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La Terra modificata (22)
Prosegue con il...:
Racconto della Domenica:
& Nei boschi (24/5)
Il
fatto che, di tutti gli esseri organici, solo l’uomo sia da considerarsi
essenzialmente un potere distruttivo, e che eserciti energie per resistere alla
quale la Natura, quella natura alla quale obbediscono ogni vita materiale e
ogni sostanza inorganica, è del tutto impotente, tende a dimostrare che, pur
vivendo nella natura fisica, non è di lei, che è di parentela più elevata, e
appartiene a un ordine di esistenze più alto, di quelle che nascono dal suo
grembo e vivono in cieca sottomissione ai suoi dettami.
Ci
sono, infatti, bruti distruttori, bestie, uccelli e insetti da preda - tutta la
vita animale si nutre e, naturalmente, distrugge altre forme di vita - ma
questa distruzione è bilanciata da compensazioni. È, infatti, il mezzo stesso
con cui l’esistenza di una tribù di animali o di vegetali è assicurata dall’essere
soffocata dalle invasioni di un’altra; e le capacità riproduttive delle specie,
che servono da cibo agli altri, sono sempre proporzionate alla domanda che sono
destinate a soddisfare. L’uomo insegue le sue vittime con sconsiderata
distruttività; e, mentre il sacrificio della vita da parte degli animali
inferiori è limitato dalle brame dell’appetito, perseguita senza risparmio,
fino all’estirpazione, migliaia di forme organiche che non può consumare.
La
terribile distruttività dell’uomo è notevolmente esemplificata nella caccia ai
grandi mammiferi e agli uccelli per singoli prodotti, accompagnata dall’intero
spreco di enormi quantità di carne, e di altre parti dell’animale che sono
suscettibili di usi preziosi.
I bovini selvatici del Sudamerica vengono massacrati da milioni di persone per la loro pelle e i loro peli; il bufalo del Nord America per la sua pelle o la sua lingua; l’elefante, il tricheco e il narvalo per le loro zanne; il cetaceo, e alcuni altri animali marini, per il loro osso di balena e per l’olio; lo struzzo e altri grandi uccelli, per il loro piumaggio.
Nel
giro di pochi anni, le pecore sono state uccise nel New England, da interi
greggi, solo per le loro pelli e il grasso, la carne viene gettata via; e si
dice addirittura che i corpi degli stessi quadrupedi siano stati usati in
Australia come combustibile per i forni da calce. Quale grande quantità di
nutrimento umano, di ossa e di altri prodotti animali preziosi nelle arti viene
così sperperata incautamente!
In
quasi tutti questi casi, la parte che costituisce il motivo di questa
distruzione totale, ed è l’unica salvata, ha essenzialmente un valore
insignificante rispetto a ciò che viene gettato via. Le corna e la pelle di un
bue non valgono economicamente una decima parte quanto l’intera carcassa.
Durante l’anno in corso, grandi quantità di mais indiano sono state utilizzate
come combustibile domestico, e persino per bruciare la calce, nell’Iowa e in
altri Stati occidentali.
La terra non era, nella sua condizione naturale, completamente adattata all’uso e consumo dell’uomo, ma solo al sostentamento degli animali selvatici e della vegetazione selvaggia. Questi vivono, moltiplicano la loro specie in giusta proporzione e raggiungono la loro perfetta misura di forza e bellezza, senza produrre o richiedere alcun cambiamento importante nelle disposizioni naturali della superficie, o nelle tendenze spontanee l’uno dell’altro, eccetto quella mutua repressione dell’eccessivo aumento che può impedire l’estirpazione di una specie a causa delle invasioni di un’altra.
In
breve, senza l’uomo, la vita animale inferiore e vegetale spontanea sarebbe
stata praticamente costante per tipo, distribuzione e proporzione, e la
geografia fisica della terra sarebbe rimasta indisturbata per periodi
indefiniti, e sarebbe stata oggetto di rivoluzione solo per un lento sviluppo
possibile e/o compatibile fra l’uomo e la Natura.
Ma l’uomo, gli animali domestici che lo servono, le piante da campo e da giardino i cui prodotti gli forniscono cibo e vestiti, non possono sussistere e raggiungere il pieno sviluppo compatibile delle loro superiori proprietà, a meno che non si combatta efficacemente la natura bruta e inconsapevole, e, in grande misura, vinta dall’arte umana. Quindi, diventa necessaria una certa misura di compatibile trasformazione della superficie terrestre, di soppressione di naturale e di stimolazione della produttività artificialmente modificata.
Questa
misura l’uomo purtroppo l’ha ampiamente superata.
Ha
abbattuto le foreste la cui rete di radici fibrose legava il terriccio allo
scheletro roccioso della terra; ma se avesse permesso qua e là a una fascia di
bosco di riprodursi per propagazione spontanea, la maggior parte dei danni
causati dalla sua sconsiderata distruzione della protezione naturale del suolo
sarebbe stata evitata.
Ha demolito le riserve montane, la cui percolazione delle acque attraverso canali invisibili forniva le fontane che rinfrescavano il suo bestiame e fertilizzavano i suoi campi; ma ha trascurato di mantenere le cisterne ei canali di irrigazione che una saggia antichità aveva costruito per neutralizzare le conseguenze della propria imprudenza. Mentre ha strappato la sottile gleba che delimitava la terra leggera di vaste pianure, e ha distrutto la frangia di piante semi-acquatiche che costeggiavano la costa e impedivano la deriva della sabbia marina, non è riuscito a impedire l’allargamento delle dune da rivestendoli di vegetazione propagata artificialmente.
L’umanità
puramente ignorante, è vero, interferisce relativamente poco con le
disposizioni della natura, è un fatto interessante e non sufficientemente
notato, che l’addomesticamento del mondo organico, per quanto è stato ancora
raggiunto, appartenga, non certo allo stato selvaggio, ma ai primi albori della
civiltà, la conquista della natura inorganica quasi esclusivamente agli stadi
più avanzati della cultura artificiale.
La civiltà ha aggiunto poco al numero di specie vegetali o animali coltivate nei nostri campi o allevate nei nostri ovili: il mirtillo rosso e l’uva selvatica sono quasi le uniche piante che l’anglo-americano ha recuperato dalla nostra flora più nativa e ha aggiunto alla sua raccolti, mentre, al contrario, la sottomissione delle forze inorganiche, e la conseguente estensione del dominio dell’uomo, non solo i prodotti annuali della terra, ma la sua sostanza e le sue sorgenti d’azione, è quasi interamente opera di età altamente raffinate e colte.
È
noto a tutti coloro che si sono occupati della psicologia e delle abitudini
delle razze più rozze e delle persone con intelletti imperfettamente sviluppati
nella vita civile, che sebbene queste umili tribù e individui sacrifichino
senza scrupoli la vita degli animali inferiori per la gratificazione dei loro
appetiti e la fornitura degli altri loro bisogni fisici, eppure sembrano
nutrire con i bruti, e anche con la vita vegetale, simpatie che sono molto più
debolmente sentite dagli uomini civilizzati. Le tradizioni popolari dei popoli
più semplici riconoscono una certa comunità di natura tra l’uomo, gli animali
bruti e perfino le piante; e questo serve a spiegare perché l’apologo o favola,
che attribuisce il potere della parola e la facoltà della ragione agli uccelli,
ai quadrupedi, agli insetti, ai fiori e agli alberi…
È sostenuto dalle autorità dalla scienza moderna, che l’azione dell’uomo sulla natura, sebbene maggiore in grado, non differisce nel genere da quella degli animali selvatici.
È
forse impossibile stabilire una distinzione radicale in genere tra le due
classi di effetti, ma c’è una differenza essenziale tra il motivo dell’azione
che richiama le energie dell’uomo civilizzato e il mero appetito che controlla
la vita della bestia.
L’azione
dell’uomo, infatti, è spesso seguita da risultati imprevisti e non desiderati,
eppure è guidata da una volontà autocosciente che mira tanto spesso a oggetti
secondari e remoti quanto a oggetti immediati. L’animale selvatico, invece,
agisce istintivamente e, per quanto possiamo intuire, sempre nell’ottica di
scopi singoli e diretti. Sia il boscaiolo che il castoro abbatterono alberi; l’uomo
perché possa convertire la foresta in un uliveto che maturerà i suoi frutti
solo per una generazione successiva, il castoro perché possa nutrirsi della
corteccia degli alberi o utilizzarli nella costruzione della sua abitazione.
L’azione dei bruti sul mondo materiale è lenta e graduale, e di solito limitata, in ogni caso, a una ristretta estensione di territorio. Alla natura è concesso tempo e opportunità per mettere all’opera i suoi poteri riparatori, e l’animale distruttivo si è appena ritirato dal campo delle sue devastazioni prima che la natura abbia riparato i danni causati dalle sue operazioni. Infatti, viene espulso dalla scena proprio per gli sforzi che lei compie per restaurare il suo dominio.
L’uomo,
al contrario, estende la sua azione su vasti spazi, le sue rivoluzioni sono
rapide e radicali, e le sue devastazioni sono, per un tempo quasi incalcolabile
dopo che ha ritirato il braccio che ha dato il colpo, irreparabili.
La
forma della superficie geografica, e molto probabilmente il clima di un dato
paese, dipendono molto dal carattere della vita vegetale che vi appartiene. L’uomo,
per addomesticamento, ha grandemente cambiato le abitudini e le proprietà delle
piante che alleva; ha, per scelta volontaria, immensamente modificato le forme
e le qualità delle creature animate che lo servono; ed ha, nello stesso tempo,
sradicato completamente molte forme di essere animale se non vegetale.
Qualunque cosa si possa pensare della modificazione delle specie organiche per selezione naturale, non vi è certamente alcuna prova che gli animali abbiano esercitato su qualsiasi forma di vita un’influenza analoga a quella della domesticazione su piante, quadrupedi, e uccelli allevati artificialmente dall’uomo; e questo vale tanto per i miglioramenti imprevisti quanto per i miglioramenti intenzionalmente effettuati, ottenuti mediante la selezione volontaria di animali da riproduzione.
Le
devastazioni commesse dall’uomo sovvertono i rapporti e distruggono l’equilibrio
che la natura aveva stabilito tra le sue creazioni organizzate e le sue
creazioni inorganiche, e si vendica dell’intruso, scatenando sulle sue province
deturpate energie distruttive finora tenute a freno da forze organiche
destinate a essere i suoi migliori ausiliari, ma che ha incautamente disperso e
cacciato dal campo d’azione.
Quando
la foresta non c’è più, il grande serbatoio di umidità immagazzinato nel suo
terriccio vegetale evapora, e ritorna solo in diluvi di pioggia per lavare via
la polvere riarsa in cui quello stampo è stato convertito. Le colline boscose e
umide si trasformano in creste di roccia secca, che ingombra i bassi fondali e
soffoca i corsi d’acqua con i suoi detriti, e — eccetto nei paesi favoriti da
un’equa distribuzione delle piogge durante le stagioni e da una moderata e
regolare inclinazione della superficie — tutta la terra, a meno che l’arte
umana non sia sottratta alla fisica il degrado a cui tende, diviene un insieme
di montagne spoglie, di colline aride e prive di zolle e di pianure paludose e
malariche.
Vi sono parti dell'Asia Minore, dell’Africa settentrionale, della Grecia e perfino dell’Europa alpina, dove l’azione delle cause messe in atto dall’uomo ha portato la faccia della terra ad una desolazione quasi completa come quella della luna; e sebbene, in quel breve lasso di tempo che chiamiamo ‘periodo storico’, siano noti per essere stati ricoperti di boschi rigogliosi, pascoli verdeggianti e prati fertili, ora sono troppo deteriorati per essere recuperabili dall’uomo, né possono tornare adatti all’uso umano, se non attraverso grandi cambiamenti geologici o altre misteriose influenze o agenti di cui non abbiamo conoscenza attuale e su cui non abbiamo alcun controllo futuro.
La
terra sta rapidamente diventando una dimora inadatta per il suo più nobile abitante,
e un’altra epoca di pari delitto umano e umana imprevidenza, e di pari durata
con quella per cui si estendono le tracce di quel delitto e di quella
imprevidenza, la ridurrebbe a una tale condizione di impoverita produttività,
di superficie frantumata, di eccesso climatico, tanto da minacciare la
depravazione, la barbarie e forse anche l’estinzione della specie.
E si può notare che, poiché il mondo è passato attraverso questi diversi stadi di lotta per produrre una cristianità, così, rilassandosi nelle imprese che ha imparato, tende verso il basso, per gradi invertiti, alla selvatichezza e di nuovo allo spreco. Lascia che un popolo rinunci alla sua gara con il male morale; trascurare l’ingiustizia, l’ignoranza, l’avidità, che possono prevalere tra loro, e partecipare sempre più all’elemento cristiano della loro civiltà; e nel declinare questa battaglia con il peccato, inevitabilmente si immischieranno con gli uomini.
Minacce di guerra e rivoluzione puniscono la loro infedeltà; e se poi, invece di tornare sui loro passi, cedono di nuovo, e sono sospinti davanti alla tempesta, le stesse arti che avevano creato, le strutture che avevano innalzato, gli usi che avevano stabilito, sono spazzate via; ‘in quello stesso giorno i loro pensieri periscono’. La parte che avevano strappato all’asprezza della giovane terra è perduta.
(George P. Marsh)
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