Precedenti capitoli:
Di due cani (lungo la strada)
& Il capitolo testamentario completo (3)
Prosegue fra...:
Eretici e ciarlatani (4/5)
‘Ma dove
volete’,
…replicò l’altro,
‘che il mio
capocomico abbia abiti paonazzi per dodici cardinali?’.
‘Ebbene, se
me ne toglie anche uno soltanto’,
…rispose il
poeta,
‘io gli
darò la mia commedia tanto facilmente come potrei mettermi a volare. Corpo di
Bacco! E vorreste mandare in rovina una scena così grandiosa? Immaginate un po’,
di qua, che figura farà in teatro un sommo pontefice con dodici solenni
cardinali e con tutto il seguito che per forza si devon tirar dietro. Giuro al
cielo che sarà uno dei più grandi e solenni spettacoli che mai si sia visto in
una commedia, foss’anche quella del Mazzolino di Daraja!’.
A questo
punto mi persuasi del tutto che il primo era un poeta e il secondo un attore.
L’attore
consigliò al poeta di tagliare un pochino sui suoi cardinali, se non voleva
rendere impossibile al capocomico la rappresentazione del lavoro; al che il
poeta rispose che doveva ringraziarlo se non ci aveva messo dentro tutto il
conclave ch’era riunito durante i memorabili fatti che voleva richiamare alla
memoria della gente nella sua magnifica commedia; il comico rise, e lo lasciò
alle sue occupazioni per andare a fare il mestiere, ch’era quello di studiare una
parte per una nuova commedia.
Il poeta
dopo aver scritto qualche altra strofa del suo capolavoro, con molta
compostezza e molto tono tirò fuori di tasca alcuni tozzi di pane e una ventina
di chicchi d’uva passa, che a quel che mi pare, gli contai a uno a uno, e sono
ancora in dubbio se fossero proprio tanti, perché insieme con essi c’erano, a
far numero, certi bricioline di pane che li accompagnavano.
Ci soffiò
sopra e fece cadere le briciole e poi, uno alla volta, si mangiò i chicchi d’uva
con tutti i gambi, giacché non gliene vidi buttar via nemmeno uno, spingendoli
giù con i tozzi di pane che, colorati com’erano dalla fodera della tasca,
sembravano ammuffiti, ed erano talmente duri di indole che, sebbene egli
cercasse di ammorbidirli girandoseli in bocca molte e molte volte, non riuscì a
smuoverli dalla loro ostinazione.
Il ché
ridondò infine a mio vantaggio, perché me li tirò dicendo:
‘TOH! TOH!
PRENDI, E BUON PRO TI FACCIANO!’.
‘Guarda un
po’,
…dissi tra
me,
‘che
nettare e che ambrosia mi dà questo poeta, sebbene sogliano dire che di ciò si
mantengono gli Dèi e il loro Apollo, su in cielo!’.
In realtà,
almeno per la maggior parte, la miseria dei poeti è grande; ma il mio bisogno
era più grande ancora, se mi costrinse a mangiar quello ch’egli buttava via. Finché
durò la composizione della sua commedia, egli non tralasciò un sol giorno di
venire nell’orto, né a me vennero a mancare tozzi di pane, perché egli li
divideva con me con grande liberalità; poi ce ne andavamo alla noria, dove, io
a quattro zampe ed egli con il secchio, ci si toglieva la sete come due re. Ma
poi il poeta non venne più, ed in me la fame giunse a tal punto che decisi di
abbandonare il mio amico e di andarmene in città a tentare la sorte, ché chi
cerca trova...
Alla morte di don Chisciotte e dopo le prime
condoglianze e la logica agitazione, gli amici lì riuniti, la governante e la
nipote non seppero bene cosa fare, anche se poi, piano piano, agirono in modo
ordinato durante il resto del giorno, quasi quella fosse allo stesso tempo la
prova generale e il debutto di una così triste e memorabile giornata, e fecero
quanto ritenevano indispensabile per confortare il dolore degli altri,
alleggerendo in questo modo il proprio.
Alla morte di don Chisciotte… e dopo, presso non più
il capezzale, ma dall’Ospedale alla Tomba, eterno Sepolcro ed Altare del sommo Maestro,
e con lui accompagnato, chi al meglio lo ha dapprima creato e poi resuscitato,
qual specchio della grande Anima araldo della nobile dimenticata casata, ornare
edificando lo Spirito avvilito e vilipeso, coniare sommo Dialogo
e motto: profilo con due cani affamati di saggia antica dismessa somma Verità…
SCIPIONE.
Amico Berganza, lasciamo questa notte l’ospedale in guardia della Fiducia e
ritiriamoci in questo luogo solitario, su queste stoie, dove, senza che nessuno
ci veda, potremo godere di quest’insolito favore che il cielo ci ha fatto a
tutte e due nel medesimo tempo.
BERGANZA.
Fratello Scipione, io sento che tu parli e so che io parlo a te, né posso
persuadermene, perché mi pare che il parlar noi passi i limiti del naturale.
SCIPIONE. È
vero, Berganza, e tanto maggiore viene ad essere questo prodigio in quanto che
parliamo non solo ma parliamo e ragioniamo, come se fossimo capaci di ragione;
mentre tanto ne siamo privi che la differenza tra il bruto e l’uomo consiste
nell’essere l’uomo animale ragionevole e il bruto no.
BERGANZA.
Quanto tu dici, o Scipione, io lo capisco; e il dirlo tu e il capirlo io mi è
causa di nuova maraviglia. Ben è vero che nel corso della mia vita spessissimo e
in diverse occasioni ho sentito ricordare i grandi pregi che noi abbiamo, tanto
che pare ci siano stati alcuni i quali hanno volentieri creduto che noi abbiamo
in molte cose un istinto particolare così vivo e così fino da offrire indizio e
argomento che poco manca a dimostrare che abbiamo un non so che d’intelligenza,
capace di ragionamento.
SCIPIONE.
Quel ch’io ho sentito lodare ed esaltare è l’aver noi molta memoria, la
gratitudine e la fedeltà nostra, tanto che si è soliti dipingerci come simbolo dell’amicizia.
E cosí avrai visto (se ci hai badato) che sulle tombe di alabastro su cui di solito
sono ritratti quelli che lí giacciono sotterrati, mettono, quando sono marito e
moglie, fra l’uno e l’altro, giù da piedi, una figura di cane per significare
che si serbarono in vita amicizia e fedeltà invidiabile.
BERGANZA.
So bene che ci sono stati cani così riconoscenti che si sono buttati dentro la
stessa sepoltura con i morti corpi dei loro padroni; altri che si sono
accucciati sui sepolcri dove erano sotterrati i loro proprietari, senza più
discostarsene, senza più mangiare fino a lasciarsi morire; so pure che dopo
l’elefante, il primo a sembrare di avere intelligenza è il cane, poi il cavallo
e in ultimo la scimmia.
SCIPIONE. Così
è, però ben vorrai confessare di non avere mai visto né sentito dire che
qualche elefante, o cane, o cavallo o bertuccia abbia parlato; perciò son per credere
che questo nostro parlare così a un tratto rientra nel numero di quelle cose
che son chiamate prodigi, al mostrarsi e all’apparire dei quali l’esperienza ha
dimostrato che qualche grande calamità minaccia il mondo.
Alla morte di don Chisciotte tutto si fece un po’ più
confuso ma anche più chiaro di prima…
…E accadde
anche un’altra cosa…
…Alla morte di don Chisciotte, i più ingenui (o più
ignoranti) pensarono che anche le sue storie avrebbero avuto fine (per abdicare
il sogno ad innominati incubi, per tacitare ed abdicare la Natura ad
ingannevoli sofferenze neppure svelate in tutta la loro abietta statura in ciò
che compone sofferto contrario principio alla Lei per sempre avverso), proprio come, anche se
il paragone non è elegante, si vuol dire: morto il cane, niente più rabbia.
BERGANZA.
Grazie, amico Scipione, perché se non mi avvisavi, tanto mi andavo infervorando
a dire che non mi sarei fermato finché non ti avessi esposto un libro intero,
di quelli che mi tenevano in inganno. Ma verrà tempo che potrò dir tutto con
migliori ragioni e con miglior procedimento d’ora.
SCIPIONE.
Guardati un po’ ai piedi e disfarai l’arcolaio Berganza; voglio dire che tu
rifletta che sei un animale privo di ragione e che, se ora mostri averne un po’,
siamo rimasti tutti e due d’accordo essere cosa soprannaturale e non mai
veduta.
BERGANZA. Così
sarebbe se io stessi nell’ignoranza di prima; ma ora che m’è venuto a mente
quel che avrei dovuto dire al principio della nostra conversazione, non soltanto
non mi maraviglio del mio parlare, ma sono stupito di quello che tralascio di
dire.
SCIPIONE.
Ma allora, non puoi dire quello di cui adesso ti ricordi.
BERGANZA. È
una certa avventura che mi accadde con una gran fattucchiera, discepola della
Camaccia di Montiglia.
SCIPIONE.
Voglio che me la racconti prima che tu vada avanti nel racconto della tua vita.
BERGANZA.
No davvero, finché non sia tempo. Abbi pazienza e ascolta, per ordine come mi
sono accaduti, i miei casi, ché così ne avrai più piacere; se pure il desiderio
di conoscere quei di mezzo prima di quei di cima, non ti sia molesto.
SCIPIONE.
Sii breve e racconta quel che vuoi e come vuoi.
BERGANZA.
Dico dunque che io mi trovavo bene con l’ufficio di guardiano del gregge,
parendomi di mangiare il pane dei miei sudori e delle mie fatiche, e che
l’ozio, causa e padre di tutti i vizi non avesse a che fare con me, perché
riposavo il giorno; non dormivo la notte, dovendo stare all’erta per gli
assalti che ogni poco ci davano i lupi. E appena i pastori mi avevano detto: al
lupo, Rossino! io correvo prima degli altri cani verso dove m’indicavano che
c’era il lupo. Mi davo a correre per le valli, frugacchiavo per i monti,
penetravo nei boschi, saltavo botri, attraversavo strade e la mattina facevo ritorno
al branco senza aver trovato del lupo neppur la traccia, ansimante, sfinito che
cascavo a pezzi, con i piedi spaccati dai rovi; e nel branco trovavo ora una
pecora uccisa ora un montone sgozzato e mangiato mezzo dal lupo. Io mi disperavo
nel vedere quanto poco servisse il mio tanto zelo la mia tanta diligenza.
Capitava il padrone del gregge: i pastori gli uscivano incontro con la pelle
della bestia uccisa: lui incolpava di trascuratezza i pastori e ordinava di
castigare i cani come poltroni. Sopra di noi piovevano legnate e sopra di loro
rimproveri.
Perciò un giorno che mi vidi castigato senza aver colpa, e che la
mia attenzione, sveltezza e bravura non giovavano a cogliere il lupo, mi decisi
a cambiare modo, non più stancandomi per cercarlo, com’ero solito, lontano dal gregge, ma tenermi sempre vicino
a questo. Poiché li veniva il lupo, lì più sicuro sarebbe stato il prenderlo.
Ogni settimana si dava un allarme; e una notte scura scura, pure riuscii a
scorgere i lupi da cui il gregge non avrebbe potuto guardarsi. Io mi
accovacciai dietro un cespuglio; i cani, miei compagni, passarono oltre;
spiando di lì, vidi che due pastori, agguantato un montone, fra i migliori
dell’ovile, l’ammazzarono sì che la mattina sembrò che davvero il lupo fosse
stato il carnefice. Gran sorpresa fu la mia, stupefatto al vedere che i lupi
erano i pastori e che quegli stessi sbranavano la mandria i quali avrebbero
dovuto guardarla. Al loro padrone facevano subito sapere che il lupo aveva
predato, gli davano la pelle e parte della carne; essi poi se ne mangiavano il più
e il meglio. Il padrone, da capo a rimproverarli, e da capo anche il castigo ai
cani. Lupi non ce n’era e il branco scemava! Avrei ben voluto svelare la cosa,
ma non avevo la favella; e tutto questo intanto mi riempiva di maraviglia e di
amarezza.
‘Dio buono! dicevo fra me; chi potrà metterci
riparo a questa iniquità? Chi sarà capace di far comprendere che il difensore è
che offende, che le sentinelle dormono, che la fiducia è ladra e che colui che
vi bada è quello che ammazza?’.
(Prosegue alla morte di don Chisciotte [capitolo completo] )
Nessun commento:
Posta un commento