giuliano

giovedì 28 settembre 2023

GIUSEPPE TUCCI (16)

 









Precedenti capitoli: 


Giuseppe Tucci  (15/1)  


Prosegue con la: 


corsa alla vetta  (17)







I monaci sono lieti di concedere questa ospitalità, che non solo è opera umana e caritatevole, ma frutta ad essi ed al convento non dispregevoli prebende. Ché anche qui i Lama sono avidi di danaro e bramosi di mercatare. Ecco perché i monasteri sono quasi deserti: i monaci sono scesi nelle fiere a vendere, barattare, fare affari, impartire benedizioni e strologare.

 

Del monastero di Ciocu, piantato su una rupe che si sbriciola in sassi e macigni precipitanti in una immane rovina sul fiume, non conosco vicende particolari; per lo meno se n’è perduta ogni memoria. Ma in quelli di Tindipu e Zuprul vissero niente meno che Cozampa e Milarepa, due dei più celebri asceti della tradizione mistica ed iniziatica del Tibet. Il secondo, non solo grande santo, ma anche sommo poeta, la cui biografia, scritta da uno dei suoi immediati discepoli, può senza dubbio considerarsi come uno dei capolavori letterari dell’Oriente.




Da Ciocu e da Tintipu, il Kailasa appare in tutta la sua gloria; sopra una muraglia gialla come oro, tutta a grandi strati paralleli tagliati a intervalli irregolari da forre gigantesche che disegnano ombre strane e salgono tortuose e frastagliate, s’erge la guglia nevosa, su cui le frequenti valanghe solcano striature profonde come strade che scendano dal cielo. Il silenzio dei luoghi è solo interrotto dal rombo delle superbe cascate che precipitano a valle dalla sommità di dirupi che, a vederli dal basso, danno quasi la vertigine, tanto sono ardui e a perpendicolo.




Per la pista, tutta borri e sassi, che passa e ripassa da una riva all’altra del fiume, sale e scende la folla dei pellegrini: persone di tutte le età, di tutte le fedi e di ogni parte del mondo buddistico e indù. Vanno salmodiando, recitando preghiere, invocando i loro Dei, genuflettendosi ad ogni sasso su cui siano incisi simboli sacri, snocciolando i grani del rosario e facendo girare vertiginosamente il ‘mulino delle preghiere’, quel comodo strumento che i Tibetani hanno inventato per poter innalzare al cielo la loro preghiera tenendo la mente intenta in altri pensieri.




Ci sono ricchi mercanti di Lasa e alti funzionari arrivati con le loro carovane cariche di té, che nel Tibet è monopolio di Stato e viene distribuito nelle varie province da appositi funzionari che ci lo vendono a prezzi stabiliti mendicanti che ostentano tutte le malattie e arrampicano rantolando, nella speranza di ritornare guariti o di esalare l’estremo respiro, su queste rocce; sadhu indiani, che marciano silenziosi, seguiti da gruppi di fedeli che cantano in coro inni a Sciva.

 

La pista sale su un costone che raggiunge 5800 metri e che, dal nome della Dea della salvazione cui è consacrato, è conosciuto come il Dolmala (Passo di Dolma). Su mucchi di sassi accatastati i pellegrini hanno piantato dei pali, hanno steso sulla cima una corda, e sulla corda hanno appeso banderuole di stoffa colorata, sulla quale sono stampate, con inchiostri neri o rossi, formule e preghiere.




Il vento le agita, e chi ha appeso quelle bandetuole alla corda è come se recitasse le preghiere ad ogni soffio d’aria che spira. L’ascesa di questa strada aspra e lunga è anch’essa un simbolo: simbolo della disciplina della vita, che prepara le beatitudini del Nirvana. I più la compiono con animo raccolto e meditante: essi proiettano quasi, in questo breve spazio di tempo, il loro soffrire terreno, e arrivati alla sommità del Passo si concentrano immobili, anticipando le estasi delle supreme beatitudini.

 

Nello spirito di questa gente, in cui profondo è il senso religioso e connaturato il ragionare per simboli, nell’ascesa della montagna sacra si ripete quasi il dramma della vita. E solo quando il passo di Dolma sia raggiunto con questa fede, la fatica dell’ascesa diventa purificazione dell’anima. Ma nella turba dei pellegrini, che ogni giorno qui passa, pochi sono quelli nei quali le tradizioni spirituali dell’antica religiosità indo-tibetana sopravvivono ancora nella loro primitiva purezza.




Luoghi sacri in deplorevole abbandono, dopo il passo, si scende sulle rive di un breve laghetto ghiacciato: quasi diamante incastrato in un cerchio di ferro, ché nera è la roccia, emergente a spuntoni e guglie e piramidi intorno alle acque gelate.

 

Secondo i Tibetani, questa è porta di un palazzo sotterraneo in cui albergano fate e deità esoteriche; secondo gli indù, il lago è consacrato a Parvati, la sposa di Sciva. Altre soste ed altre genuflessioni per le colonne dei pellegrini: i più devoti fendono la crosta ghiacciata e si tuffano nelle acque freddissime. Poi si scende al terzo dei monasteri, quello di Zuprul: il nome significa ‘il miracolo’ e ricorda che in questo luogo Milarepa fece contesa di magia con i maestri bonpo e li vinse con i suoi poteri taumaturgici.




Da allora il lamaismo prese definitivo possesso di questa contrada. Luogo, dunque, celebre nelle tradizioni del Tibet, eppure caduto in miserevole abbandono. Povero e maltenuto è il monastero ci vivono appena due o tre monaci, i quali sono ben lontani da quelle perfezioni morali e mistiche che aveva raggiunto il taumaturgo, di cui ai pellegrini attoniti essi recitano oggi con monotonia e indifferenza un breve sunto biografico, mostrando certi segni sulla roccia come impronte del santo, e chiedendo alla fine, con petulanza, obolo e offerte. Nessuno di loro sa più leggere e scrivere, e ancor meno intendere la nobiltà e la profondità di vita del loro grande maestro.

 

Alle falde del Kailasa, a sud est, c’è un altro monastero, il più grande di tutti. Si chiama Gyantrag, e per arrivarvi bisogna ritornare a Darchin, risalire una forra per un sentiero difficile, che d’un tratto sbuca su una valle larga, tutta cinta all’intorno da dirupi ferrigni coperti sulla cima da nevi perenni. In mezzo alla valle, sopra un colle isolato, il monastero innalza la sua mole superba, quasi a continuare lo slancio del terreno.

 

Tutto intorno, silenzio e solitudine.




Ci siamo arrivati in un giorno di tempesta, tutto era grigio e triste: il nostro mondo lontano come un sogno. Ai piedi del monastero, tombe di asceti che vennero qui a meditare e a trapassare nell’indiscriminato fondo delle cose.

 

Il convento ha una grande storia: nell’interno delle cappelle, vicino a statue e a pitture religiose, troviamo appese corazze e spade, prese forse a predoni uccisi dai monaci soldati nella difesa dei loro templi. Sebbene così pietoso sia il decadimento spirituale delle sette religiose che hanno ereditato la custodia di questi templi, i luoghi, e per la solitudine e per la bellezza alpestre, e soprattutto per le memorie dei santi che vi abitarono, esercitano sul visitatore un fascino, che anche quando se n’è lontani non si può cancellare.




Folle infinite di devoti, che dalla notte dei tempi  passano per pregare, per implorare e per morire, hanno circondato queste rocce così superbe e gloriose di un’aura sacra che ogni spirito religioso non può non sentire. In luoghi come questi, io pensavo come grande e vero è il detto di Ramakrishna:

 

‘inginocchiati dove gli altri si inginocchiano perché Dio è presente dove tanti hanno pregato’.

 

Durante questo pellegrinaggio, che è durato parecchi giorni, ho avuto l’occasione di incontrare molti rappresentanti delle scuole mistiche dell’India e del Tibet; e sebbene questa gente sia per natura restia a parlare di se medesima o della sua fede, conoscendo a fondo le loro dottrine e le loro lingue, e soprattutto la loro psicologia, ho potuto stringere amicizia con molti di questi asceti che quassù traggono a meditare e a pregare. Evidentemente non è questo il luogo di entrare in particolari che interessano specialmente lo studioso di storia delle religioni e delle esperienze mistiche, ma posso francamente dire che, se uno vuole vedere come le teorie ascetiche e yoga dell’Oriente si inverino ancora specialmente e straordinariamente dotate, deve venire in queste solitudini.




Così, con una quotidiana convivenza con alcuni dei più celebri custodi dell’antica sapienza indiana e tibetana, si è conclusa la prima parte del mio nuovo viaggio nei deserti dell’altopiano dell’Himalaya, oltre la grande barriera che, con i suoi ghiacci e le sue cime immacolate, separa l’India dal tetto del mondo.

 

Poi, salutati con un addio che, confesso, mi fu grave al cuore, il lago di turchese e la montagna di Sciva, ripresi il mio cammino attraverso i deserti del Tibet Occidentale, deserti che un giorno interrompevano grandi oasi di cultura ed ora intristiscono nel silenzio e nell’abbandono. Ché, quanto non è roccia arida, son rovine e grotte trogloditiche disabitate, e templi abbattuti, e castella diroccate: un soffio sterminatore si è abbattuto dove un giorno ferveva la vita. Rovine dopo rovine ho pazientemente esplorato, cappelle dopo cappelle ho visitato, e col prezioso concorso del mio compagno, il capitano Ghersi, ho conservato nel ricordo fotografico le opere d’arte, specialmente pittoriche, che ancora restano di tanta gloria.




Ed è così che presso i dirupi argillosi che fanno da sponda al torbido fiume Mangnan la Missione italiana poteva scoprire in un tempio quasi abbandonato pitture ed affreschi dell’undicesimo secolo, che aprono nuovi capitoli nello studio dell’arte indiana: quella superba meraviglia che sono le grotte di Ajanta, nelle quali artisti sconosciuti hanno consegnato in affreschi ammirevoli la loro abilità e la loro pietà insieme, non è più sola: seguaci di quelle scuole vennero sul pianoro tibetano, oltre le aspre giogaie himalayane e, favoriti dall’ardore religioso dei Re di Guge, trapiantarono e continuarono sul tetto del mondo le tradizioni più gloriose delle scuole indiane.

 

Giacquero colà inavvertite per secoli stanno ora per sparire; ma prima che l’ingiuria del tempo e l’abbandono degli uomini ne cancellino le ultime tracce, una Missione scientifica italiana ha avuto la ventura di fotografarle e di rivelarle al mondo degli studiosi.









 

Nessun commento:

Posta un commento