giuliano

mercoledì 17 novembre 2021

IL PAESAGGIO MUTA (21)

 























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Stessi anni, ovvero,


l'anima del commercio


& La Natura modificata (22/3)








Il bosco lituano è pervaso da un’animazione amorosa mentre il Conte si dilunga sulle bellezze naturali della Natura: il viburno abbraccia stretto il biancospino, il rovo sfiora il lampone con le labbra nere, gli alberi congiungono le foglie con i cespugli, tutti danzanti intorno ai novelli sposi carpine e betulla, ma sempre sotto l’occhio vigile dei saggi anziani, il faggio, il pioppo, il rovere ingobbito da cinque secoli che…




 Eppure intorno a loro si estendevano i boschi

lituani così ricchi di bellezza e maestosi!

 

I padi inghirlandati di luppolo selvatico,

i sorbi invermigliati di rustico rossore,

noccioli come Menadi dai tirsi verdeggianti

ornati di nocciole come di perle a tralci.

 

In basso i piccolini: il biancospino stretto

dai viburni, il rovo che con le labbra nere

sfiora il lampone.

 

Gli alberi congiungono le foglie

con i cespugli, come fanciulle e giovanotti

pronti alle danze intorno a una coppia di sposi.

 

La coppia si erge in mezzo alla schiera del bosco

con la taglia slanciata e lo charme dei colori:

la candida betulla e il carpine consorte.

 

Più in là i vecchi che guardano, seduti e silenziosi,

i figli e i nipoti: qui i saggi del faggeto,

la pioppaia matrona, là il rovere barbuto

di muschio, cinque secoli sul dorso ormai gobbuto,

si sostiene ai cadaveri di già pietrificati

degli avi, come a cippi di sepolcri spezzati.

 

Pur semplice, sentiva la beltà del creato;

guardò il bosco natio, tutto ispirato disse:

 

Vidi all’orto botanico di Wilno queste piante

che, tanto decantate, crescono a oriente

e a sud, nella bellissima terra;

ma come compararle alla flora nostrana?

 

L’aloe con quelle pertiche simili a parafulmini?

 

Forse il limone, un nano, con quei pomi dorati,

con quelle foglie corte, panciute e laccate

come una donna piccola, brutta ma benestante?

 

O il vantato cipresso, magro, lungo, sottile!?

 

L’albero della noia, più che della mestizia.

 

Dicono che ha un aspetto triste sopra le tombe:

per me è un lacchè tedesco ad un lutto di corte

che le mani o la testa non osa neanche alzare

per attenersi in tutto a quel cerimoniale.

 

È più bella la nostra betulla onesta, simile

ad una campagnola che, quando piange il figlio

o, vedova, il marito, torce le mani e srotola

un rivolo di trecce dal collo fino al suolo!

 

Muta, ma che singulti mostra la sua postura!

Perché, Conte, se ama davvero la pittura,

non ritrae i nostri alberi che le stanno qui intorno?

 

La prenderanno in giro tutti i vicini, un giorno,

perché lei sta in Lituania, nella pianura fertile,

e non fa che dipingere le rocce e i deserti.

 

Ci vuole il cielo, il cielo! Telimena interruppe:

 

Il nostro Orłowski aveva proprio lo stesso gusto

dei Soplica (costoro hanno la malattia

di non trovare bella che la patria natia).

 

Quel pittore trascorse gran parte della vita

da eremita (ho alcuni suoi schizzi nei cassetti)

presso lo zar, a corte, come in un paradiso,

eppure…

 

Se sapesse che nostalgia provava

per la patria, l’infanzia!

 

Lodava senza sosta

tutto quanto in Polonia:

 

la terra, il cielo, i boschi…

 

Faceva bene!, esclamò Taddeo accalorato.

 

Quel vostro cielo italico, da quello che ho sentito,

sempre limpido, azzurro, è come acqua ghiacciata!

 

Non sono mille volte più belli il brutto tempo

e il vento? Alzi la testa, e quanti panorami!

 

Nel gioco delle nuvole quante scene, che quadri!

 

Ogni nube è diversa: per esempio, in autunno

gravida arranca pigra come una tartaruga

e dal cielo alla terra srotola in lunghe frange,

come trecce disciolte, i suoi rivoli d’acqua;

 

la nube della grandine, rapida assieme al vento

come un pallone, tonda, blu scura, gialla dentro,

e intorno un gran frastuono; anche le nuvolette

quotidiane, guardate come sono diverse!

 

Prima branchi di oche selvatiche o di cigni

e il vento come un falco che incalza e li compatta;

si stringono, s’ingrossano, crescono strane forme!

 

Assumono gropponi curvi, criniere sciolte,

file di zampe e volano nella volta celeste

come i destrieri a mandrie cavalcano le steppe,

biancoargento si fondono… poi dai gropponi svettano

alberi di maestra, dalle criniere – vele,

la mandria si fa nave e naviga imponente

nella pianura azzurra del cielo nel silenzio!

 

Il Conte e Telimena guardavano all’insù,

Taddeo con una mano mostrò loro una nube,

con l’altra strinse un poco la mano a Telimena.

 

Passò qualche minuto di questa muta scena;

il Conte prese un foglio, lo stese sul cappello,

estrasse la matita.

 

Ma ecco, sul più bello

rintoccò la campana della villa, sgradita

all’orecchio, e il silente bosco si empì di grida.




Persino l’orticello della giovane Sofia, adocchiata dal Conte, è percorso da un afflato erotico:

 

La fava snella immerge le valve nella treccia /verde della carota facendo mille occhi / dolci; il granturco alza il pennacchio dorato /

 

Nell’ora del tramonto, all’attesa muta e tetra dei personaggi presaghi dell’imminente catastrofe danno voce il cielo e la terra con il loro dialogo segreto,




L’istante prima della tempesta è cheto e cupo,

quando sopra la testa degli uomini una nube

sopraggiunge e si arresta, e minacciosa in volto

ferma il fiato dei venti, tace e perlustra il suolo

marcando con gli occhi dei lampi tutti i punti

che colpirà il fulmine.

 

C’è quello stesso istante

da Soplica: il presagio di eventi straordinari

cuce le bocche e apre a mondi immaginari.

 

Dopo cena sia il Giudice che gli ospiti si siedono

fuori sulle panchine fatte di zolle d’erba

per godersi la sera; tutti silenti e tetri,

volgono gli occhi al cielo che sembra abbassarsi,

restringersi e pian piano sempre più avvicinarsi

al suolo, finché entrambi, protetti da una tenda

scura come due amanti, intrecciano un segreto

dialogo, traducendo i loro sentimenti

in sospiri attutiti, in mormorii, sussurri

e parole non dette fino in fondo, a comporre

la strana armonia della musica del tramonto.

 

L’ha iniziata l’allocco gemendo nel solaio;

i pipistrelli han scosso le ali flosce e volano

ai vetri della casa dove brillano i volti

umani; più vicino le falene, sorelle

dei pipistrelli, sciamano attratte dalle vesti

bianche delle signore.

 

Danno noia a Sofia,

le colpiscono il viso scambiando gli occhi chiari

per due candele.

 

In aria un nugolo d’insetti

vibra come un’armonica a bicchieri.

 

L’orecchio di Sofia sa distinguere l’accordo dei moschini

dal falso semitono proprio delle zanzare.

 

Comincerà a momenti il concerto nel campo,

i musici finiscono di accordar gli strumenti;

già tre volte ha gracchiato il re di quaglie

 – il primo violino – e l’accompagna

dalle paludi il basso dei tarabusi.

 

In alto le beccacce zigzagano

e il batter d’ali sembra rullio di tamburini.

 

Nel finale, ai ronzii delle mosche ed al chiasso

degli uccelli si aggiunse il coro dei due stagni,

simili ai laghi magici del Caucaso, che tacciono

per tutto il giorno e a sera cominciano a suonare.

 

L’uno, dal flutto chiaro e la riva sabbiosa,

dal petto blu emise un gemito solenne,

calmo; l’altro, dal fondo fangoso e dalla gola

torbida, gli rispose con un grido penoso

e passionale; nei due stagni orde di rane

gracidavano unite in due potenti accordi.

 

L’uno suonò fortissimo, l’altro canterellava,

l’uno sembrò lagnarsi e l’altro sospirare;

e così conversavano i due stagni tra i campi,

come due arpe eoliche che suonano alternate.

 

L’ombra si addensa; solo presso il fiume tra i salici

e nel boschetto brillano come candele gli occhi

del lupo e più lontano, lungo i ristretti bordi

dell’orizzonte, i fuochi notturni dei pastori.

 

La luna al fine accese la sua torcia d’argento,

uscì dalla foresta e schiarì cielo e terra.

 

Ora i due, che la tenebra ha scoperto a metà,

dormivano vicini come sposi felici:

stringeva il cielo fra le sue caste braccia il seno

della terra, splendente dell’argento lunare.




 …Così come la conversazione dei due stagni situati l’uno di fronte all’altro, uno chiaro, ora lamentoso ora stentoreo, l’altro torbido, ora passionale e ora sospiroso.

 

Alla fine del massacro fra polacchi e russi, i salici e i pioppi, che prima si battevano la fronte agitando le braccia come prefiche sulla tomba, ora sembrano morti, il volto muto e funereo, mentre il turbine trivella il suolo con la testa e con i piedi getta la sabbia in faccia alle stelle.




Ma ecco che si addensano, i turbini, si spaccano

in due, lottano, vibrano, roteano sibilanti

sugli stagni, ne intorbano le acque fino al fondo,

irrompono nei prati, fischiano nei vincheti

e nell’erbe, i salcioli si frangono, gli sfalci

volano come ciocche di capelli strappati

frammischiati ai riccioli di paglia;

 

i venti urlano, piombano sul terreno,

si rotolano, scavano,

estirpano le zolle, aprono il varco a un terzo

vento che sgorga come un palo di terra nera,

s’alza, come una mobile piramide trivella

col capo il suolo e getta coi piedi sabbia in faccia

alle stelle, man mano si gonfia, si spalanca

in alto e la sua tromba squilla al temporale.

 

Finché in quel caos di acqua, polverio, paglia, foglie,

rami, erba strappata, i venti si scagliarono

sul bosco e nel profondo della selva mugghiarono

come orsi.

 

E già la pioggia scroscia a fitte gocce

come da un setaccio; i fulmini ruggiscono

e le gocce si fondono: ora, simili a corde

tese, in lunga treccia legano terra e cielo;

ora sbottano in scrosci di acqua a catinelle.

 

La notte ha nascosto del tutto cielo e terra

col temporale, nero più della notte stessa.

 

A volte l’orizzonte si fende, e allora all’angelo

del temporale, a guisa di sole immenso, il viso

riluce, poi di nuovo lo copre il velo funebre,

fugge in cielo sbattendo la porta delle nuvole

con un tuono.

 

Ora aumentano temporale, acquazzoni

e buio pesto e fitto che quasi lo si tocca.

 

Ora la pioggia fruscia più piano, il tuono cessa

per un po’.

 

Si ridesta, mugghia e di nuovo l’acqua

zampilla.

 

Ora c’è calma, solo intorno alla villa

gli alberi sussurrano e lo scroscio bisbiglia.

 

Fu un bene che quel giorno infuriasse il temporale:

la burrasca, oscurato il campo di battaglia,

coprì d’acqua le strade, ruppe i ponti sul fiume,

fece della tenuta un forte inaccessibile.




Vi sono poi forme di iperflora che aprono inaspettati spazi semantici, alberi testimoni di antiche gesta leggendarie, o il grembo della selva inaccessibile all’uomo, un regno animale che conserva ancora specie estinte, un po’ arca di Noè, un po’ paradiso dell’Eden, un po’ ossario comune, una fiaba popolare bielorussa trasformata in arguta imitazione delle teorie del Discorso sull’ineguaglianza di Jean-Jacques Rousseau.

 

La descrizione lirica della Natura organizza un territorio di riflessione filosofica, antropomorfismi e metamorfosi auspicano il ritorno di tempi in cui uomo e natura convivano solidali in un legame che crei il sentimento di una rigenerazione esistenziale e spirituale, che è poi il senso profondo delle pagine del poema.

 

Negli ultimi due libri, fra pietanze arcaiche, lussureggianti trionfi da tavola e concerti magistrali, assistiamo all’apoteosi dell’armonia nella ritrovata riconciliazione dei dissidi in un rassemblement socio-patriottico, alla fusione gioiosa del vecchio mondo con il nuovo e dei ceti fra di loro, ebrei e contadini compresi, all’euforia dell’illusoria imminente liberazione della patria.

 

Ma non sfuggono all’attenzione gli ultimi due versi del poema:

 

 Lì c’ero anch’io, bevevo idromele e vino,

e ciò che ho visto e udito

l’ho messo in questo libro.




Il primo verso costituiva la tradizionale formula di lieto fine, di trionfo del bene sul male, che concludeva le fiabe russe, formula successivamente adottata anche dal romanziere Józef Ignacy Kraszewski in vari testi, compresa la popolarissima Stara baśń (Una vecchia fiaba), dedicata alla storia favolosa della Polonia delle origini. Affinché l’amore e la speranza possano trionfare, Mickiewicz, testimone delle disfatte successive all’epoca in cui ambientò Messer Taddeo, deve ricorrere alla favola.

 

Senza dimenticare che nell’ambito della cultura romantica ispirata al folclore la fiaba, più che rispondere all’immaginario di un’infanzia serena e idilliaca, si avvicinava al mito e alle sue verità universali, diventando quindi anch’essa una rivelazione.

 

L’Epilogo avrebbe dovuto riportare il lettore nella crudezza della contemporaneità.










 

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