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dal 'Bar' al... [5]
Prosegue con un
C’è forse monotonia, ma c’è anche l’interesse di
un’individualità ben marcata in quell’immenso tratto di paese che comprende
tutta l’Asia centrale, e si estende nell’Europa meridionale, e che forma la
regione delle steppe. All’osservatore superficiale può sembrare cosa facile
caratterizzare queste steppe, ma la difficoltà del compito viene presto
avvertita dall’osservatore attento. Infatti le steppe non sono così
invariabilmente uniformi, così assolutamente immutabili come di solito si suppone.
Hanno il loro tempo di fioritura e il loro tempo di appassimento, il loro
aspetto estivo e quello invernale, e una certa varietà in ogni stagione è
implicita nel fatto che ci sono montagne e valli, ruscelli e fiumi, laghi e
paludi. La monotonia è in realtà dovuta alla ripetizione mille volte della
stessa immagine, ciò che piaceva e addirittura affascinava quando la prima
volta veniva addomesticata dalla familiarità quotidiana.
La vegetazione delle steppe è molto più ricca di specie di quanto si creda abitualmente, molto più ricca di quanto io, non essendo un botanico, possa calcolare. Sul terreno nero l’erba tschi, la tirsa e in alcuni luoghi le spirae soffocano quasi tutte le altre piante; ma negli spazi tra questi, e su un terreno più magro, spuntano ogni sorta di allegri fiori. Anche negli avvallamenti la vegetazione diventa gradualmente quella palustre, e canne e giunchi, che qui predominano, lasciano abbondante spazio allo sviluppo di una vegetazione varia. Ma nelle steppe il tempo della fioritura è breve, e lungo è il tempo dell’appassimento e della morte.
Forse non è eccessivo affermare che in nessun
luogo i contrasti delle stagioni sono più vividi che nelle steppe. La ricchezza
dei fiori luminosi e la sterilità del deserto, il fascino dell’autunno e la
desolazione dell’inverno si susseguono; le forze dirompenti sono forti quanto
quelle ricreatrici, il calore del sole distrugge con la stessa sicurezza del
freddo. Ma ciò che è stato colpito dal caldo e spazzato via dalle furiose
tempeste, viene sostituito nei primi raggi di sole primaverili; e neppure il
fuoco divorante è abbastanza potente da distruggere del tutto ciò che è stato
risparmiato dal sole e dalle tempeste. La primavera può sembrare più potente
nelle terre tropicali, ma in nessun luogo è più meravigliosa che nelle steppe,
dove con la sua potenza si oppone, da sola, all’estate, all’autunno e
all’inverno.
Le steppe sono ancora verdi quando l’estate le invade, ma il loro massimo splendore è già arrivato. Solo poche piante devono ancora raggiungere la maturità, e appassiscono nei primi giorni di caldo ardente; presto l’allegro abito della primavera viene scambiato con uno grigio e giallo. La tirsa verde e succosa resiste ancora alla siccità; ma le sue barbe fini, fluenti e folte hanno già raggiunto la piena crescita e ondeggiano nella brezza più gentile, gettando un velo argentato sul verde sottostante. Ancora pochi giorni e foglie e reste saranno secche come l’erba tschi già ingiallita, che in primavera appare come il mais in germoglio, e ora è come quella che attende la falce.
Le larghe foglie del rabarbaro giacciono secche al
suolo, la spiraea è secca, il pisello Caragan è senza foglie, il caprifoglio e il mandorlo nano mostrano
tinte autunnali; le cime dei cardi
sono canute; solo l’assenzio e l’artemisia
conservano inalterate le foglie grigioverdi. Il sole splendente e ininterrotto
picchia sulla terra assetata, perché è raro che le nuvole si raccolgano in
manti di lana nel cielo, e anche se occasionalmente sono pesanti di pioggia, l’acquazzone
è scarso abbastanza da depositare la polvere vorticosa che ogni respiro di
alzate di vento. Gli animali sono ancora nei loro quartieri estivi, ma i canti
degli uccelli sono già sommessi.
Prima che finisca l’estate, le steppe hanno rivestito la loro veste autunnale, un grigio-giallo variamente sfumato, ma senza varietà e senza fascino. Tutte le fragili piante vengono gettate a terra dalla prima tempesta, e l’esplosione successiva le disperde in una danza vorticosa sulle steppe. Aggrappati l’uno all’altro con rami e ramoscelli, si arrotolano insieme in palline, saltando e saltando come spettri davanti al vento impetuoso, seminascosti in nuvole di polvere fluttuante con cui sembrano essere i branchi scuri o carichi di neve nel cielo sopra. correre una gara. Gli uccelli terrestri estivi hanno già da tempo volato verso sud; gli uccelli acquatici, che sono numerosi su ogni lago, si preparano al volo; i mammiferi migratori si spostano in truppe affollate da una promessa di cibo all’altra; i dormienti invernali hanno chiuso le porte dei loro ritiri; rettili e insetti si sono ritirati nei loro nascondigli invernali.
Il gelo di una sola notte copre tutti i bacini d’acqua
di ghiaccio sottile, ancora qualche giorno di freddo e le catene dell’inverno
gravano pesantemente sui laghi e sugli stagni, e solo i fiumi ed i torrenti,
più capaci di resistere al gelo, offrono un riparo breve e prolungato agli
uccelli migratori che hanno ancora ritardato il loro addio.
I dolci venti da nord-ovest spazzano nuvole scure attraverso la terra e la neve cade a piccoli fiocchi. Le montagne hanno già gettato i loro manti nevosi, ed ora la pianura delle steppe si veste della sua veste bianca.
Il lupo, temendo le tempeste,
abbandona i canneti e gli arbusti di spirea che finora gli erano serviti bene
come nascondigli, e sgattaiola affamato attorno ai villaggi e ai quartieri
invernali del pastore nomade, che ora cerca i luoghi più riparati e meno
esausto dei bassifondi, per salvare, per quanto possibile, le sue mandrie dalla
scarsità, dalle difficoltà e dalla miseria dell'inverno. Contro il lupo avido agisce il pastore in modo aggressivo, così come fanno i
coloni e i contadini cosacchi, partono all’inseguimento, seguono la traccia
rivelatrice del ladro fino alla sua tana, lo scaccia e lo insegue. Con grida di
esultanza sprona il cavallo e spaventa il fuggitivo, brandendo con la destra un
forte alberello dalle radici nodose. La neve gira attorno al lupo, al cavallo e al cavaliere; il gelo pungente morde il volto del
cacciatore, ma a lui non importa.
Dopo un inseguimento di un’ora, o al massimo due ore, il lupo, che può aver percorso una dozzina o venti miglia, non può andare oltre e si rivolta contro il suo inseguitore. La sua lingua pende fuori dalla gola, i peli della sua pelle puzzolente, ricoperti di ghiaccio, si rizzano rigidi, nei suoi occhi folli si esprime il terrore della morte. Solo per un momento il nobile cavallo esita, poi, incitato dal grido e dallo knout, si lancia contro il crudele nemico. In alto nell’aria il cacciatore agita la sua mazza fatale, verso il basso questa sibila e il lupo giace ansimante e tremante nella sua agonia mortale.
POI SI E’ ALZATO UN GELIDO VENTO...
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