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BERGANZA.
Grazie, amico Scipione, perché se non mi avvisavi, tanto mi andavo infervorando
a dire che non mi sarei fermato finché non ti avessi esposto un libro intero,
di quelli che mi tenevano in inganno. Ma verrà tempo che potrò dir tutto con
migliori ragioni e con miglior procedimento d’ora.
SCIPIONE.
Guardati un po’ ai piedi e disfarai l’arcolaio Berganza; voglio dire che tu
rifletta che sei un animale privo di ragione e che, se ora mostri averne un po’,
siamo rimasti tutti e due d’accordo essere cosa soprannaturale e non mai
veduta.
BERGANZA. Così
sarebbe se io stessi nell’ignoranza di prima; ma ora che m’è venuto a mente
quel che avrei dovuto dire al principio della nostra conversazione, non soltanto
non mi maraviglio del mio parlare, ma sono stupito di quello che tralascio di
dire.
SCIPIONE.
Ma allora, non puoi dire quello di cui adesso ti ricordi.
BERGANZA. È una certa avventura che mi accadde con una gran fattucchiera, discepola della Camaccia di Montiglia.
SCIPIONE.
Voglio che me la racconti prima che tu vada avanti nel racconto della tua vita.
BERGANZA.
No davvero, finché non sia tempo. Abbi pazienza e ascolta, per ordine come mi
sono accaduti, i miei casi, ché così ne avrai più piacere; se pure il desiderio
di conoscere quei di mezzo prima di quei di cima, non ti sia molesto.
SCIPIONE.
Sii breve e racconta quel che vuoi e come vuoi.
BERGANZA. Dico dunque che io mi trovavo bene con l’ufficio di guardiano del gregge, parendomi di mangiare il pane dei miei sudori e delle mie fatiche, e che l’ozio, causa e padre di tutti i vizi non avesse a che fare con me, perché riposavo il giorno; non dormivo la notte, dovendo stare all’erta per gli assalti che ogni poco ci davano i lupi. E appena i pastori mi avevano detto: al lupo, Rossino! io correvo prima degli altri cani verso dove m’indicavano che c’era il lupo. Mi davo a correre per le valli, frugacchiavo per i monti, penetravo nei boschi, saltavo botri, attraversavo strade e la mattina facevo ritorno al branco senza aver trovato del lupo neppur la traccia, ansimante, sfinito che cascavo a pezzi, con i piedi spaccati dai rovi; e nel branco trovavo ora una pecora uccisa ora un montone sgozzato e mangiato mezzo dal lupo. Io mi disperavo nel vedere quanto poco servisse il mio tanto zelo la mia tanta diligenza. Capitava il padrone del gregge: i pastori gli uscivano incontro con la pelle della bestia uccisa: lui incolpava di trascuratezza i pastori e ordinava di castigare i cani come poltroni. Sopra di noi piovevano legnate e sopra di loro rimproveri. Perciò un giorno che mi vidi castigato senza aver colpa, e che la mia attenzione, sveltezza e bravura non giovavano a cogliere il lupo, mi decisi a cambiare modo, non più stancandomi per cercarlo, com’ero solito, lontano dal gregge, ma tenermi sempre vicino a questo. Poiché li veniva il lupo, lì più sicuro sarebbe stato il prenderlo.
Ogni settimana si dava un allarme; e una notte scura scura, pure riuscii a scorgere i lupi da cui il gregge non avrebbe potuto guardarsi. Io mi accovacciai dietro un cespuglio; i cani, miei compagni, passarono oltre; spiando di lì, vidi che due pastori, agguantato un montone, fra i migliori dell’ovile, l’ammazzarono sì che la mattina sembrò che davvero il lupo fosse stato il carnefice. Gran sorpresa fu la mia, stupefatto al vedere che i lupi erano i pastori e che quegli stessi sbranavano la mandria i quali avrebbero dovuto guardarla. Al loro padrone facevano subito sapere che il lupo aveva predato, gli davano la pelle e parte della carne; essi poi se ne mangiavano il più e il meglio. Il padrone, da capo a rimproverarli, e da capo anche il castigo ai cani. Lupi non ce n’era e il branco scemava! Avrei ben voluto svelare la cosa, ma non avevo la favella; e tutto questo intanto mi riempiva di maraviglia e di amarezza.
‘Dio buono! dicevo fra me; chi potrà metterci riparo a questa iniquità? Chi sarà capace di far comprendere che il difensore è che offende, che le sentinelle dormono, che la fiducia è ladra e che colui che vi bada è quello che ammazza?’.
SCIPIONE. E benissimo tu dicevi, Berganza, giacché non c’è ladro peggiore e più furbo del servo. Così è che ne va in rovina più di quei che si fidano che di quei che han prudenza. Ma il male è che è impossibile viver bene nel mondo se non ci si fida e affida. Di questo però basta, ché non voglio che ci abbiano a prendere per predicatori. Seguita.
BERGANZA. Proprio così, tutto. Continuando ora il mio racconto, ti so dire che i miei padroni ebbero piacere che io portassi sempre il vademecum; il che io feci molto volentieri, dovendo a questo se io conducevo una vita da re e anche meglio; perché era una vita riposata, avendo preso gli scolari a scherzare con me ed essermi io familiarizzato con loro talmente che mi mettevano la mano in bocca e i più piccini mi montavano addosso: gettavano in aria berrettini o cappelli e io glieli riconsegnavo pulitamente e con segni di grande soddisfazione. Presero a darmi da mangiare quanto potevano darmi, e godevano a vedere che quando mi davano noci o nocciole io le spaccavo come fa la bertuccia, lasciando i gusci e mangiando il gheriglio. Ci fu uno che per mettere alla prova la mia capacità mi portò in un fazzoletto una buona quantità d’insalata, e io la mangiai come un uomo. D’inverno quando in Siviglia costumano panini di fiore e schiacciatine col burro, me ne regalavano tanti che si impegnarono e vendettero ben più di due calepini per farmi far colazione. Insomma io vivevo da studente, ma senza la fame e senza la rogna, che è quanto più si possa dire per significare che era buona vita; perché, se la rogna e la fame non fossero tanto tutt’una cosa con gli scolari, fra le tante condizioni di vita non ce ne sarebbe un’altra di maggior godimento e spasso, ché in essa la virtù e il piacere vanno di pari passo, e la giovinezza trascorre nell’imparare e nel divertirsi.
Da questa beatitudine e da questa pace mi venne a sbalzare una gran dama chiamata, mi pare, da queste parti ‘Ragion di stato’, ragione che a contentarla bisogna scontentare molte altre ragioni. Vale a dire, a quei signori maestri sembrò che quella mezz’ora, fra una lezione e l’altra, gli scolari la occupassero non nel ripassare le lezioni, ma a divertirsi con me; perciò comandarono ai miei padroni di non portarmi più alla scuola. Ubbidienti, essi mi fecero tornare a casa, a far la guardia, come prima, alla porta; e senza più rammentarsi il mio vecchio signore della grazia concessami, di poter andare sciolto di giorno e di notte, ritornai a rimettere il collo alla catena e il corpo su una piccola stoia che mi stesero dietro la porta.
Ah! amico
Scipione, com’è duro sopportare il passaggio da una condizione di felicità a
una d’infelicità! Vedi: quando le miserie e le disgrazie sono una gonfia
fiumana ininterrotta, o finiscono presto con la morte, oppure, continuate, ci
si fa l’abitudine e ci si avvezza a sopportarle, il che suol alleggerire la
maggiore loro asprezza; ma quando uscito, all’impensata e d’un tratto, da una condizione
disgraziata e sventurata per goderne un’altra prospera, fortunata e di gioia,
poi di lì a poco ritorni a soffrire la sorte di prima e gli affanni e le
disdette di prima, è un dolore così acerbo che se non fa morire è per dare
maggior tormento facendoti vivere. In una parola, tornai alla mia razione da
cane e agli ossi che mi gettava una mora della casa e che due gatti romani mi
riducevano, perché, sciolti e svelti come sono, era facile per essi portarmi
via quel che non cadeva dentro il termine dove arrivava la mia catena. Caro
Scipione, il cielo ti conceda il bene che desideri, ma, senza che tu
t’inquieti, lasciami ora filosofare un po’, perché se tralasciassi di dire le cose
che in questo momento mi son venute alla mente fra quelle che allora mi
accaddero, mi parrebbe che il mio racconto non sarebbe completo né utile punto.
SCIPIONE. Bada, Berganza, che non sia tentazione del demonio questa voglia che dici esserti venuta di filosofare. La maldicenza infatti non ha miglior velo per palliare e ricoprire la sua sfrenata malignità che darsi a credere chi mormora che tutto quanto dice son sentenze di filosofi e che il dir male è un rimproverare, che lo scoprire i difetti degli altri è giusto zelo, mentre nessun maldicente, se ne consideri e ne scruti la vita, troverai che non sia pieno di vizi e presunzione. E ora, premesso questo, filosofa quanto ti pare.
BERGANZA.
Puoi star sicuro, Scipione, che non mormoro più; ne ho fatto proponimento. Or
bene, siccome me ne stavo tutto il giorno in ozio, e l’ozio genera le riflessioni,
ecco ripassarmi per la mente certi detti latini che mi erano rimasti impressi
fra i tanti che avevo sentito quando andavo con i miei padroni a scuola: detti
latini con i quali, a mio credere, mi ritrovai un po’ meglio d’intelligenza, sì
che decisi, quasi sapessi parlare, di giovarmene nelle occasioni che mi si
dessero in modo però diverso da come certi ignoranti sogliono giovarsene. Ci
son di quelli che, parlando in volgare spagnolo, buttan là nel discorso, di
tanto in tanto, qualche motto latino breve e concettoso, dando ad intendere a
chi non lo sa il latino, di essere solenni latinisti; e sì e no che sanno
declinare un nome e coniugare un verbo.
SCIPIONE. Meno male, secondo me, questo che non quello di coloro i quali sanno veramente di latino, tra cui ce n’è alcuni di così malaccorti che, parlando con un calzolaio o con un sarto, fanno spreco di latino come se fosse acqua.
BERGANZA.
Possiamo dedurre da questo che tanto sbaglia chi dice motti latini davanti a
chi non li capisce, quanto chi li dice senza capirli.
SCIPIONE. E
devi notare anche un’altra cosa; cioè, ci sono certuni che il saper di latino
non toglie che siano asini.
BERGANZA. E
chi ne dubita? È chiaro; quando infatti al tempo dei romani parlavano tutti
latino, per essere il latino la propria lingua materna, ben ci sarà stato fra
loro qualche tanghero che, con tutto il suo parlar latino, non lasciava di
essere imbecille.
SCIPIONE. Per saper tacere in volgare e parlare in latino, ci vuol giudizio, caro Berganza.
BERGANZA. Così
è: si può dire infatti una sciocchezza così in latino come in volgare. E io ho
visto sapientoni babbei e grammatici pesanti e parlanti in volgare, lardellare
il discorso di fette di latino da seccare con tutta facilità la gente, non una,
ma cento volte.
SCIPIONE. Lasciamo questo e comincia a dire le
tue osservazioni filosofiche.
BERGANZA.
Le ho dette già; son quelle che ho finito ora di dire.
SCIPIONE.
Quali?
BERGANZA.
Queste delle citazioni latine e del volgare, che io ho cominciato e tu hai finito
di fare.
SCIPIONE.
Il mormorare lo chiami filosofia? Così è. Magnifica, magnifica pure, o
Berganza, la piaga della maldicenza e dalle pure il nome che vuoi, che essa
darà a noi quello di cinici, vale a dire di cani maldicenti. Ma chetati, ti
raccomando; e seguita la tua storia.
BERGANZA.
Come seguitarla, se mi cheto?
(M. de
Cervantes)
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