giuliano

giovedì 2 luglio 2020

IL DIALOGO DEI CANI (2)





















Precedenti capitoli:

Di due cani (lungo la strada)

& Il capitolo testamentario completo (3)

Prosegue fra...:

Eretici e ciarlatani (4/5)














‘Ma dove volete’,

…replicò l’altro,

‘che il mio capocomico abbia abiti paonazzi per dodici cardinali?’.

‘Ebbene, se me ne toglie anche uno soltanto’,

…rispose il poeta,

‘io gli darò la mia commedia tanto facilmente come potrei mettermi a volare. Corpo di Bacco! E vorreste mandare in rovina una scena così grandiosa? Immaginate un po’, di qua, che figura farà in teatro un sommo pontefice con dodici solenni cardinali e con tutto il seguito che per forza si devon tirar dietro. Giuro al cielo che sarà uno dei più grandi e solenni spettacoli che mai si sia visto in una commedia, foss’anche quella del Mazzolino di Daraja!’.

A questo punto mi persuasi del tutto che il primo era un poeta e il secondo un attore.




L’attore consigliò al poeta di tagliare un pochino sui suoi cardinali, se non voleva rendere impossibile al capocomico la rappresentazione del lavoro; al che il poeta rispose che doveva ringraziarlo se non ci aveva messo dentro tutto il conclave ch’era riunito durante i memorabili fatti che voleva richiamare alla memoria della gente nella sua magnifica commedia; il comico rise, e lo lasciò alle sue occupazioni per andare a fare il mestiere, ch’era quello di studiare una parte per una nuova commedia.

Il poeta dopo aver scritto qualche altra strofa del suo capolavoro, con molta compostezza e molto tono tirò fuori di tasca alcuni tozzi di pane e una ventina di chicchi d’uva passa, che a quel che mi pare, gli contai a uno a uno, e sono ancora in dubbio se fossero proprio tanti, perché insieme con essi c’erano, a far numero, certi bricioline di pane che li accompagnavano.




Ci soffiò sopra e fece cadere le briciole e poi, uno alla volta, si mangiò i chicchi d’uva con tutti i gambi, giacché non gliene vidi buttar via nemmeno uno, spingendoli giù con i tozzi di pane che, colorati com’erano dalla fodera della tasca, sembravano ammuffiti, ed erano talmente duri di indole che, sebbene egli cercasse di ammorbidirli girandoseli in bocca molte e molte volte, non riuscì a smuoverli dalla loro ostinazione.

Il ché ridondò infine a mio vantaggio, perché me li tirò dicendo:

‘TOH! TOH! PRENDI, E BUON PRO TI FACCIANO!’.

‘Guarda un po’,

…dissi tra me,

‘che nettare e che ambrosia mi dà questo poeta, sebbene sogliano dire che di ciò si mantengono gli Dèi e il loro Apollo, su in cielo!’.




In realtà, almeno per la maggior parte, la miseria dei poeti è grande; ma il mio bisogno era più grande ancora, se mi costrinse a mangiar quello ch’egli buttava via. Finché durò la composizione della sua commedia, egli non tralasciò un sol giorno di venire nell’orto, né a me vennero a mancare tozzi di pane, perché egli li divideva con me con grande liberalità; poi ce ne andavamo alla noria, dove, io a quattro zampe ed egli con il secchio, ci si toglieva la sete come due re. Ma poi il poeta non venne più, ed in me la fame giunse a tal punto che decisi di abbandonare il mio amico e di andarmene in città a tentare la sorte, ché chi cerca trova...




Alla morte di don Chisciotte e dopo le prime condoglianze e la logica agitazione, gli amici lì riuniti, la governante e la nipote non seppero bene cosa fare, anche se poi, piano piano, agirono in modo ordinato durante il resto del giorno, quasi quella fosse allo stesso tempo la prova generale e il debutto di una così triste e memorabile giornata, e fecero quanto ritenevano indispensabile per confortare il dolore degli altri, alleggerendo in questo modo il proprio.

Alla morte di don Chisciotte… e dopo, presso non più il capezzale, ma dall’Ospedale alla Tomba, eterno Sepolcro ed Altare del sommo Maestro, e con lui accompagnato, chi al meglio lo ha dapprima creato e poi resuscitato, qual specchio della grande Anima araldo della nobile dimenticata casata, ornare edificando lo Spirito avvilito e vilipeso, coniare  sommo Dialogo e motto: profilo con due cani affamati di saggia antica dismessa somma Verità…




SCIPIONE. Amico Berganza, lasciamo questa notte l’ospedale in guardia della Fiducia e ritiriamoci in questo luogo solitario, su queste stoie, dove, senza che nessuno ci veda, potremo godere di quest’insolito favore che il cielo ci ha fatto a tutte e due nel medesimo tempo.

BERGANZA. Fratello Scipione, io sento che tu parli e so che io parlo a te, né posso persuadermene, perché mi pare che il parlar noi passi i limiti del naturale.

SCIPIONE. È vero, Berganza, e tanto maggiore viene ad essere questo prodigio in quanto che parliamo non solo ma parliamo e ragioniamo, come se fossimo capaci di ragione; mentre tanto ne siamo privi che la differenza tra il bruto e l’uomo consiste nell’essere l’uomo animale ragionevole e il bruto no.

BERGANZA. Quanto tu dici, o Scipione, io lo capisco; e il dirlo tu e il capirlo io mi è causa di nuova maraviglia. Ben è vero che nel corso della mia vita spessissimo e in diverse occasioni ho sentito ricordare i grandi pregi che noi abbiamo, tanto che pare ci siano stati alcuni i quali hanno volentieri creduto che noi abbiamo in molte cose un istinto particolare così vivo e così fino da offrire indizio e argomento che poco manca a dimostrare che abbiamo un non so che d’intelligenza, capace di ragionamento.




SCIPIONE. Quel ch’io ho sentito lodare ed esaltare è l’aver noi molta memoria, la gratitudine e la fedeltà nostra, tanto che si è soliti dipingerci come simbolo dell’amicizia. E cosí avrai visto (se ci hai badato) che sulle tombe di alabastro su cui di solito sono ritratti quelli che lí giacciono sotterrati, mettono, quando sono marito e moglie, fra l’uno e l’altro, giù da piedi, una figura di cane per significare che si serbarono in vita amicizia e fedeltà invidiabile.

BERGANZA. So bene che ci sono stati cani così riconoscenti che si sono buttati dentro la stessa sepoltura con i morti corpi dei loro padroni; altri che si sono accucciati sui sepolcri dove erano sotterrati i loro proprietari, senza più discostarsene, senza più mangiare fino a lasciarsi morire; so pure che dopo l’elefante, il primo a sembrare di avere intelligenza è il cane, poi il cavallo e in ultimo la scimmia.

SCIPIONE. Così è, però ben vorrai confessare di non avere mai visto né sentito dire che qualche elefante, o cane, o cavallo o bertuccia abbia parlato; perciò son per credere che questo nostro parlare così a un tratto rientra nel numero di quelle cose che son chiamate prodigi, al mostrarsi e all’apparire dei quali l’esperienza ha dimostrato che qualche grande calamità minaccia il mondo.




Alla morte di don Chisciotte tutto si fece un po’ più confuso ma anche più chiaro di prima…

…E accadde anche un’altra cosa…

…Alla morte di don Chisciotte, i più ingenui (o più ignoranti) pensarono che anche le sue storie avrebbero avuto fine (per abdicare il sogno ad innominati incubi, per tacitare ed abdicare la Natura ad ingannevoli sofferenze neppure svelate in tutta la loro abietta statura in ciò che compone sofferto contrario principio alla Lei per sempre avverso), proprio come, anche se il paragone non è elegante, si vuol dire: morto il cane, niente più rabbia.




BERGANZA. Grazie, amico Scipione, perché se non mi avvisavi, tanto mi andavo infervorando a dire che non mi sarei fermato finché non ti avessi esposto un libro intero, di quelli che mi tenevano in inganno. Ma verrà tempo che potrò dir tutto con migliori ragioni e con miglior procedimento d’ora.

SCIPIONE. Guardati un po’ ai piedi e disfarai l’arcolaio Berganza; voglio dire che tu rifletta che sei un animale privo di ragione e che, se ora mostri averne un po’, siamo rimasti tutti e due d’accordo essere cosa soprannaturale e non mai veduta.

BERGANZA. Così sarebbe se io stessi nell’ignoranza di prima; ma ora che m’è venuto a mente quel che avrei dovuto dire al principio della nostra conversazione, non soltanto non mi maraviglio del mio parlare, ma sono stupito di quello che tralascio di dire.

SCIPIONE. Ma allora, non puoi dire quello di cui adesso ti ricordi.

BERGANZA. È una certa avventura che mi accadde con una gran fattucchiera, discepola della Camaccia di Montiglia.

SCIPIONE. Voglio che me la racconti prima che tu vada avanti nel racconto della tua vita.

BERGANZA. No davvero, finché non sia tempo. Abbi pazienza e ascolta, per ordine come mi sono accaduti, i miei casi, ché così ne avrai più piacere; se pure il desiderio di conoscere quei di mezzo prima di quei di cima, non ti sia molesto.

SCIPIONE. Sii breve e racconta quel che vuoi e come vuoi.




BERGANZA. Dico dunque che io mi trovavo bene con l’ufficio di guardiano del gregge, parendomi di mangiare il pane dei miei sudori e delle mie fatiche, e che l’ozio, causa e padre di tutti i vizi non avesse a che fare con me, perché riposavo il giorno; non dormivo la notte, dovendo stare all’erta per gli assalti che ogni poco ci davano i lupi. E appena i pastori mi avevano detto: al lupo, Rossino! io correvo prima degli altri cani verso dove m’indicavano che c’era il lupo. Mi davo a correre per le valli, frugacchiavo per i monti, penetravo nei boschi, saltavo botri, attraversavo strade e la mattina facevo ritorno al branco senza aver trovato del lupo neppur la traccia, ansimante, sfinito che cascavo a pezzi, con i piedi spaccati dai rovi; e nel branco trovavo ora una pecora uccisa ora un montone sgozzato e mangiato mezzo dal lupo. Io mi disperavo nel vedere quanto poco servisse il mio tanto zelo la mia tanta diligenza. Capitava il padrone del gregge: i pastori gli uscivano incontro con la pelle della bestia uccisa: lui incolpava di trascuratezza i pastori e ordinava di castigare i cani come poltroni. Sopra di noi piovevano legnate e sopra di loro rimproveri. 




Perciò un giorno che mi vidi castigato senza aver colpa, e che la mia attenzione, sveltezza e bravura non giovavano a cogliere il lupo, mi decisi a cambiare modo, non più stancandomi per cercarlo, com’ero solito,  lontano dal gregge, ma tenermi sempre vicino a questo. Poiché li veniva il lupo, lì più sicuro sarebbe stato il prenderlo. Ogni settimana si dava un allarme; e una notte scura scura, pure riuscii a scorgere i lupi da cui il gregge non avrebbe potuto guardarsi. Io mi accovacciai dietro un cespuglio; i cani, miei compagni, passarono oltre; spiando di lì, vidi che due pastori, agguantato un montone, fra i migliori dell’ovile, l’ammazzarono sì che la mattina sembrò che davvero il lupo fosse stato il carnefice. Gran sorpresa fu la mia, stupefatto al vedere che i lupi erano i pastori e che quegli stessi sbranavano la mandria i quali avrebbero dovuto guardarla. Al loro padrone facevano subito sapere che il lupo aveva predato, gli davano la pelle e parte della carne; essi poi se ne mangiavano il più e il meglio. Il padrone, da capo a rimproverarli, e da capo anche il castigo ai cani. Lupi non ce n’era e il branco scemava! Avrei ben voluto svelare la cosa, ma non avevo la favella; e tutto questo intanto mi riempiva di maraviglia e di amarezza.

‘Dio buono! dicevo fra me; chi potrà metterci riparo a questa iniquità? Chi sarà capace di far comprendere che il difensore è che offende, che le sentinelle dormono, che la fiducia è ladra e che colui che vi bada è quello che ammazza?’.

(Prosegue alla morte di don Chisciotte [capitolo completo] )










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