giuliano

sabato 31 ottobre 2015

ALTRI PRIGIONIERI E MORTI... (giù nella stiva della vita...)










































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Fernao Mendes Pinto...













Da magnanimo uomo, cresciuto libero in libera città, con siffatte alte parole Pericle sollevava la sua anima; io invece, da questi uomini nato, - quali sono oggidì i mortali - con parole più umilmente umane mi consolo e tento di evadere, cercando di toglier via la troppa amaritudine del mio dolore e per ciascuno dei molesti e strani fantasmi dell’immaginazione, che dal presente stato delle cose insorgono e di continuo m’inseguono, provando a inventarmi un qualche rimedio, quale un incantesimo che possa alleviare un morso di fiera nel profondo del mio cuore.
Ecco la prima di quelle visioni moleste: subito sarò lasciato solo e privo degli schietti incontri in uso fra noi, e dei liberi conversari. Né vedo più alcuno cui mi possa aprire con uguale confidenza.
Ma forse mi è facile parlare con me stesso?
O forse qualcuno mi vorrà togliere anche il bene del pensiero e mi costringerà a volgere la mente e indirizzare l’ammirazione verso cose altre e diverse da quelle che sieno nel mio intendimento?
O non sarebbe questo davvero un bel portento, come lo scrivere sull’acqua o il cuocere una pietra o l’inseguir le tracce d’uccelli in volo?




Poiché mai nessuno ci potrà privare del nostro pensiero, non v’è dubbio che ciascuno di noi potrà in qualche modo intrattenersi con se stesso.
Forse anche il dio ci darà qualche buon suggerimento: non è verisimile che dall’essere superiore venga trascurato del tutto e abbandonato in totale solitudine  chi a lui s’affidi; al contrario, su di lui il dio gli da coraggio, infonde in lui forza d’animo e indica alla sua mente quali cose egli debba fare e da quelle altre lo dissuade, dalle quali si debba astenere.
Appunto una voce divina accompagnava Socrate e lo tratteneva da ciò ch'egli fosse in dovere di non fare. E Omero dice di Achille: ‘lo ispirò la Dèa’, come  per insegnare che dagli Dèi sono risvegliati in noi i Pensieri, quando l’anima, ripiegando in sé, dapprima con se stessa indugia, poi, nel segreto della propria interiorità, incontra il Dio, da sola a solo, non impedita da nessuno.
…Non ha bisogno dell’udito l’anima per intendere né il Dio della voce per insegnarci il nostro dovere: del tutto al di fuori dell’umana sensibilità, dall’iniziativa dell’essere superiore discende la sua partecipazione alla nostra mente; per qual via e come, non si dà l’occasione di esaminare, ma così avviene e di tale evento abbiamo chiare testimonianze, non di gente inattendibile e da mettere da parte, insieme con i Megaresi, bensì di persone che primeggiano per la loro sapienza. Poiché dunque è da far conto in ogni caso sull’assistenza del dio e sulle risorse della nostra vita interiore, si deve toglier dal nostro dolore la soverchia amarezza.
Di Odisseo, in compassionevole solitudine si impari.
Di Odisseo in prigionia sull’isola per sette anni, rendo lode ai  meriti della perseveranza.
Lui e solo lui ci ha insegnato il non arrendersi, il non tirarsi indietro di fronte alla fortuna, e alla sfortuna, al male degli uomini, alle loro meschine condizioni terrene. Bensì mostrare il proprio valore sino all’estremo della terribilità dell’intelligenza, questo è il comportamento di chi sappia trascendere l’umana e bassa condizione terrena.
Né sarebbe giusto celebrare gli eroi d’una volta, senza imitarli, né credere che il dio, sollecito a soccorrerli, non si dia pensiero degli uomini d’oggi, quando li veda alla ricerca di quella stessa virtù, per la quale appunto di quelli si compiaceva.
(Giuliano Imperatore, IV, (VIII) Consolatoria a se stesso, VI)



  
 Vorrei sollevare la questione se la differenza tra lo Sciamano e il Santo non possa riferirsi al rapporto con l’anima, vale a dire che il potere dello Sciamano viene dall’accettazione del principio dell’anima quale spirito del suo métier, mentre il Santo esclude rigidamente l’anima, sebbene entrambi siano di fatto determinati da essa. E non è forse lo sforzo di escludere il rapporto con l’anima che costringe il Santo nel suo atteggiamento di isolato assolutismo, laddove lo Sciamano, il cui métier affonda le radici nel rapporto con l’anima, è essenzialmente un personaggio sociale e relazionale?
Queste parole pongono l’intera questione nella giusta luce.
Il Santo è un prodotto della differenziazione sociale e civilizzata, mentre lo stregone è un prodotto della natura.
Il dottor Baynes lo attribuisce all’anima, ma l’anima è natura, e lo stregone primitivo avviluppato dall’inconscio ne è parte, l’inconscio funziona per suo tramite.
Mentre il Santo si innalza al di sopra dell’inconscio, respinge l’inconscio.    
Questo è il modo in cui è possibile esprimere questo concetto, ma naturalmente si può andare oltre e affermare che il Santo risponde pienamente all’inconscio.
E’ paradossale, ma questa è la natura dell’inconscio.
Da un lato l’inconscio non è altro che natura, e dall’altro è il superamento della natura; è un ‘sì’ e un ‘no’ in sé, è due cose in una. E’ per questo motivo che non capiremo mai che cosa sia davvero l’inconscio, così come non capiremo mai che cosa sia il mondo, perché ‘è’ e ‘non è’.



L’essere giunti a una tale antinomia denota che abbiamo raggiunto il limite estremo delle nostre facoltà di ragionamento. Stiamo battendo la testa contro un muro, ma il muro non cederà, per quanto forte ci possiamo provare. Questa è l’antinomia della ragion pura: si arriva al punto in cui si deve dire: ‘è’ e ‘non è’.
Perciò il Santo è una produzione dell’inconscio pur essendone il superamento. E’ possibile vederlo molto chiaramente nella psicologia del santo buddhista; ogni sua parola e ogni sua azione sono un superamento dell’inconscio, un superamento dell’illusione. 
L’inconscio è illusione ed egli è in uno stato che va oltre l’illusione.
Anche il Santo cristiano sottomette l’inconscio e lo supera; ai suoi occhi l’inconscio è il diavolo ed egli vince il diavolo.
Mentre lo stregone primitivo è, essenzialmente, il potere dell’illusione, egli stesso è nel contempo oggetto del potere dell’immaginazione e dell’illusione ed è creato per addentrarvisi. Pertanto la maggior parte degli Sciamani primitivi sono una sorta di medium; cadono in uno stato di trance e vi si compenetrano, il che significa, naturalmente, la totale sconfitta dell’individualità umana in rapporto al potere dell’inconscio.
Ma è pur vero che anche il santo, inconsciamente, è pressoché costretto dall’inconscio. Quando sapete ciò che il santo veramente cerca e analizzate con attenzione il simbolismo nel quale egli crede, vedrete che si tratta ovviamente dell’inconscio che cerca di superare se stesso.
(C. G. Jung, Visioni)




Il ‘Bar do t’os sgrol’ è conosciuto dal pubblico europeo fin dal 1927, quando l’Evans Wents ne pubblicò la traduzione fatta dal suo maestro il Kazi Dava-samdup e da lui messa in buon inglese. Il libro destò grande interesse e seguirono nuove versioni in altre lingue. Tutti ormai lo conoscono col titolo che gli dette il suo primo divulgatore: il titolo letteralmente ben scelto; colpisce il lettore, e dà a prima vista un’indicazione generica sull’argomento del volume. 
Il trattato si svolge ai morituri o ai morti: non serve ai vivi, o serve soltanto perché, per ogni vivente, verrà il giorno della morte, quando le cose dette in questo breviario dovranno tornar chiare ed efficaci alla mente e confortare nel difficile momento. Ma è anche vero che questo titolo può condurre fuori strada, richiamando alla memoria il libro dei morti egiziano, il quale esprime tuttavia una concezione religiosa ed escatologica tutta diversa da quella tibetana. Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la continuazione della vita nell’oltretomba.
Per i Tibetani il cadavere si brucia o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli uccelli lo divorino. Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima creatura che già visse in questo mondo e così perdura con le stesse parvenze e lo stesso nome.




Per i Tibetani la morte è o il l’inizio di una nuova vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità - effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua - nella luce indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale. Continuare ad esistere in una qualunque forma di esistenza, anche come Dio, è dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, un non mai soddisfatto desiderio, una pena che mai si placa.
La pace è, nel dissolversi inconsapevole in quella luce incolore da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne siamo consapevoli, brilla in noi stessi. Per dirlo con altre parole, quando si muore, sono due le vie che a noi si aprano: o un definitivo spegnimento della creatura singola che è la sorte degli Eletti; oppure la rinascita, che attende chi non seppe comprendere che tutto è sogno. Per la qual cosa, questo trattato dovrebbe essere piuttosto conosciuto, anziché come il libro dei morti, col suo vero nome tibetano che significa libro della salvazione, o traducendo alla lettera:  perché la sua recitazione evoca il principio cosciente del morituro o del defunto la verità redentrice.
(Il Libro Tibetano dei Morti)




















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