente per i suoi miracoli e per il dono di saper camminare sull’acqua, ma non aveva mai posseduto un paio di scarpe. Andava in giro con la sola camicia trascorrendo l’intera giornata a chiedere l’elemosina in città e vegliando la notte in preghiera. Come tutti i folli in Cristo amava molto i bambini, li proteggeva e li benediceva. Il suo affetto verso i più piccoli abitanti della città infastidì molto i genitori, che cercavano di evitarlo il più possibile durante le passeggiate pomeridiane con i piccoli o nei giorni di festa. Il santo stolto morì in giovane età a causa delle terribili bastonate inflitte per ordine del vojvoda, il governatore locale. Le raffigurazioni iconografiche di questo beato ancora fanciullo lo presentano come un giovinetto indifeso dallo sguardo mite.
(M. P. Pagani)
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