Precedenti capitoli
di medesimo paesaggio (20/1)
Prosegue negli...:
& La Natura modificata (22/3)
Il
bosco lituano è pervaso da un’animazione amorosa mentre il Conte si dilunga
sulle bellezze naturali della Natura: il viburno abbraccia stretto il biancospino, il rovo sfiora il
lampone con le labbra nere, gli alberi congiungono le foglie con i cespugli,
tutti danzanti intorno ai novelli sposi carpine e betulla, ma sempre sotto
l’occhio vigile dei saggi anziani, il faggio, il pioppo, il rovere ingobbito da
cinque secoli che…
Eppure intorno a loro si estendevano i boschi
lituani così ricchi di bellezza e
maestosi!
I padi inghirlandati di luppolo
selvatico,
i sorbi invermigliati di rustico
rossore,
noccioli come Menadi dai tirsi
verdeggianti
ornati di nocciole come di perle a
tralci.
In basso i piccolini: il biancospino
stretto
dai viburni, il rovo che con le
labbra nere
sfiora il lampone.
Gli alberi congiungono le foglie
con i cespugli, come fanciulle e
giovanotti
pronti alle danze intorno a una
coppia di sposi.
La coppia si erge in mezzo alla
schiera del bosco
con la taglia slanciata e lo charme
dei colori:
la candida betulla e il carpine
consorte.
Più in là i vecchi che guardano,
seduti e silenziosi,
i figli e i nipoti: qui i saggi del
faggeto,
la pioppaia matrona, là il rovere
barbuto
di muschio, cinque secoli sul dorso
ormai gobbuto,
si sostiene ai cadaveri di già
pietrificati
degli avi, come a cippi di sepolcri
spezzati.
Pur semplice, sentiva la beltà del
creato;
guardò il bosco natio, tutto ispirato
disse:
Vidi all’orto botanico di Wilno
queste piante
che, tanto decantate, crescono a
oriente
e a sud, nella bellissima terra;
ma come compararle alla flora
nostrana?
L’aloe con quelle pertiche simili a
parafulmini?
Forse il limone, un nano, con quei
pomi dorati,
con quelle foglie corte, panciute e
laccate
come una donna piccola, brutta ma
benestante?
O il vantato cipresso, magro, lungo,
sottile!?
L’albero della noia, più che della
mestizia.
Dicono che ha un aspetto triste sopra
le tombe:
per me è un lacchè tedesco ad un
lutto di corte
che le mani o la testa non osa
neanche alzare
per attenersi in tutto a quel
cerimoniale.
È più bella la nostra betulla onesta,
simile
ad una campagnola che, quando piange
il figlio
o, vedova, il marito, torce le mani e
srotola
un rivolo di trecce dal collo fino al
suolo!
Muta, ma che singulti mostra la sua
postura!
Perché, Conte, se ama davvero la
pittura,
non ritrae i nostri alberi che le
stanno qui intorno?
La prenderanno in giro tutti i
vicini, un giorno,
perché lei sta in Lituania, nella
pianura fertile,
e non fa che dipingere le rocce e i
deserti.
Ci vuole il cielo, il cielo! Telimena
interruppe:
Il nostro Orłowski aveva proprio lo
stesso gusto
dei Soplica (costoro hanno la
malattia
di non trovare bella che la patria
natia).
Quel pittore trascorse gran parte
della vita
da eremita (ho alcuni suoi schizzi
nei cassetti)
presso lo zar, a corte, come in un
paradiso,
eppure…
Se sapesse che nostalgia provava
per la patria, l’infanzia!
Lodava senza sosta
tutto quanto in Polonia:
la terra, il cielo, i boschi…
Faceva bene!, esclamò Taddeo
accalorato.
Quel vostro cielo italico, da quello
che ho sentito,
sempre limpido, azzurro, è come acqua
ghiacciata!
Non sono mille volte più belli il
brutto tempo
e il vento? Alzi la testa, e quanti
panorami!
Nel gioco delle nuvole quante scene,
che quadri!
Ogni nube è diversa: per esempio, in
autunno
gravida arranca pigra come una
tartaruga
e dal cielo alla terra srotola in
lunghe frange,
come trecce disciolte, i suoi rivoli
d’acqua;
la nube della grandine, rapida
assieme al vento
come un pallone, tonda, blu scura,
gialla dentro,
e intorno un gran frastuono; anche le
nuvolette
quotidiane, guardate come sono
diverse!
Prima branchi di oche selvatiche o di
cigni
e il vento come un falco che incalza
e li compatta;
si stringono, s’ingrossano, crescono
strane forme!
Assumono gropponi curvi, criniere
sciolte,
file di zampe e volano nella volta
celeste
come i destrieri a mandrie cavalcano
le steppe,
biancoargento si fondono… poi dai
gropponi svettano
alberi di maestra, dalle criniere –
vele,
la mandria si fa nave e naviga
imponente
nella pianura azzurra del cielo nel
silenzio!
Il Conte e Telimena guardavano
all’insù,
Taddeo con una mano mostrò loro una
nube,
con l’altra strinse un poco la mano a
Telimena.
Passò qualche minuto di questa muta
scena;
il Conte prese un foglio, lo stese
sul cappello,
estrasse la matita.
Ma ecco, sul più bello
rintoccò la campana della villa,
sgradita
all’orecchio, e il silente bosco si
empì di grida.
Persino l’orticello della giovane Sofia, adocchiata dal Conte, è percorso da un afflato erotico:
La fava snella immerge le valve nella
treccia /verde della carota facendo mille occhi / dolci; il granturco alza il
pennacchio dorato /
Nell’ora
del tramonto, all’attesa muta e tetra dei personaggi presaghi dell’imminente
catastrofe danno voce il cielo e la terra con il loro dialogo segreto,
L’istante prima della tempesta è cheto e cupo,
quando sopra la testa degli uomini
una nube
sopraggiunge e si arresta, e
minacciosa in volto
ferma il fiato dei venti, tace e
perlustra il suolo
marcando con gli occhi dei lampi
tutti i punti
che colpirà il fulmine.
C’è quello stesso istante
da Soplica: il presagio di eventi
straordinari
cuce le bocche e apre a mondi
immaginari.
Dopo cena sia il Giudice che gli
ospiti si siedono
fuori sulle panchine fatte di zolle
d’erba
per godersi la sera; tutti silenti e
tetri,
volgono gli occhi al cielo che sembra
abbassarsi,
restringersi e pian piano sempre più
avvicinarsi
al suolo, finché entrambi, protetti
da una tenda
scura come due amanti, intrecciano un
segreto
dialogo, traducendo i loro sentimenti
in sospiri attutiti, in mormorii,
sussurri
e parole non dette fino in fondo, a
comporre
la strana armonia della musica del
tramonto.
L’ha iniziata l’allocco gemendo nel
solaio;
i pipistrelli han scosso le ali
flosce e volano
ai vetri della casa dove brillano i
volti
umani; più vicino le falene, sorelle
dei pipistrelli, sciamano attratte
dalle vesti
bianche delle signore.
Danno noia a Sofia,
le colpiscono il viso scambiando gli
occhi chiari
per due candele.
In aria un nugolo d’insetti
vibra come un’armonica a bicchieri.
L’orecchio di Sofia sa distinguere
l’accordo dei moschini
dal falso semitono proprio delle
zanzare.
Comincerà a momenti il concerto nel
campo,
i musici finiscono di accordar gli
strumenti;
già tre volte ha gracchiato il re di
quaglie
– il primo violino – e l’accompagna
dalle paludi il basso dei tarabusi.
In alto le beccacce zigzagano
e il batter d’ali sembra rullio di
tamburini.
Nel finale, ai ronzii delle mosche ed
al chiasso
degli uccelli si aggiunse il coro dei
due stagni,
simili ai laghi magici del Caucaso,
che tacciono
per tutto il giorno e a sera
cominciano a suonare.
L’uno, dal flutto chiaro e la riva
sabbiosa,
dal petto blu emise un gemito
solenne,
calmo; l’altro, dal fondo fangoso e
dalla gola
torbida, gli rispose con un grido
penoso
e passionale; nei due stagni orde di
rane
gracidavano unite in due potenti
accordi.
L’uno suonò fortissimo, l’altro
canterellava,
l’uno sembrò lagnarsi e l’altro
sospirare;
e così conversavano i due stagni tra
i campi,
come due arpe eoliche che suonano
alternate.
L’ombra si addensa; solo presso il
fiume tra i salici
e nel boschetto brillano come candele
gli occhi
del lupo e più lontano, lungo i
ristretti bordi
dell’orizzonte, i fuochi notturni dei
pastori.
La luna al fine accese la sua torcia
d’argento,
uscì dalla foresta e schiarì cielo e
terra.
Ora i due, che la tenebra ha scoperto
a metà,
dormivano vicini come sposi felici:
stringeva il cielo fra le sue caste
braccia il seno
della terra, splendente dell’argento
lunare.
…Così come la conversazione dei due stagni situati l’uno di fronte all’altro, uno chiaro, ora lamentoso ora stentoreo, l’altro torbido, ora passionale e ora sospiroso.
Alla
fine del massacro fra polacchi e russi, i salici e i pioppi, che prima si
battevano la fronte agitando le braccia come prefiche sulla tomba, ora sembrano
morti, il volto muto e funereo, mentre il turbine trivella il suolo con la
testa e con i piedi getta la sabbia in faccia alle stelle.
Ma ecco che si addensano, i turbini, si spaccano
in due, lottano, vibrano, roteano sibilanti
sugli stagni, ne intorbano le acque
fino al fondo,
irrompono nei prati, fischiano nei
vincheti
e nell’erbe, i salcioli si frangono,
gli sfalci
volano come ciocche di capelli
strappati
frammischiati ai riccioli di paglia;
i venti urlano, piombano sul terreno,
si rotolano, scavano,
estirpano le zolle, aprono il varco a
un terzo
vento che sgorga come un palo di
terra nera,
s’alza, come una mobile piramide
trivella
col capo il suolo e getta coi piedi
sabbia in faccia
alle stelle, man mano si gonfia, si
spalanca
in alto e la sua tromba squilla al
temporale.
Finché in quel caos di acqua,
polverio, paglia, foglie,
rami, erba strappata, i venti si
scagliarono
sul bosco e nel profondo della selva
mugghiarono
come orsi.
E già la pioggia scroscia a fitte gocce
come da un setaccio; i fulmini
ruggiscono
e le gocce si fondono: ora, simili a
corde
tese, in lunga treccia legano terra e
cielo;
ora sbottano in scrosci di acqua a
catinelle.
La notte ha nascosto del tutto cielo
e terra
col temporale, nero più della notte
stessa.
A volte l’orizzonte si fende, e
allora all’angelo
del temporale, a guisa di sole
immenso, il viso
riluce, poi di nuovo lo copre il velo
funebre,
fugge in cielo sbattendo la porta
delle nuvole
con un tuono.
Ora aumentano temporale, acquazzoni
e buio pesto e fitto che quasi lo si
tocca.
Ora la pioggia fruscia più piano, il
tuono cessa
per un po’.
Si ridesta, mugghia e di nuovo
l’acqua
zampilla.
Ora c’è calma, solo intorno alla
villa
gli alberi sussurrano e lo scroscio
bisbiglia.
Fu un bene che quel giorno infuriasse
il temporale:
la burrasca, oscurato il campo di
battaglia,
coprì d’acqua le strade, ruppe i
ponti sul fiume,
fece della tenuta un forte
inaccessibile.
Vi sono poi forme di iperflora che aprono inaspettati spazi semantici, alberi testimoni di antiche gesta leggendarie, o il grembo della selva inaccessibile all’uomo, un regno animale che conserva ancora specie estinte, un po’ arca di Noè, un po’ paradiso dell’Eden, un po’ ossario comune, una fiaba popolare bielorussa trasformata in arguta imitazione delle teorie del Discorso sull’ineguaglianza di Jean-Jacques Rousseau.
La
descrizione lirica della Natura organizza un territorio di riflessione filosofica,
antropomorfismi e metamorfosi auspicano il ritorno di tempi in cui uomo e
natura convivano solidali in un legame che crei il sentimento di una
rigenerazione esistenziale e spirituale, che è poi il senso profondo delle
pagine del poema.
Negli
ultimi due libri, fra pietanze arcaiche, lussureggianti trionfi da tavola e
concerti magistrali, assistiamo all’apoteosi dell’armonia nella ritrovata
riconciliazione dei dissidi in un rassemblement
socio-patriottico, alla fusione gioiosa del vecchio mondo con il nuovo e dei
ceti fra di loro, ebrei e contadini compresi, all’euforia dell’illusoria
imminente liberazione della patria.
Ma
non sfuggono all’attenzione gli ultimi due versi del poema:
Lì c’ero
anch’io, bevevo idromele e vino,
e ciò che ho visto e udito
l’ho messo in questo libro.
Il primo verso costituiva la tradizionale formula di lieto fine, di trionfo del bene sul male, che concludeva le fiabe russe, formula successivamente adottata anche dal romanziere Józef Ignacy Kraszewski in vari testi, compresa la popolarissima Stara baśń (Una vecchia fiaba), dedicata alla storia favolosa della Polonia delle origini. Affinché l’amore e la speranza possano trionfare, Mickiewicz, testimone delle disfatte successive all’epoca in cui ambientò Messer Taddeo, deve ricorrere alla favola.
Senza
dimenticare che nell’ambito della cultura romantica ispirata al folclore la
fiaba, più che rispondere all’immaginario di un’infanzia serena e idilliaca, si
avvicinava al mito e alle sue verità universali, diventando quindi anch’essa
una rivelazione.
L’Epilogo
avrebbe dovuto riportare il lettore nella crudezza della contemporaneità.
Nessun commento:
Posta un commento