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& l'Ecologia della libertà (10/12)
Quei
bilanci di chiusura, buoni per guardare serenamente a una umanità tutta unita e
pacificata lasciandosi alle spalle barriere identitarie e rancori
nazionalistici, cozzavano sempre più con una esplosione incontrollabile di
etnie, religioni e tradizionalismi chiusi, intolleranti e arcigni verso chi
bussava alla porta del ricco Occidente.
Un fatto è
certo: siamo davanti a un mutamento profondo.
Cambiano le
generazioni e i figli assomigliano ai loro tempi più che ai loro padri, come
scrisse Marc Bloch. La prospettiva delle nuove generazioni si è fatta diversa
da quella dei loro padri, il mondo umano è cambiato, gli spazi e i tempi nuovi
sono diversi dagli antichi, quelle che sembravano conquiste ferme e
indiscutibili devono di nuovo sottoporsi alla prova della nuova configurazione
del mondo. E chi profetizzava la fine della storia è stato presto disingannato.
Quello che invece si è fatto sempre più evidente è un processo che potremmo
definire di distruzione del passato.
La definizione non ci appartiene.
È stato
Eric Hobsbawm nel suo celebre Secolo breve a individuare questo fenomeno con
parole degne di attenta lettura:
La distruzione del passato, o meglio la
distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei
contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici
e insieme più brutali degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei
giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente,
nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui
essi vivono.
Da quando
sono state scritte queste parole il fenomeno si è fatto sempre più evidente,
tanto da suscitare diversi allarmi dando vita a diagnosi di vario genere.
Oggi si va dicendo che una nuova malattia sociale incomberebbe su di noi: quella della Memoria. Inevitabile pensare per analogia alla patologia individuale dell’Alzheimer. Ma mentre questa suscita angoscia al solo evocarla, l’offuscarsi della coscienza e della conoscenza storica nella società sembra passare quasi inavvertito.
Eppure è un
fenomeno diffuso in molti ambienti e in diverse fasce sociali, minaccia
specialmente le nuove generazioni e il mondo della scuola e devasta quello
della politica. La cosa non riguarda solo l’Italia: affligge anche altri Paesi
di un’Europa formalmente unita eppure resa da questa malattia sempre più
fragile e spesso irriconoscibile.
È l’Europa in primo luogo colei che appare oggi nel mondo come smarrita e dimentica della sua grande eredità culturale. Da molti anni la delusione per la costruzione europea nasce soprattutto davanti alla perdita di Memoria di una grande realtà risorta dalle macerie e dalle ceneri di milioni di vittime col proposito di restaurare il ricordo e il rispetto dei suoi valori ideali ma che sembra tornare sempre più indietro: tanto indietro da scambiare per valori europei quelli finanziari di borse e banche….
C’è voluto il ritorno del flagello biblico del Covid-19 o altrimenti detto coronavirus perché voci isolate richiamassero alla consapevolezza dell’esistenza di valori superiori a quelli della finanza e della produzione di ricchezza: per esempio, quello della tutela della semplice e nuda vita umana, la si ritenga dono divino o frutto del caso.
Oggi la
minaccia di una pandemia globale costringe credenti e no, cultori del Vangelo o
dei valori illuministici, a incontrarsi e riconoscersi d’accordo sulla vera
scala dei valori.
Ma intanto
bisogna fermarsi a riflettere sul problema della perdita del senso della Storia
e del generale declino di questa dimensione, negli studi e nella società. È da
tempo che i sociologi mandano segnali d’allarme e parlano di perdita di Memoria
collettiva e di ignoranza della nostra storia recente e delle sue tragedie. Ma
è anche da tempo che si moltiplicano segni di allarme davanti a precisi segnali
di una tendenza diffusa, con ripetute quanto vane denunzie delle responsabilità
delle classi dirigenti e dei poteri pubblici.
Il fenomeno è aggravato dalla poca cura dedicata (alla Natura e con essa) alle biblioteche, archivi e musei, considerati enti inutili e non redditizi, colpiti da continue riduzioni di personale, mezzi e strumenti. Ed è rimasta inascoltata la voce di un grande storico e combattente per la libertà come Franco Venturi che nel lontano 1968 scriveva queste parole:
L’Italia è […] uno dei paesi in cui è più
difficile e faticoso giungere a contatto con i testi e i documenti […] Siamo
l’unico paese civile a non possedere una biblioteca nazionale, una biblioteca,
intendo, in cui ci si possa ragionevolmente attendere di trovare qualsiasi
libro e foglio apparso in ogni angolo del proprio paese, dall’invenzione della
stampa ad oggi.
La questione della Memoria difettosa o deformata rende di nuovo attuali le esperienze e i suggerimenti ereditati da culture diverse o più antiche, facendoci scoprire quanto delicata e preziosa sia sempre stata considerata questa facoltà della nostra specie, che essendo priva dell’istinto ereditato dalle altre specie viventi ha dovuto inventare tecniche apposite per rimediare.
Così si è
riaccesa la curiosità per le arti della memoria, nel tentativo di capire che
cosa le abbia fatte ritenere importanti nel passato della grande tradizione
occidentale.
La loro caratteristica fondamentale era quella di connettere parole e immagini. Oggi quella più sviluppata e che ci è più familiare nella vita quotidiana sembra essere la connessione tra luoghi e memoria: a lei hanno dedicato la loro attenzione antropologi come Mary Douglas e Pierre Bourdieu.
Ma c’è una
soglia fondamentale che divide il mondo moderno dall’età preindustriale. Come
ha ricordato Paul Connerton rifacendosi a Karl Marx,
il mondo moderno è il prodotto di un gigantesco
processo di lavoro e la prima cosa che viene dimenticata è proprio questo
processo.
Questo
perché il modo di produzione capitalista ha reificato il tempo del lavoro
incorporato nel prodotto trasformandolo nel ‘feticcio della merce’. E il
processo di cancellazione della Memoria del lavoro e dei luoghi e delle storie
di chi vi è impiegato è diventato travolgente con l’avvento della
finanziarizzazione dell’economia capitalistica e col trionfo del neoliberismo.
[Prosegue nel Capitolo completo]
(A. Prosperi, un tempo senza Storia)
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