Precedenti capitoli:
....di Settembre... (13/1)
Prosegue con:
Giuseppe Tucci (15/6)
Quando, alcuni giorni dopo, tornammo a Diri-pu per la seconda volta, vedemmo due giovani lama impegnati nel pellegrinaggio di prostrazione intorno alla montagna, venivano da Kham, e da quella parte del paese ‘dove abitano gli ultimi uomini’, ed erano stati un anno sulla strada per il Kailas. Erano poveri e cenciosi, e non avevano niente da portare, perché vivevano dell’elemosina dei fedeli. Erano arrivati in nove giorni da Tarchen a Diri-pu, e calcolavano di avere ancora undici giorni per finire il loro giro. Li ho accompagnato per mezz’ora a piedi per osservare la loro procedura.
Questa consisteva in sei movimenti. Supponiamo che il giovane lama in piedi sul sentiero con la fronte leggermente abbassata e le braccia penzoloni lungo i fianchi, (1) unisca i palmi delle mani e li sollevi in cima alla testa, piegando allo stesso tempo testa un po’ in basso; (2) posa le mani sotto il mento, alzando di nuovo la testa; (3) si inginocchia a terra, si piega in avanti e si sdraia a terra per tutta la sua lunghezza con le braccia tese; (4) si passa le mani congiunte sopra la testa; (5) allunga la mano destra in avanti fino a che può raggiungere, e graffia un segno nel terreno con un pezzo di osso, che mostra la linea che deve essere toccata con le dita dei piedi al prossimo avanzamento; e (6) si alza con le mani, fa due o tre passi fino alla boa e ripete le stesse azioni.
E così fa il giro di tutta la montagna.
È un lavoro lento e non hanno fretta!
Fanno tutto il pellegrinaggio con compostezza, ma perdono il fiato, soprattutto durante la salita al passo, e scendendo dal Dolma-la ci sono punti così ripidi che deve essere un’impresa ginnica sdraiarsi a testa in giù. Uno dei giovani monaci aveva già compiuto un giro e ora era al secondo. Quando ebbe finito, in dodici giorni, intendeva recarsi in un monastero sullo Tsangpo e rimanervi murato per il resto della sua vita.
E aveva solo vent’anni!
Noi, che nella nostra superiore saggezza sorridiamo a queste esibizioni di fanatismo e di auto-mortificazione, dobbiamo confrontare la nostra fede e le nostre convinzioni con le loro. La vita oltre la tomba è nascosta a tutti i popoli, ma le concezioni religiose l’hanno rivestita di forme differenti tra i diversi popoli. ‘Se guardi da vicino vedrai che la speranza, figlia del cielo, indica ad ogni mortale - con mano tremante - verso le oscure altezze’. Qualunque siano le nostre convinzioni dobbiamo ammirare coloro che, per quanto erronee possano essere le loro opinioni, secondo il nostro limitato giudizio, tuttavia possiedono una fede sufficiente per muovere le montagne.
Saliamo su un crinale con ruscelli che scorrono su entrambi i lati. Su ogni roccia, che ha una cima a tutti i livelli, si accumulano piccole pietre e molti di questi cumuli piramidali sono stipati così strettamente che non c’è spazio per un’altra pietra. Grazie a questi ometti il pellegrino può trovare la sua strada nella tempesta di neve e nella nebbia, anche se senza di loro non potrebbe trovarla facilmente al sole.
Alla fine vediamo davanti a noi un gigantesco masso, il cui contenuto cubico ammonta forse a 7.000 o 10.000 piedi cubi; si erge come un’enorme pietra miliare sulla sella di Dolma-la, che raggiunge l’incredibile altezza di 18.599 piedi. Sulla sommità del blocco, pietre più piccole, sono ammucchiate in una piramide che sostiene un palo, e dalla sua estremità corde decorate con stracci e stelle filanti sono tese ad altri pali fissati nel terreno. Corna e ossa, principalmente scapole di pecora, sono qui depositate in grande quantità: omaggi al passo che dovrebbe segnare la metà del pellegrinaggio. Quando il pellegrino arriva qui, spalma un po’ di burro sul lato della pietra, si strappa una ciocca dei suoi stessi capelli e la incolla nel burro. Così ha offerto parte di sé e dei suoi averi. Di conseguenza la pietra assomiglia a un enorme blocco di parrucca, da cui svolazzano al vento ciocche nere di capelli. Col tempo sarebbe completamente ricoperta di pelo tibetano, se non fosse che le ciocche ogni tanto cadono e vengono portate via dal vento. I denti sono conficcati in tutte le fessure del blocco Dolma, formando interi rosari di denti umani. Se hai un dente cariato, dedicalo agli spiriti del passo. Purtroppo Tsering era sdentato, altrimenti si sarebbe conformato volentieri a questo regolamento.
Mucchi di stracci giacciono tutt’intorno, perché il pellegrino ne ha sempre un brandello di riserva da appendere a un filo o da stendere ai piedi del blocco. Ma non solo dà, ma prende. Il nostro vecchio prese uno straccio dal mucchio e aveva una grande quantità di tali reliquie al collo, perché ne aveva preso uno da ogni tumulo.
La vista è grandiosa, anche se il Kailas stesso non è visibile. Ma si può vedere l’affilata cresta nera che giace abbastanza vicina sul lato sud con un manto di neve e un ghiacciaio pensile, il suo margine blu tagliato perpendicolarmente al laghetto morenico sul lato orientale del passo.
Mentre sedevo ai piedi dell’isolato, facendo osservazioni e disegnando il panorama, un lama si avvicinò passeggiando appoggiandosi al suo bastone. Portava un libro, un tamburo, una dorche e una campana, e allo stesso modo un bambino dall’aspetto malaticcio in un cesto sulla schiena. I genitori, nomadi nella valle sottostante, gli avevano dato tsamba per due giorni per portare il bambino intorno alla montagna, in modo che avrebbe recuperato la sua salute. Molti pellegrini si guadagnano da vivere con tali servizi e alcuni fanno il pellegrinaggio solo a beneficio di altri. Il lama con il bambino si lamentò di aver fatto il giro della montagna solo tre volte e di non possedere abbastanza soldi per fare il giro tredici volte. Gli ho fatto l’elemosina.
Poi si sedette sul passo, girò la faccia nella direzione dove era nascosta la sommità del Kang-rinpoche, unì le mani e cantò un’interminabile successione di preghiere, dopodiché si avvicinò al blocco e posò la fronte a terra, quante volte non so, ma era ancora lì quando scendemmo tra i massi al minuscolo lago rotondo Tso-kavála. Abbiamo seguito la sua sponda settentrionale e il nostro vecchio amico mi ha detto che il ghiaccio non si rompe mai.
Ma il tempo scivola via e dobbiamo affrettarci. Camminiamo, scivoliamo e ci arrampichiamo su ripidi pendii dove sarebbe facile cadere a capofitto. Il vecchio ha il passo sicuro e questi pendii sono vecchie conoscenze. Ma guai a lui se si voltasse e andasse nella direzione opposta. Finalmente raggiungiamo la valle principale, chiamata nella sua parte superiore Tselung, e nella sua parte inferiore Lam-chyker. Attraverso la grande valle, che entra nella valle principale sul lato destro, ed è chiamata Kando-sanglam, guardiamo ora verso est sul pinnacolo più alto della vetta del Kailas, che ha uno spigolo acuto verso nord-est sembra ancor più un cristallo.
Marciamo a sud-ovest e bivacchiamo in cima al monastero Tsumtul-pu. Per tutto il giorno e in tutti i luoghi di riposo, non ho sentito altro che un mormorio infinito delle parole Om mani padme hum, e ora, finché sono sveglio, Om mani padme hum suona nelle mie orecchie da tutti gli angoli.
Il tempio non aveva altra curiosità se non una statua di Duk Ngavang Gyamtso, alta 5 piedi, seduto come a uno scrittoio, due zanne di elefante non molto grandi e un lampadario a cinque bracci di Lhasa. La nostra visita, quindi, non durò a lungo, e ci incamminammo giù per la valle in cui il fiume - a poco a poco - aumentò di dimensioni. Anche qui vengono eretti manis e chhorten, e alla fine della valle, dove si accumulano ancora numerosi massi di granito, vediamo ancora una volta il Langak-tso e il grande gruppo di Gurla.
Con questo pellegrinaggio intorno al monte santo, che avevo potuto compiere per un’inaspettata fortunata occasione, avevo avuto un’idea della vita religiosa dei tibetani. Era stata anche, per così dire, una revisione di tutte le esperienze che avevo già raccolto a questo proposito.
La nostra conoscenza del Tibet è ancora carente e qualche futuro viaggiatore troverà materiale sufficiente per mostrare su una mappa dell’intero mondo lamaistico tutte le grandi vie di pellegrinaggio verso innumerevoli santuari. Su tale mappa numerose strade convergerebbero, come i raggi di una ruota, a da Kuren, il tempio di Maidari a Urga. Ancora più vicini i raggi provenienti da ogni luogo abitato dell’immenso territorio del lamaismo si sarebbero uniti al loro fulcro principale, Lhasa. Un po’ meno densamente si sarebbero uniti a Tashi-lunpo. Innumerevoli strade e sentieri tortuosi partirebbero dai paesi di confine più lontani del Tibet, tutti tendenti verso il sacro Kailas. Sappiamo che esistono e non è necessaria una grande immaginazione per concepire come apparirebbero su una mappa.
Ma è per le rotte dei pellegrini come per il volo delle oche selvatiche: non sappiamo nulla del loro corso preciso.
Inoltre, tra i principali fuochi sono sparsi un certo numero di centri minori da cui i raggi divergono verso un santuario, ove nelle orecchie dei tibetani risuona un altro detto, la formula mistica Om mani padme hum, non solo nelle peregrinazioni verso la meta del suo pellegrinaggio, ma per tutta la vita.
Buddha seduto o in piedi all’interno di un fiore di loto.
È il dio protettore del Tibet e il controllore della metempsicosi.
E non c’è da stupirsi che questa formula sia così popolare e costantemente ripetuta sia dai lama che dai laici, ovunque uno si giri in Tibet, vede incisi o cesellati i sei caratteri sacri e li sente ripetere ovunque. Si trovano in ogni tempio in centinaia di migliaia di copie, anzi, in milioni, perché nei grandi mulini di preghiera sono stampate a lettere fini su carta sottile. Sui tetti dei monasteri, sui tetti delle case private e sulle tende nere, sono incise su svolazzanti festoni. Su tutte le strade attraversiamo quotidianamente ciste di pietra simili a muri ricoperte di lastre, su cui è scolpita la formula Om mani padme hum.
Raramente il sentiero più solitario conduce a un passo dove nessun tumulo è eretto per ricordare al viandante la sua dipendenza per tutta la vita dall’influenza di spiriti buoni e cattivi. E in cima a ogni ‘altare’ del genere è fissato un palo o un bastone con delle bandierine, ognuno che proclama dentro lettere nere la verità eterna.
A rocce sporgenti chhortens o lhatos cubicistare lungo la strada in bianco e rosso. Ai lati delle rocce di granito levigate dal vento e dalle intemperie vengono spesso tagliate figure di Buddha, e sotto di esse, così come sui massi caduti, si leggono in caratteri giganteschi Om mani padme hum. Sui moli tra i quali si estendono ponti a catena sul Tsangpo o su altri fiumi, si accumulano cumuli di pietre, e su tutti questi innumerevoli ometti votivi giacciono teschi di yak e crani di pecore selvatiche e antilopi. Nelle corna e nelle ossa frontali sbiancate dello yak viene tagliata la formula sacra e i caratteri incisi sono riempiti di rosso o di qualche altro colore sacro. Li ritroviamo in innumerevoli esemplari e in molte forme, specialmente sulle strade maestre che portano a templi e luoghi di pellegrinaggio, così come in tutti i luoghi dove c'è pericolo, come sui passi di montagna e sui guadi dei fiumi.
Le parole mistiche risuonavano costantemente nelle mie orecchie. Le ho sentite quando è sorto il sole e quando ho spento la mia luce, e non sono sfuggito loro nemmeno nel deserto, perché i miei stessi uomini hanno mormorato Om mani padme hum. Appartengono al Tibet, queste parole; ne sono inseparabili: non riesco a immaginare le montagne innevate ei laghi blu senza di loro. Sono strettamente legati a questo paese come il ronzio dell’alveare, come lo svolazzare delle stelle filanti con il passo, come l’incessante vento di ponente con i suoi ululanti.
La vita del tibetano dalla culla alla tomba è intrecciata con una moltitudine di precetti e costumi religiosi. È suo dovere contribuire con il suo tributo al mantenimento dei monasteri e all’obolo di Pietro dei templi. Quando passa davanti a un tumulo votivo aggiunge una pietra alla pila come offerta; quando vede un monte santo, non manca mai di posare la fronte per terra in omaggio; in tutte le imprese importanti deve, per amore della sua salvezza eterna, chiedere consiglio ai monaci dotti nella legge; quando un lama mendicante viene alla sua porta, non rifiuta mai di dargli una manciata di tsambao un pezzo di burro; quando fa il giro delle sale del tempio, aggiunge il suo contributo alla raccolta nelle coppe votive; e quando sella il suo cavallo o carica uno yak, canticchia di nuovo l’eterno Om mani padme hum.
Più frequentemente di un’Ave Maria o di un Paternoster nel mondo cattolico, Om mani padme hum accompagna la vita e le peregrinazioni dell’umanità in mezza Asia.
(S. Hedin, primi anni del 900)
Nessun commento:
Posta un commento