giuliano

sabato 27 maggio 2017

O SE PREFERISCI... GIOCHI DI SPECCHI.... (15)



















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I 'perfetti' ingranaggi dell'arte... ovvero gli Specchi della vera Natura (14)

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Il 'nulla' degli Ambasciatori (16)















‘Molto ci sarebbe da dire’ rispose don Chisciotte ‘riguardo al fatto se sono o no fantastiche le storie dei cavalieri erranti’.

‘Ma c'è chi non possa dubitare’ rispose colui dal Verde Gabbano ‘che non siano false coteste storie?’…

‘Io ne dubito’ rispose don Chisciotte, ‘ma lasciamola lì. Se dura a lungo il Viaggio, spero in Dio di far comprendere a vossignoria che ha fatto male a lasciarsi andare con la corrente di coloro i quali ritengono per certo che non siano vere’.




Da quest'ultimo detto di don Chisciotte entrò in sospetto il viaggiante che don Chisciotte dovesse essere qualche matto e da altri suoi detti ne aspettava la conferma; ma prima che si distraessero con altri discorsi, don Chisciotte lo pregò di dirgli chi era, dal momento che lui lo aveva messo a parte del suo stato e della sua vita. Al che rispose quello dal Verde Gabbano.

‘Io, signor Cavaliere dalla Triste Figura, sono un nobiluomo, nativo di un villaggio dove, a Dio piacendo, andremo oggi a pranzare. Sono più che mediocremente ricco e mi chiamo don Diego de Miranda. Passo la vita con mia moglie, con i figli e con gli amici. I miei esercizi sono la caccia e la pesca, ma non mantengo né falcone né levrieri, bensì qualche perniciotto addomesticato o qualche vispo furetto. Ho un sei dozzine di libri, quali in volgare e quali in latino, certuni di storia e cert'altri di devozione: libri di cavalleria hanno ancora a passare le soglie di casa mia. Sfoglio di preferenza i profani che i devoti, purché di onesto trattenimento, dilettino con la lingua elegante e suscitino ammirazione e interesse per l'invenzione, sebbene pochi ce ne sia di questi in Ispagna.





Qualche volta mangio da vicini ed amici miei e spesso li invito a casa mia. Ai miei banchetti è nettezza, eleganza e nessuna parsimonia. Non mi piace sparlare né permetto che si sparli in presenza mia; non indago la vita degli altri né guardo con occhi di lince nei fatti altrui; ascolto la messa ogni giorno, dei miei beni faccio parte ai poveri, senza menar vanto delle buone opere, perché non m'abbiano a entrare nell'animo l'ipocrisia e la vanagloria, due nemici che pian pianino s'impadroniscono dell'anima più vigilante; cerco di rappaciare coloro che so essere in discordia; son devoto della Madonna e confido sempre nella misericordia di Dio nostro Signore’.

Attentissimo stette Sancio al ragguaglio della vita e dei passatempi del nobiluomo, e sembrandogli vita buona e santa e che chi la menava dovesse operare miracoli, si precipitò dall'asino e, corso prestamente ad afferrargli la staffa di destra, con cuore commosso da venerazione e quasi piangendo, gli baciò più e più volte i piedi. Il che vedendo il nobiluomo, gli domandò:

‘Che fate, fratello? Che baci son mai questi?’…




‘Mi lasci baciare’, rispose Sancio; ‘perché vossignoria mi sembra il primo santo a cavallo che ho visto in tutto il corso di mia vita’.

‘Non sono santo’ rispose il nobiluomo, ‘ma gran peccatore; voi, sì, fratello, che dovete esser buono, come fa vedere la vostra semplicità’.

Sancio tornò a montar sulla bardella, dopo avere suscitato un aperto riso dalla profonda malinconia del suo padrone e causato nuova maraviglia a don Diego.
Don Chisciotte domandò a questo Diego de Miranda quanti figli aveva, dicendogli che una delle cose in cui gli antichi filosofi, i quali furon privi della vera conoscenza di Dio, riponevano la somma felicità erano i beni della natura, quelli della fortuna, l'avere molti amici nonché molti figli e buoni.

‘Io signor don Chisciotte’ rispose il nobiluomo ‘ho un figlio, che, se non lo avessi, mi stimerei più felice di quello che sono, e non perché egli sia cattivo, ma perché non è buono tanto quanto vorrei. Potrà avere un diciotto anni; sei è stato agli studi a Salamanca, dove ha imparato le lingue latina e greca, e quando io volli che passasse a studiare altre discipline, lo trovai così trasportato per quella della poesia (se pur si può chiamare disciplina), che non è possibile fargli affrontare quella delle leggi che io desidererei studiasse, e neanche la regina di tutte, cioè, la teologia....




Io vorrei ch'egli fosse il lustro della sua stirpe, poiché viviamo in un'età in cui i nostri re premiano altamente le virtuose e buone lettere; ché lettere senza virtù sono perle nel letamaio. Passa tutto il giorno in stabilire se Omero disse bene o no nel tal verso dell'Iliade, se Marziale sia o no scollacciato nel tale epigramma, se i tali e tali versi di Virgilio si debbano intendere in un modo o in un altro. Insomma, tutto il suo conversare è con i libri dei poeti che ho citato, nonché con quelli di Orazio, di Persio, di Giovenale e di Tibullo; ché dei moderni in volgare non fa molto conto. Pure, con tutta l'avversione che dimostra per la poesia in volgare, ora il suo pensiero è tutto assorto a comporre una su quattro versi che gli hanno mandato da Salamanca, credo per una gara letteraria’...




‘A tutto ciò’ rispose don Chisciotte: ‘I figli, signore, sono parte delle viscere dei loro genitori; si debbono quindi amare, buoni o cattivi che siano, come si ama l'anima che ci dà vita. Ai genitori tocca avviarli fin da piccoli per la via della virtù, della buona educazione e dei retti e cristiani costumi, affinché quando saranno grandi possano essere il bastone della loro vecchiaia e il vanto dei lor propri discendenti. Quello di forzarli ad attendere allo studio di questa o di quella disciplina, penso che non sia ben fatto, per quanto non sarà di danno cercare di persuaderveli. Quando poi non si deve studiare perché non si tratta di pane lucrando, essendo lo studente così fortunato da avergli dato il cielo chi glielo possa provvedere, io sarei d'opinione che gli si lasciasse seguire quella disciplina a cui più si vedrà inclinato; e la Poesia, sebbene sia più di diletto che di vantaggio, non è tuttavia di quelle che sogliono tornare a disdoro di chi la possiede. La Poesia, signor nobiluomo, secondo me, è come una gentile fanciulla, giovinetta di sovrana bellezza, di cui han cura di accrescere il pregio, di renderla più leggiadra e adorna molte altre fanciulle, che sarebbero tutte le altre discipline, ed ella si deve giovare di tutte, e a tutte da lei deve derivare onore. 




Ma siffatta fanciulla non vuol essere già brancicata né trascinata per le vie né esposta in pubblico sulle cantonate delle piazze e agli angoli dei palazzi. Ell'è fatta di un metallo di tale virtù che chi lo sa trattare lo cambierà in oro purissimo d'inestimabile valore. Colui che la possiede deve tenerla a segno, non lasciandola trascendere a licenziose satire e malvagi sonetti; non dev'essere, in nessun modo, messa in vendita, se già non fossero poemi eroici, commoventi tragedie o commedie gaie e ben congegnate; non si deve lasciar toccare né dai buffoni né dal volgo ignorante, incapace di conoscere e valutare i tesori che ella racchiude in sé. Né crediate, signore, che io qui chiami volgo solamente la gente plebea ed umile, perché chiunque sia ignorante, sia magari signore e principe, può e dev'essere annoverato tra il volgo. Cosicché chi tratterà e possederà la Poesia avendo i requisiti che ho detto, sarà rinomato e onorato in tutte le nazioni civili del mondo.




Dico pure che il poeta per istinto il quale si aiuti con l'arte, diverrà ancora migliore e sopravanzerà il poeta che vorrà essere tale solamente perché conosce l'arte della poesia: la ragione è che l'arte non è al di sopra della natura, sì la fa più perfetta; la natura, quindi, accoppiata con l'arte e l'arte con la natura, produrranno il poeta perfettissimo.....
Per concludere, dunque, il mio ragionamento, signor nobiluomo, lasciate che vostro figlio segua la via per la quale lo chiama la sua stella; ché, essendo egli tanto studioso  come credo debba essere ed avendo già salito con buon successo il primo gradino del sapere, vale a dire quello delle lingue, con l'aiuto di queste raggiungerà la vetta delle lettere umane le quali stan così bene in un cavaliere che vive di rendita e gli conferiscono tanto adornamento e dignità e tanto lo fanno insigne quanto la mitra i vescovi e le guarnacche i giureconsulti. Rimproveri vossignoria il figlio se avesse a comporre satire che intacchino la onorabilità del prossimo, ne lo punisca e gliele stracci; ma se invece componesse sermoni al modo d'Orazio, a riprensione dei vizi in generale, come questi fece con tanta eleganza, gliene dia lode, perché è lecito al poeta scrivere contro l'invidia e sferzare nei versi gl'invidiosi al pari che gli altri vizi, purché non additi nessuno. Invece ci son dei poeti che, pur di pungere malignamente, si esporrebbero magari al rischio di essere esiliati nelle isole del Ponto.......




(e signor mio in questo mi lodo e distinguo… ed aggiungo… in quanto pur Infinito  ‘dedica e stampa’ ho maturato come un frutto mal volentieri donato a chi del tomo ne vuol far censura: regolare l’idea nell’ortodossia della vita e avversare la vera Natura nel losco recinto al confino del ‘libero arbitrio’… così mi intenda in quel che taccio e non dico nel velato motivo giacché la censura ci scruta ed osserva materiale sembianza che poco e nulla intende della Poesia e con essa dell’intiera Natura… quanto il mostro che verrà a dettare futura novella e paura come futuro di una’antica ed odierna costante tortura… a comporre nuovo Dialogo nella differenza /fra chi vivo si pensa e dispensa/ ma morto che cammina armato di impropria ed infelice natura/ e apparente morta natura in nuova linfa celebrare le infinite gesta di chi il Principio della vita/…).....




Se il poeta sarà di costumi onesti, onesto sarà anche nei suoi versi; la penna è la lingua dell'anima; quali che abbiano ad essere i concetti che nell'anima s'ingenerino, tale sarà ciò ch'egli scriverà. E quando re e principi veggono la portentosa disciplina della Poesia in uomini saggi, virtuosi e ponderanti, fanno loro onore, li apprezzano, li innalzano e perfino li coronano delle foglie dell'albero cui non colpisce il fulmine, quasi per indicare che non debbono essere tocchi da alcuno coloro le tempie dei quali sono onorate e adorne di siffatte corone’…


(M. De Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)












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