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I due linguaggi [1/3]
Prosegue con:
La realtà dei fatti (l'articolo completo) (5)
& il Linguaggio politico (6/7)
& La grande Rivoluzione Industriale (8)
Come
si vede, il comune denominatore delle posizioni dei rappresentanti delle lobby
delle plastiche è che il problema dei ‘marine litter’, e in generale degli
scarti della plastica, non è riconducibile ai prodotti monouso, quindi non si
possono colpevolizzare i produttori. Gli unici veri responsabili sono i
consumatori che riciclano male i rifiuti e le amministrazioni pubbliche che non
sono in grado di gestire la filiera dello smaltimento degli stessi
correttamente. In più, mancano i dati scientifici che attestino il reale
impatto ambientale.
È un copione già visto in altre situazioni, quando osservazioni scientifiche o misure legislative si muovono per tutelare l’ambiente e i consumatori al fine di limitare o mitigare attività dannose delle grandi industrie. La storia della scienza ne ha registrate già tante. Noto è il caso della biologa Rachel Carson, che con il suo capolavoro Primavera silenziosa, pubblicato nel 1962, denunciò i danni dell’uso del diclorodifeniltricloroetano, noto come DDT, e altri pesticidi. Subì ingiurie, derisioni, minacce e falsità da parte degli industriali del tempo. Nel 1972 il DDT fu messo al bando. Stesso atteggiamento fu riservato ai ricercatori e agli scienziati che misero sotto accusa l’industria del tabacco. E da almeno quasi trent’anni la stessa sorte la subiscono i ricercatori che si occupano di cambiamenti climatici e che portano avanti le ricerche sulle cause di origine antropica. Oggi il mondo scientifico e le ricerche concordano quasi univocamente, circa il 97%, che il cambiamento climatico in atto sia dovuto a 200 anni d’impatto antropico causato dall’uso dei combustibili fossili.
I grandi colossi della plastica non sono certo un’eccezione rispetto a un meccanismo che l’industria di ogni settore adotta per resistere al cambiamento del proprio sistema produttivo: ossia insinuare il dubbio della correttezza scientifica dei dati e addossare la colpa della gestione a terzi.
Non
è difficile neanche comprenderne i motivi.
Il
settore della plastica si regge sull’alleanza con le grandi industrie
petrolifere e le due famiglie di multinazionali convergono con forti interessi
nel campo della lavorazione dei polimeri. Consideriamo che la maggior parte
delle industrie di materiali plastici è in comproprietà con le grandi industrie
petrolchimiche: la DowDuPont, l’ExxonMobil, la Shell, la Chevron, la Bp e, in
Italia, l’Eni. Il mercato della plastica globale per il 2020 è valutato circa
654,38 miliardi di dollari e nel 2050 la quota d’idrocarburi dedicata alla
plastica toccherà il 20%, contro il 6% del 2014.
Numeri
impressionanti.
Oggi questi produttori si sono insinuati in ogni settore dell’economia e intendono difendere i loro privilegi con tutti i mezzi, che si tratti di pressioni lobbistiche o aggressive campagne di comunicazione. Detto in parole povere, il lobbismo della plastica e quello petrolifero lavorano insieme, per il semplice motivo che maneggiano insieme lo stesso prodotto di partenza.
Poco
importa se i dati scientifici ci dicono che la maggior parte dei rifiuti
plastici presenti in mare siano originati dal monouso. Poco importa che l’OCSE
abbia stimato che i danni dell’impatto delle plastiche si aggiri sui 13
miliardi di dollari l’anno, oppure che il trattamento delle plastiche comporti
emissione di gas serra dalla nascita allo smaltimento, o ancora che la quota di
plastica riciclata in tutto il mondo sia bassa, circa il 15%, e il residuo
conferito in discarica, incenerito o abbandonato nell’ambiente, alto.
È difficile comprendere come si possa pretendere dal consumatore finale una maggior consapevolezza sul minor utilizzo della plastica se poi il mercato non offre valide alternative. Inoltre scaricare i costi gestionali per la raccolta, la separazione e la suddivisione solo ed esclusivamente sulle amministrazioni pubbliche è una vecchia tecnica usata già in altri ambiti industriali per non prendersi le responsabilità degli altissimi costi occulti della produzione della plastica. Recuperare ha un costo molto elevato, come pure rigenerare, suddividere e riciclare infinite materie plastiche. Di fatto a oggi il recupero ambientale si riversa su soggetti terzi, quasi sempre pubblici, e tutto ciò ha un costo che si paga con le tasse.
Tutti
costi esorbitanti celati all’acquisto di cui nessuno, soprattutto i produttori,
vuol farsi carico.
Per
questo la Responsabilità estesa del produttore è la strada maestra su cui si
deve lavorare. Se le materie di partenza non sono abbastanza uniformi da essere
rilavorate in maniera più semplice, il problema non è del consumatore.
La gestione della plastica deve essere scevra da idealizzazioni, soprattutto da parte degli interessi economici.
I
rappresentanti delle varie federazioni europee produttrici di plastica hanno
anche risposto alle critiche sostenendo che quasi l’80% dei rifiuti plastici
che finiscono in mare provengono dai paesi asiatici e solo circa l’1%
dall’Europa. I più grandi responsabili dello sversamento di plastica in mare
sono i dieci principali fiumi del mondo, di cui otto asiatici. Quanto agli
stati, uno studio pubblicato su Science nel febbraio 2015 mostra come siano
cinque i paesi responsabili della quota maggiore di plastica scaricata in mare,
e tutti dell’estremo Oriente: la Cina, con oltre 3,5 milioni di tonnellate
riversate ogni anno in mare, l’Indonesia con quasi 1,3 milioni, e a seguire
Filippine, Vietnam e Sri Lanka. Questi paesi sono responsabili di circa il 60%
di tutta la plastica oceanica. Seguono poi Thailandia, Egitto, Malesia, Nigeria
e Bangladesh.
La maggior parte di questi paesi non ha una gestione dei rifiuti adeguata, altri sono caratterizzati dalla presenza degli slum, sui quali si alzano montagne di rifiuti. Per molti di questi paesi la povertà è un fatto cronico e la plastica permette di accedere a mezzi di sostentamento economicamente più sostenibili. E, come già visto, alla produzione di plastica locale vanno aggiunti i rifiuti di plastica del mondo occidentale leciti e illeciti. Se è vero che i fiumi asiatici sono i maggiori vettori di plastica nei mari, come insistono i produttori, è altrettanto vero che tale affermazione trova una contradizione quando si vedono il letto del Po in secca coperto di rifiuti plastici e il Sarno convogliare una quantità enorme di plastica verso le acque costiere campane.
Abbiamo esportato un modello di consumo, socialmente ed economicamente accettato in Occidente, verso paesi che alla fine risultano impreparati e non in grado di gestire lo stesso sistema di produzione. I rifiuti ne sono una conseguenza. Il fatto che le multinazionali incolpino i paesi asiatici di essere gli inquinatori per ovvie mancanze strutturali pubbliche e politiche diventa una forma di discriminazione ambientale. Ma è anche un alibi per proseguire nell’attuale sistema di produzione e consumo. Il consumatore paga le tasse gestionali, l’ambiente paga le conseguenze e il produttore guadagna senza farsi carico di costi esternalizzati ma continua ad alimentare il desiderio di acquistare oggetti.
Siamo
noi consumatori il loro oggetto del desiderio e per restare tali è bene che
intorno a questo sistema globale che ruota intorno alla plastica permanga una
cortina di confusione e un pantano in cui ogni azione decisiva sia rallentata.
Del resto basti pensare che se dovessimo liberarci dall’obsolescenza programmata, per esempio degli elettrodomestici, ormai anch’essi alla stregua dell’usa e getta, il sistema irrazionale cadrebbe. E lo stesso vale per la plastica.
Per
questo la gestione del problema plastica deve essere scevra da idealizzazioni,
da tutte le parti, ma è pur vero che finché si tutelano solo i profitti non si
tutela la società. Nella plusvalenza deve essere contabilizzato il pianeta. Non
si possono più esternalizzare i danni e le responsabilità sia al privato
cittadino sia alla società presente e soprattutto a quella futura, perché a
lungo andare ne risentirà anche il mercato futuro.
(S. Greco)
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