giuliano

domenica 28 marzo 2021

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L’inizio del secolo aveva visto l’emergere di un’arte intensamente sociale e messianica (il futurismo, l’espressionismo, il Bauhaus, per citare solo i più famosi) che era spiccatamente tecnologica, sia per ciò che esaltava sia nel suo sprezzante distacco dalle più pacate, riflessive e organiche tradizioni di tipo artigianale. L’influenza che, a quel tempo, la tecnica aveva sull’immaginario sociale era più feticista che razionale.

 

Perfino la prima guerra mondiale, durante la quale si fece un uso massiccio di nuove invenzioni tecnologiche per ammazzare milioni di persone, non intacca questo mito della tecnologia. Solo dopo la seconda guerra mondiale, con tutte le sue spaventose conseguenze, cominciano ad apparire nell’opinione pubblica i primi raggelanti dubbi sulla saggezza dell’innovazione tecnica.

 

Probabilmente, le armi nucleari, più di qualsiasi altro fattore, hanno contribuito a creare questa diffusa paura verso la tecnologia impazzita. Ma è solo con gli anni Sessanta che comincia a emergere uno spiccato orientamento anti-tecnologico, che si è evoluto nel complesso confronto tra le tecnologie pesanti (quelle dei combustibili fossili e nucleari, dell’agricoltura industrializzata e delle materie sintetiche) e le cosiddette tecnologie leggere o appropriate (quelle basate sull’energia solare, eolica e idrica, sulla coltivazione biologica e sull’industria di tipo artigianale, a misura umana).




Palesemente, ciò che oggi rende sempre più attraente la tecnologia appropriata non sono, in positivo, le sue promesse e le sue realizzazioni, ma piuttosto, in negativo, la crescente paura di starci irreparabilmente compromettendo con il distruttivo sistema della produzione di massa e dell’inquinamento ambientale.

 

 Gli artisti-messia della società tecnocratica sono scomparsi.

 

L’umanità sembra ora rendersi conto di essere stata irretita dalla tecnologia, di essere più una sua vittima che una sua beneficiaria. Se la prima metà del ventesimo secolo ha visto affermarsi l’alta tecnologia, la tecnologia pesante, come forma d’arte popolare (grazie al fatto che la grande maggioranza della popolazione del mondo industrializzato viveva ancora in piccole comunità, con una strumentazione tecnica quasi antiquata), la fine del secolo ha invece visto affermarsi la tecnologia appropriata come forma d’arte popolare (grazie al fatto che l’alta tecnologia ha rinchiuso in una gabbia dorata milioni di persone che ora si ammassano nelle metropoli e nelle autostrade del mondo occidentale).

 

Il cupo fatalismo che sta lentamente permeando l’atteggiamento degli occidentali nei confronti della tecnica deriva in larga parte dalla loro ambivalenza verso l’innovazione tecnologica. Alla mente moderna è stato insegnato a identificare la sofisticazione tecnica con il vivere bene e con una tendenza socialmente progressiva che culmina nella libertà umana. Ma nessuna di queste immagini è stata convenientemente chiarita, quanto meno non in una prospettiva storica.




Oggi, la grandissima maggioranza delle persone identifica il vivere bene (un termine che risale ad Aristotele) con la sicurezza materiale, se non addirittura con la vita opulenta.

 

Per quanto logica questa conclusione possa apparire ai nostri giorni, essa contrasta fortemente con le sue origini elleniche. La classica distinzione aristotelica tra il vivere soltanto (una vita in cui la gente è insensatamente spinta a un’acquisizione illimitata di ricchezze) e il vivere bene, cioè entro limiti dati, compendia il concetto di vita ideale dell’antichità classica (al di là del fatto che poi venisse effettivamente applicato).

 

Il vivere bene implica una vita etica in cui ognuno si preoccupa non solo del benessere della propria famiglia e dei propri amici, ma anche della polis e delle sue istituzioni sociali. Vivere bene, accettando limiti, voleva dire cercare di raggiungere l’equilibrio e l’auto-sufficienza, una vita piena e controllata. Ma l’auto-sufficienza, che per Aristotele sembra comprendere questa costellazione concettuale di ideali, non significa ciò che è auto-sufficiente per un uomo solo, per un uomo che vive una vita solitaria, ma anche per i suoi genitori, per i suoi figli, per sua moglie e, più in generale, per i suoi amici e concittadini, giacché l’uomo è nato per la vita civica.




La dicotomia tra l’immagine moderna di una vita materialmente opulenta e l’ideale classico di una vita che si auto-pone dei limiti corre parallela alla dicotomia tra il concetto moderno e il concetto classico di tecnica.

 

Per la mente moderna, la tecnica è semplicemente l’insieme di materie prime, di strumenti, di macchine e di congegni necessari a produrre un oggetto utilizzabile. Il giudizio ultimo sul valore e sulla desiderabilità di una tecnica è di tipo operativo: si basa sull’efficienza, sulle competenze e sul costo. In realtà, il costo riassume in sé quasi tutti i fattori che comprovano la validità di un risultato tecnico.

 

Al contrario, per la mente classica, la tecnica (o techné) aveva un significato molto più ampio. Esisteva in un contesto sociale ed etico nel quale, rifacendosi ai termini aristotelici, ci si chiedeva non solo come venisse prodotto un valore d’uso, ma anche perché. Dal procedimento al prodotto, la techné forniva sia il quadro di riferimento generale sia l’illuminazione etica dalla quale derivare un giudizio metafisico sul come e sul perché dell’attività tecnologica.

 

All’interno di questo quadro di riferimento etico, razionale e sociale, Aristotele distingueva tra i maestri artigiani di ogni mestiere, i più degni di rispetto, che conoscono in un senso più vero e sono più saggi dei lavoratori manuali e i loro subordinati, strettamente operativi, che agiscono senza sapere ciò che fanno, proprio come il fuoco brucia.




 I maestri artigiani, al contrario, agiscono con una lucidità e una responsabilità etica che rendono razionale il loro mestiere. La techné, oltretutto, copriva uno spettro di esperienze più ampio di quello coperto oggi dalla parola tecnica. Come spiega Aristotele nell’Etica nicomachea:

 

Ogni arte (techné) concerne il porre in essere, vale a dire l’inventare e il riflettere sul come possa essere posto in essere qualcosa che può essere o non essere, e le cui origini sono in chi produce e non nella cosa prodotta.

 

 Egli distingue il manufatto, comprese le opere artistiche come i capolavori architettonici e le sculture, dai fenomeni naturali che hanno origine in se stessi. Di conseguenza, la techné è la condizione del fare, che implica un vero e proprio procedimento razionale. È potenza, un tratto essenziale che la techné condivide con il bene etico.

 

Tutte le arti, cioè le forme produttive di conoscenza, sono potenze; esse infatti determinano la trasformazione in un altro oggetto o nello stesso artista considerato come altro.

 

Osservazioni etiche e metafisiche di così vasta portata indicano quanto sia diversa l’immagine classica di techné dalla moderna immagine di tecnica.

 

Il fine della techné non è ristretto al solo vivere bene, cioè al vivere nel limite, esso include una vita etica basata su un principio creativo e ordinativo concepito come potenza.




Vista anche in senso strumentale, la techné comprende non solo le materie prime, gli strumenti, le macchine e i prodotti, ma anche il produttore; in breve, un soggetto altamente sofisticato dal quale si origina tutto il resto. Per Aristotele, il maestro artigiano si distingue soggettivamente dai suoi assistenti e dai suoi apprendisti in virtù dell’onore, del senso del perché i prodotti vengono creati e, più in generale, per la sua conoscenza delle cose e dei fenomeni. Partendo dalla razionalità del soggetto Aristotele stabilisce anche un punto di partenza per introdurre la razionalità nella produzione dell’oggetto.

 

La produzione industriale moderna funziona esattamente nel senso inverso.

 

Non solo l’immagine moderna di techné è limitata alla mera tecnica, nel senso strumentale del termine, ma oltretutto i suoi fini sono inestricabilmente legati con la produzione illimitata. Lo stesso vivere bene è concepito come consumo illimitato all’interno di un quadro di riferimento contrassegnato solo dall’interesse privato. La tecnica, inoltre, non comprende il produttore e i suoi criteri etici (i proletari, dopotutto, servono in completo anonimato il moderno apparato industriale), bensì il prodotto e le sue componenti.

 

L’epicentro della tecnica si sposta dal soggetto all’oggetto, dal produttore al prodotto, dal creatore al creato. L’onore, il senso del perché e la più generale conoscenza delle cose e dei fenomeni non hanno più posto nel mondo voluto dall’industria moderna. Ciò che conta realmente nella tecnica sono l’efficienza, la quantità e un’intensificazione del processo lavorativo. Il tipo di razionalità speciosa utilizzata nella produzione dell’oggetto viene abilmente introdotto nella razionalizzazione del soggetto, al punto che la soggettività del produttore è totalmente atrofizzata e ridotta a oggetto tra oggetti.




In effetti, l’oggettivazione della soggettività è la conditio sine qua non per la produzione di massa. Non appena un pensiero o una parola diventano uno strumento, si può fare a meno di ‘pensarli’, cioè di compiere gli atti logici impliciti nella formulazione verbale di essi osserva Horkheimer, e aggiunge: Come spesso e giustamente si è fatto notare, il vantaggio della matematica – modello di tutto il pensiero neo-positivista – sta proprio in questa economia intellettuale.

 

Complicate operazioni logiche vengono eseguite senza ripercorrere le operazioni intellettuali su cui si fondano i simboli logici e matematici. Una meccanizzazione del genere è certamente essenziale all’espansione industriale; ma se investe tutti i processi intellettuali, se la ragione stessa è ridotta alla funzione di strumento, essa assume una sorta di materialità e di cecità, diventa un feticcio, un’entità magica accettata più che intellettualmente sperimentata.

 

Le osservazioni di Horkheimer, pur se apparentemente si riferiscono all’impatto avuto da una nuova tecnica su una soggettività tradizionale in declino, potrebbero essere altrettanto facilmente lette come una descrizione degli effetti prodotti dall’impatto di una nuova soggettività su una tecnica tradizionale in declino, con ciò non intendo sostenere che la tecnica derivata da questa soggettività non l’abbia a sua volta rinforzata; ma se leggo correttamente i fatti della storia, è lecito affermare che già molto tempo prima che la produzione di massa facesse la sua comparsa, si era ampiamente verificata la disintegrazione della vita comunitaria e si erano formate le prime masse sradicate, atomizzate e spodestate, precorritrici del moderno proletariato.




Questo sviluppo procede parallelo al formarsi di una nuova raffigurazione del mondo evocata dalla scienza: un mondo fisico senza vita, composto di materia e di moto, che precede le imprese tecniche della rivoluzione industriale.

 

La tecnica non esiste nel vuoto e non ha vita autonoma.

 

Il pensiero ellenico, che aveva giustamente unificato arte e mestiere sotto la voce techné, aveva altresì legato entrambi al sistema di valori e alle istituzioni della società. Secondo questa impostazione, la sensibilità, le relazioni sociali e le strutture politiche sono componenti essenziali della tecnica tanto quanto le intenzioni materiali del produttore e i bisogni materiali della società. In effetti, la techné veniva concepita in modo olistico, nel senso che noi oggi usiamo per descrivere un ecosistema.

 

Le competenze, i congegni e le materie prime erano in varia misura collegati a quell’insieme razionale, etico e istituzionale su cui si basa la società, costituendo un tutt’uno integrato. Se oggi quegli aspetti extra-tecnici come la razionalità, l’etica e le istituzioni sociali appaiono sterili e più inorganici di quelli di un tempo, è perché la tecnologia, nel senso moderno del termine, è essa stessa più inorganica. E non già perché la tecnica moderna oggi determini il sovratecnico, ma piuttosto perché la società si è spinta verso l’inorganico per quanto concerne il proprio tessuto sociale e le proprie forme strutturali.




 Oggi si rivela necessaria un’immagine più chiara di ciò che si intende per tecnica: dei problemi di sensibilità che solleva, delle funzioni che assolve e, naturalmente, dei pericoli e delle promesse latenti nell’innovazione tecnica. Limitare la discussione ai soli progressi nelle competenze, nella strumentazione e nella scoperta di materie prime vuol dire accettare un approccio molto superficiale al problema. Se non si esaminano i cambiamenti verificatisi nella società, che l’hanno in diversa misura aperta o chiusa all’innovazione tecnica, troveremo grosse difficoltà a spiegare perché quel vasto insieme di conoscenze tecniche di recente scoperta non sia riuscito a influenzare le interrelazioni sociali, pur essendo apparentemente riuscito a determinare la loro forma in un altro luogo e in un altro tempo.

 

Affermare che una data società era pronta per la bussola, per la stampa a caratteri mobili o per la macchina a vapore mentre un’altra non lo era, vuol palesemente dire che non si tiene conto dei rapporti che intercorrono tra società e tecnologia.

 

(M. Bookchin; Ecologia e Libertà)









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