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La sposa (Prima parte della Domenica)
“Sì. Tutto
a posto,” disse tra sé con un impercettibile movimento delle labbra. Si girò di
nuovo verso la folla. E gli spuntò un ghigno furbesco, da prestigiatore che si
esibisce nel trucco più riuscito.
Chiuse gli
occhi e urlò a pieni polmoni: “Mollate gli ormeggi!”.
Le mani
sudavano, il cuore accelerava.
“Mollate
gli ormeggi!” scandì nel pomeriggio inondato di sole.
Già più di
cinquanta volte nella sua lunga vita di aerostiere aveva dato quell’ordine, ma
pronunciare quelle parole in tono di comando lo faceva sempre trepidare.
“Mollate
gli ormeggi!”
E quando un nuovo lampo al magnesio esplose in una luce improvvisa sul bianco della seta, la Stella, infine, prese il volo.
“Corriere della Sera”, 10-11 ottobre 1893
Ci scrivono
da Torino, 9 ottobre. Vi ho telegrafato iersera della partenza in pallone
dell’aeronauta Charbonnet con la sposina Anna Demichelis.
L’aerostato,
dal nome Stella – che non si elevò mai oltre i 1800 metri –, passò sopra i
comuni di Nichelino e Vinovo quasi sfidando i tetti delle case colla navicella.
Quei contadini, entusiasmati, invitavano ad alta voce l’aeronauta a scendere
fra loro. Ma il pallone proseguì e in un lungo giro senza meta o direzione
fissa, che durò poco più d’un paio d’ore, passò sopra Moncalieri, Carignano,
Carmagnola e discese a Piobesi. A Carmagnola si rinnovarono le eccitazioni
perché gli sposi scendessero fra i buoni carmagnolesi... Giuseppe Charbonnet ha
una cinquantina d’anni, la coraggiosa sposina – una simpatica operaia, figlia
della domestica dell’aeronauta – non conta che 18 primavere. L’aerostato Stella
è capace di 1700 metri cubi di gas e può innalzare, oltre la zavorra, sei
persone.
“Fammi volare.”
“Ti faccio
volare.”
“Fammi
volare.”
“Sì, ti
faccio volare.”
UNA CATASTROFE AEREA
“Corriere della Sera”, 13-14 ottobre 1893
I
coniugi-aeronauti passarono la prima notte nuziale in un albergo di Piobesi, e
alla mattina di lunedì verso le dieci ripartirono col loro pallone,
accompagnati da Botto Giuseppe e da un garzone dello Charbonnet, certo Durando
Costantino. Da allora si seppe soltanto che nel mattino di lunedì l’aerostato
fu avvistato sopra Candiolo, all’altezza di circa duemila metri, dirigentesi
verso Pinerolo. Gli aeronauti però si portarono in seguito nelle Valli di
Lanzo, e si attribuiva all’ardito Charbonnet il proposito temerario di voler
varcare le Alpi in pallone e discendere in Francia.
L’uomo è
alto, sulla quarantina, con la barba nera e un ciuffo che gli spunta dal
berretto di lana calato sulla fronte.
“Lei è il
gestore?” domando.
“Dimmi!”
“Volevo
chiederle un caffè e del cioccolato.”
“Vieni.”
E mi fa
segno di seguirlo.
“Posso
farle qualche domanda?”
“Tieni, lì
c’è lo zucchero. Come dici?”
“Se posso
chiederti delle cose...”
“Dimmi.”
Il rifugista racconta nel suo spiccato accento piemontese. Si chiama Roberto Chiosso e da un paio di mesi è il nuovo gestore dello storico rifugio Gastaldi. La scorsa primavera, appena assunta la responsabilità della gestione datagli dalla sezione di Torino del Club Alpino Italiano, si è fatto depositare quassù da un elicottero insieme al materiale necessario per l’apertura stagionale: viveri, carburante, attrezzi per la manutenzione di fine inverno. Quel mattino di maggio la neve avvolgeva ogni cosa, erano anni che non se ne accumulava tanta. Con l’elicotterista hanno dovuto scavare una trincea per raggiungere la porta d’ingresso; e dopo qualche ora, dopo aver scaricato e sistemato tutto, l’elicottero ha acceso il motore ed è ripartito. Il nuovo rifugista l’ha visto sollevarsi in una nuvola di cristalli di neve e poi allontanarsi nel cielo terso, fino a sparire nel nulla.
Roberto Chiosso era rimasto solo. Intorno, dominava il silenzio. Nessuno in giro per chilometri e chilometri di montagne innevate. Poi, già la stessa sera, ha cominciato a nevicare. Una nevicata eccezionale, che non smetteva più: intere giornate chiuso nel rifugio sommerso sotto la coltre nevosa. Alla fine è ritornato il sereno. Ma la neve era scesa in quantità spaventosa. Non si riusciva più a muoversi, né a calare a valle per via del pericolo delle valanghe. Il rifugista ha inaugurato così la sua gestione: rimanendo isolato per quattro settimane, razionando il cibo per resistere fino all’assestamento della neve.
Ora è
estate, e tra qualche giorno arriverà sua figlia dodicenne a studiare. Un buon
posto dove ritirarsi con i libri.
“Questa
parte delle Alpi Graie è sempre meno frequentata.”
“Pochi
escursionisti, eh...” dico portandomi alle labbra la tazzina di caffè.
Poso la tazzina.
E annuisco contento.
Il museo
del rifugio è veramente poca cosa: qualche foto, un paio di cimeli, vecchie
piccozze, ramponi arrugginiti. Ma riesce lo stesso a far capire come un tempo
queste montagne fossero frequentate, assiduamente e con slancio romantico,
dall’alta borghesia sabauda. I signorotti piemontesi si cimentavano, seguendo
la moda importata dagli inglesi, nel difficile gioco delle scalate sulle pareti
qui intorno. L’ingegner Antonio Tonini salì la Bessanese, chiamata anche per la
sua forma ardita – e senza grande originalità – il Cervino delle Valli di
Lanzo. (Ma quanti Cervini ci sono al mondo?) Della stessa cerchia di alpinisti
facevano parte Luigi Vaccarone, il pittore Alessandro Balduino, lo scrittore
Guido Rey e Umberto Murari Bra, spesso legati alla corda della guida locale
Antonio Castagneri, detto Toni dei Tuni, che troverà la morte durante una
scalata sul Monte Bianco.
“Oggi questa zona attrae ben pochi arrampicatori: la roccia è friabile, malsicura. Ma per l’escursionismo è perfetta, i posti li vedi anche tu, sono bellissimi,” mi dice Roberto Chiosso uscendo dal rifugio, “solo che gli escursionisti preferiscono il vicino Gran Paradiso e mettersi in coda lungo i sentieri. Valli a capire! Cosa c’è di meno qui che al Gran Paradiso? Meno gente, ecco cosa c’è di meno. E proprio per questo, dico io, è più bello, più selvaggio! O no?”
Mentre
chiude la porta di legno, gli chiedo a bruciapelo: “Mi sapresti indicare dov’è
caduta la Stella?”.
Lui si
volta di scatto e mi guarda sorpreso.
“E cosa ne
sai tu della Stella?”
“Niente, mi
chiedevo dove potesse aver picchiato sulla montagna. Mi sembra che sia dalle
parti dello Spigolo Murari, che sale, mi hanno detto, sul lato nord-est della
Bessanese.”
“Ah!”
Lo seguo
sul sentiero che in un attimo porta a un promontorio naturale, proprio sopra il
ghiacciaio.
Tira un
vento teso e gelido. E la luce è accecante. Grandioso, penso.
Sotto i
nostri piedi, oltre la placca rocciosa maculata di licheni, la spianata di
terriccio digrada verso la morena, dove si accumulano i massi spigolosi
precipitati nel corso del tempo dalla parete soprastante. Poco più su parte il
ghiacciaio azzurrino e crepacciato, e ancora oltre, sopra una fascia basale di
rocce, giganteggia la parete nord-est della Bessanese, solcata da canali e
diedri che corrono per tutta la sua altezza. Sembra di sentire l’odore del
ghiacciaio. Ci sarà ancora lassù, mi chiedo, qualche scampolo di seta che
aspetta lentamente di decomporsi?
“Quello che tu adesso vedi pietraia era tutto ghiacciaio alla fine dell’Ottocento. Devi sforzarti e immaginare.”
“Ci provo.”
“Lo Spigolo
Murari è lassù, proprio tra l’ombra e la luce del sole. Lo vedi?”
“Quello lì
a sinistra? È quello che fu scalato per la prima volta da Umberto Murari Bra? È
una salita famosa, ho letto...”
“No, è
quello a destra, proprio contro il cielo. È la più famosa e certamente la più
bella via alpinistica della zona. Ma non la più difficile. Chi l’ha detto poi,
che bello è uguale a difficile? Però è pericolosa, quello sì. Per via della
roccia instabile. Non ci si può calare in corda doppia perché la parete è
troppo frastagliata e non molto ripida, bisogna farsi tutto il giro dalla cima.
E il ritorno, te lo dico, è veramente eterno.”
“Dunque è
difficile...”
“Forse
lassù è più difficile scendere che salire.”
“Non
‘forse’, sicuro: te l’ho detto, dallo Spigolo Murari non si può scendere in
corda doppia.”
“E come
avranno fatto quelli del pallone? Continuo a chiedermelo.”
“Saranno
scesi col pallone strisciando sulle rocce. In che altro modo, se no? E poi vai
a sapere come sono riusciti a raggiungere il ghiacciaio, a superarlo, a passare
di qui senza accorgersi del rifugio. Avrebbero potuto dormire comodi. E non si
sono accorti...”
“Eh già,
vai a sapere...”
“Ma dimmi
una cosa: perché ti interessa tanto questa storia?”…
(M.A. Ferrari, La sposa dell’aria)
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