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di confine (5/6)
E
mentre parlava di quei vecchi tempi e di quegli uomini morti e scomparsi di un’altra
razza, diversa da entrambe quelle che il ragazzo (ed ora è un uomo che di nuova li osserva e scruta… ancora ed ancora…
nei loro gesti nei movimenti in ugual medesimi intenti, li osserva medita e
s’interroga del bene e del male che invade questa ed ogni Terra…)
conosceva, gradualmente per il ragazzo quei vecchi tempi avrebbero cessato di
essere passati e sarebbero diventati parte del presente, non solo come se
fossero accaduti ieri, ma come se stessero ancora accadendo, come se gli uomini
che li attraversavano camminavano effettivamente nel respiro e nell’aria e
proiettavano un’ombra reale sulla terra che non avevano abbandonato.
E
ancora: come se alcuni di loro non fossero ancora accaduti ma sarebbero
accaduti domani, finché alla fine sarebbe sembrato al ragazzo che lui stesso non
fosse ancora venuto all’esistenza, che nessuno della sua razza né dell'altra
razza soggetta che il suo popolo aveva portato con sé nella terra fosse ancora
arrivato qui; che sebbene fosse stata di suo nonno, poi di suo padre e di suo
zio, e ora fosse di suo cugino e un giorno sarebbe diventata la sua terra, che
lui e Sam avevano conquistato, il loro controllo su di essa era in realtà tanto
banale e privo di realtà quanto la scrittura ormai sbiadita e arcaica nel libro
della cancelleria di Jefferson che gliela assegnava e che era lui, il ragazzo,
l’ospite e la voce di Sam Fathers quella del padrone.
(Faulkner)
A prescindere dal fatto che la storia non mostra alcun esempio di una qualunque classe dominante che abbia commesso suicidio, l’aristocrazia del Sud sapeva benissimo che la distruzione della schiavitù avrebbe portato con sé il crollo dell’intera colossale e secolare sovrastruttura che su tale base si ergeva, vale a dire il modo di vita, la visione del mondo, la cultura, i valori e le convinzioni di un’intera società: in altre parole, il crollo catastrofico di una potente classe dominante che avrebbe trascinato con sé tutto un mondo.
Per
l’aristocrazia del Sud la schiavitù era una fonte di orgoglio e di prestigio,
un privilegio e, insieme, un dovere e una responsabilità. Per essi la difesa
della schiavitù significava difendere il loro onore, la loro dignità che
consideravano l’essenza stessa della vita. La loro stessa psicologia, l’abitudine
al comando, l’orgoglio tipico di ogni aristocrazia, il mantenimento del potere
dipendevano dalla difesa del loro mondo: si veda più oltre nel presente volume
la reazione di Robert E. Lee alla prospettiva che la società del Sud potesse
essere minacciata; essa spiega in sostanza l’arroccarsi dell’aristocrazia
sudista entro la difesa senza compromessi della propria società.
A questo
punto sorge spontanea una domanda: perché mai il Sud prese la decisione
gravissima della secessione?
Naturalmente sia quelli che Eugene D. Genovese chiama i neoabolizionisti sia gli adepti del politically correct risponderebbero immediatamente: ‘per difendere la schiavitù’, con, in tale risposta un non velato accento di disprezzo per gli ‘immorali schiavisti del Sud’.
Ma le cose
stanno veramente così?
Per
cominciare, è facilissimo sbarazzarsi della tesi moralistica: se infatti i
proprietari di schiavi erano soltanto degli immorali e la questione del
mantenimento o meno della schiavitù avesse avuto solo una base economica e
fosse dovuta unicamente alla loro avidità, sarebbe stato facilissimo pagarli
perché diventassero virtuosi e morali.
A parte che
al momento di fare il passo supremo la maggioranza più prudente (e meno
avventuristica) della stessa aristocrazia sudista arretrava di fronte alla
terribile prospettiva di una eventuale guerra civile (che essa riteneva
pressoché inevitabile). In realtà i proprietari di schiavi in numero cospicuo
volevano rimanere nell’Unione ed essere protetti, nel senso che il Governo e il
Congresso dovevano, secondo il pensiero del senatore Jefferson Davis, membro
autorevolissimo dell’aristocrazia sudista, considerare la peculiare istituzione
alla stregua di tutte le altre dell’Unione, che i sudisti potessero entrare
liberamente nei Territori con tutte le loro proprietà inclusi ovviamente gli
schiavi e che il Governo federale proteggesse attivamente tali loro diritti
come proteggeva tutti quelli di ogni cittadino.
Era in sostanza la ripresa della precisa proposta fatta da John C. Calhoun nel suo ultimo celebre discorso in Senato il 4 marzo 1850, in cui egli aveva chiesto un Emendamento costituzionale che garantisse in maniera totale tutti i diritti e le autonomie del Sud come era stato agli inizi dell’Unione prima che l’equilibrio tra le sezioni fosse distrutto per l’azione del Governo. In sostanza, egli di fatto proponeva di trasformare l’Unione in due unioni associate mediante una specie di compromesso austro-ungarico avanti lettera.
Ma era
possibile questo con il nuovo Presidente eletto?
Vi era tra
i membri più notevoli della grande élite sudista chi ne era fermamente
convinto. Il senatore Alexander Stephens della Georgia, futuro Vice Presidente
della Confederazione secessionista e già compagno e amico di Lincoln ai tempi del Partito Whig e che
quindi ne conosceva la moderazione, disse senza ambagi che questi sarebbe stato
un buon Presidente quanto lo era stato Fillmore. Non ne aveva capito gli
obiettivi politici; perché l’Emendamento che offriva Lincoln, come si è detto, riguardava solo la schiavitù dove essa
già esisteva.
Ciò nonostante in grande maggioranza i moderati tra gli aristocratici del Sud, estremamente preoccupati per la terribile prospettiva di giocare tutto, la loro stessa esistenza, su una sola carta, continuavano ad arretrare di fronte al salto nel buio della secessione. Capivano infatti benissimo che la peculiare istituzione si sarebbe difesa assai meglio rimanendo nell’Unione piuttosto che uscendone poiché solo in tal modo sarebbe stato possibile continuare la battaglia politica per tutelarla con ogni mezzo. Così lo statista Benjamin F. Perry, della Carolina Meridionale sosteneva che l’Unione ‘doveva essere salvata come baluardo contro l’abolizione’; e Herschel V. Johnson, della Georgia che era stato un secessionista nel 1850:
‘Mi sono persuaso che la schiavitù sia più sicura
dentro l’Unione che fuori da essa’.
Lo stesso
senatore Jefferson Davis, già Segretario alla Guerra degli Stati Uniti e futuro
Presidente della Confederazione sudista era un moderato, con molte esitazioni
di fronte alla gravissima decisione della secessione. Il 4 luglio 1858,
parlando al pubblico a Boston aveva assunto una posizione nettamente unionista;
poi, il 10 novembre 1860, rispondendo a una lettera dell’estremista Robert
Barnwell Rhett, proprietario-direttore del giornale secessionista Charleston Mercury, aveva raccomandato
moderazione e prudenza; Infine nel discorso di congedo dal Senato degli Stati
Uniti, pronunciato il 21 gennaio 1861,
si era premurato di porre in rilievo che, a suo giudizio, non c’erano
sufficienti motivi per cui il suo Stato, il Mississippi, compisse un simile
grave passo: ma che egli si sentiva vincolato a seguire tale decisione dei suoi
costituenti.
E infine, la dimostrazione che per eliminare la piaga della schiavitù non c’era alcun bisogno di una sanguinosa e terribile guerra civile sarebbe apparsa chiara nella vicenda dell’altro, grande Stato a schiavi delle Americhe, il Brasile. Sebbene anche là l’aristocrazia dei piantatori tenesse sotto il proprio fermo controllo il potere politico, la schiavitù venne quietamente abolita tra il 1885 e il 1888 in buona parte per l’impulso dell’Imperatore Pietro II.
E dunque?
Come mai,
malgrado fosse chiaro a tante persone di buon senso che la peculiare
istituzione si sarebbe difesa meglio rimanendo entro l’Unione che non uscendone
e il nuovo Presidente fosse pronto a garantire la schiavitù là dove essa già
esisteva, il Sud decise di compiere il terribile passo della secessione?
Un
tentativo di spiegazione non si può trovare nella logica; le azioni umane di
massa in verità non sono praticamente mai guidate dalla logica, altrimenti
molti disastrosi errori (e in primo luogo molte guerre) sarebbero evitati; ma
piuttosto in quello impalpabile e difficile da esplorare dei fattori emotivi. Un
elemento che contribuì a scatenare nel Sud un’irrazionale ondata di panico fu la comparsa nel 1854 de La capanna dello zio Tom, libro dovuto
alla penna di Harriet Beecher Stowe, sorella di abolizionisti
partecipanti alla lotta armata nel Kansas, ed essa stessa di sentimenti
abolizionisti.
Quello che indignò la gente del Sud fu che, almeno secondo essi, il quadro della schiavitù nel Meridione offerto dal libro era sostanzialmente falso (‘ci sono meno dati reali sul Sud di quanti se ne possano trovare nell’Almanacco navale’, commentò una lettrice sudista); più grave effetto ebbe però l’incursione nel luglio 1859 dell’abolizionista John Brown su Harper’s Ferry nella speranza (vana) di scatenare un’insurrezione di schiavi.
L’episodio
visto nella sua realtà appare modesto; ma è fuori dubbio che esso scatenò nel
Sud una travolgente ondata di panico: ‘[il raid] aveva ribadito nella mente dei
meridionali la convinzione che il Nord mirasse al soggiogamento del Sud: ed ora
ecco che si era giunti all’aggressione armata! Adesso decine di migliaia di
persone si domandavano con terrore e con ansia quale sarebbe stato il prossimo
passo. L’ondata di manifestazioni che seguirono nel Nord l’esecuzione di John Brown finì per convincere i
meridionali che questi non era stato se non l’avanguardia di un attacco
generale...’.
E non importava che in realtà nel Nord i gruppi estremisti degli abolizionisti non fossero che una sparuta (ma vocifera) minoranza; ormai le reazioni irrazionali nel Sud stavano prendendo piede, abilmente stimolate da un’altra esigua (e irresponsabile) minoranza di estremisti, i così detti ‘mangiafuoco’, ossia quei pochissimi (ma essi pure chiassosi) entro la classe dirigente meridionale che avevano fin dal principio predicato la secessione immediata e che puntavano su di essa accentuando all’uopo i timori e le angosce del Sud. I ‘mangiafuoco’ avevano cominciato a predicare la secessione molto tempo prima dell’elezione di Lincoln alla Presidenza: quindi il loro estremismo era di antica data e ora essi credevano che fosse alfine giunta la buona occasione.
Un altro
stato d’animo che influì profondamente sulla gente del Sud fu un diffuso senso
di frustrazione. I continui attacchi alla ‘peculiare istituzione’ non solo nel
Nord degli Stati Uniti, ma nell’intero mondo occidentale, l’atmosfera di
disprezzo e anche di rancore di cui si sentivano circondati e il conseguente
isolamento, avevano spinto la gente del Sud a chiudersi sempre più in se
stessa. Essi, tra cui erano sorti i primi critici della schiavitù, ora tendevano
a reagire non solo giustificando tale obsoleta e negativa istituzione, ma
addirittura vantandone gli aspetti positivi. Insomma ormai i sudisti erano
pressoché totalmente travolti da una valanga di sentimenti emotivi e
irrazionali, che sono sempre forieri delle più avventate decisioni.
Tutti questi fattori appaiono di primaria importanza nel definire l’atteggiamento della gente del Sud. Ma a questo punto sorge spontanea un’altra domanda: poiché i proprietari di schiavi – grandi e minori – non superavano nell’insieme il 25% della popolazione bianca del Sud, come accadde che l’intera massa dei meridionali fu tutta travolta da tale ondata emotiva che finì per trascinare con sé anche i moderati della stessa classe aristocratica?
Per dare a
ciò un’adeguata risposta, occorre vedere un po’ più da vicino la struttura
sociale dell’intera etnia bianca nel Mezzogiorno degli Stati Uniti, ossia nel
vecchio Sud.
Per anni
scrittori e purtroppo anche storici videro la popolazione bianca del Sud come
divisa in due sole classi: da un lato i proprietari di schiavi; dall’altro i
nullatenenti, ossia i così detti ‘poor whites’ o bianchi poveri, addirittura
definiti con disprezzo ‘white trash’, spazzatura bianca. A eliminare tale
grossolano semplicismo venne nel 1949 l’opera veramente epocale di Frank
Lawrence Owsley. Egli, lavorando su una grande massa di documenti fino allora
non sfruttati (Archivi di Contea, documenti raccolti dall’Ufficio federale del
Censimento), dimostrò come la struttura sociale del vecchio Sud fosse ben
altrimenti complessa e articolata.
Naturalmente vi figuravano anzitutto i proprietari di schiavi i quali però non rappresentavano, come si è detto, più del 25% della popolazione bianca, e anch’essi erano profondamente divisi da differenze di classe. Infatti, l’aristocrazia dei grandi piantatori non formava sulla massa che un relativamente esiguo gruppo (ma composto, si può aggiungere, da persone talmente abili, colte ed evolute da essersi assicurata la guida politica, sociale e culturale dell’intero Sud). Al di fuori da tale minoranza vi erano i piccoli proprietari di mano d’opera servile, i quali normalmente non possedevano che pochissimi schiavi: secondo i dati accuratamente raccolti da Owsley, da un minimo di due a un massimo di venti. Tutti costoro in realtà appartenevano al vasto ceto contadino dei coltivatori diretti, sebbene tra di essi si debbano annoverare anche i (pochissimi) aristocratici di famiglie per così dire decadute, ma che rimanevano aristocratici e ben distinti da loro.
La massa dei minori proprietari di terra, o coltivatori diretti (la cui stragrande maggioranza non possedeva alcuno schiavo: al massimo si serviva di lavoratori stagionali o di schiavi presi in affitto temporaneo) formava all’ingrosso il 75% della popolazione del Sud. Le dimensioni della loro proprietà andavano da un minimo di 10 ettari a un massimo di 200; una estensione del tutto rispettabile. Era da questo ceto che provenivano anche gli intellettuali del Sud: avvocati, medici, insegnanti dei più vari gradi di scuole, fino ai docenti universitari, predicatori, giornalisti.
A questo punto un interrogativo si presenta: come mai questa grande massa di non proprietari di schiavi si trovarono del tutto schierati nella grande ondata secessionista?
Una prima
risposta sta nel caratteristico atteggiamento di questo vastissimo ceto verso
la ristretta élite aristocratica che stava al vertice del Sud, nonché
nell’abile e saggio atteggiamento cordiale e democratico dei componenti di
quest’ultima verso le classi popolari; i cui membri, alla loro volta, si
consideravano (ed erano considerati) appartenenti a una più vasta élite di
gentiluomini, gli strati inferiori cioè di una società di aristocratici formata
in sostanza da tutta le gente bianca del Sud. Qui si inserisce la funzione
fondamentale della istituzione della schiavitù africana nel creare il senso di
autoidentificazione, la visione del mondo, la ‘cultura’, insomma la
estremamente peculiare civiltà sudista. Infatti tutta intera questa società di
gentiluomini (non si dimentichi che anche nel vecchio Sud come in tutte le
società aristocratiche tale qualità derivava non già dal censo, ma dallo status
sociale e dalla nascita in esso) trovava la propria base nell’esistenza di una
massa servile: gli schiavi afroamericani.
Con una concezione indubbiamente razzista, anche se non di un razzismo biologico ma, per così dire, ‘culturale’, costoro erano considerati inferiori, quindi ancora bisognosi di ‘educazione’ e di ‘guida’. Verso di loro la massa del popolo sudista aveva un atteggiamento mediamente bonario e protettivo; ma non si sognava nemmeno lontanamente di farne mai i propri eguali; anche perché in qualunque società aristocratica la barriera di classe è qualcosa di insito nella natura stessa della struttura sociale e per ciò insuperabile.
Tutto
questo finché i neri ‘stavano al loro posto’, buono o malgrado. A ciò si univa
un velato (e spesso non troppo velato) sentimento di disprezzo verso i ‘vili
meccanici’ del Nord, considerati tra l’altro privi di capacità militari,
assieme a una sottaciuta condanna del modo con cui gli africani erano trattati
oltre la Linea Mason e Dixon. Come il grande ideologo del Sud, John C. Calhoun,
ebbe a dire in Senato:
‘Da noi le due grandi divisioni sociali
non sono tra il ricco e il povero ma tra il bianco e il nero; e tutti i
componenti del primo gruppo, il povero come il ricco, appartengono alla classe
alta e sono rispettati e trattati da eguali’.
Il che era
l’esatta definizione di ogni società di tipo feudale; infatti il ‘cavaliere’
anche se vestito di cenci e senza un soldo, rappresentava da noi il ceto
dominante e aveva diritto a ogni onore e rispetto; mentre il borghese, anche se
ricco, apparteneva alla classe infima.
Fu questa massa di agricoltori medi e piccoli che formò la vera ondata emotiva la quale travolse con sé quella parte moderata della stessa aristocrazia che vedeva con profonda preoccupazione il Sud correre, mediante la secessione, verso il precipizio di un terribile conflitto armato; fu ancora essa stessa che avrebbe composto la massa di quelle formidabili fanterie le quali avrebbero formato il nerbo ferreo degli eserciti del Sud. Lo stato irrazionale ed emotivo che trascinava i meridionali li stava conducendo verso quella che essi sentivano come una tragica scelta loro imposta: o vedere la loro civiltà soffocata lentamente o giocare tutto: la loro stessa vita, tutto il loro mondo, insomma tutto, sulla sola terribile carta della secessione e della guerra.
A ciò si
aggiunga, come fattore di primaria importanza, che quello del Sud era un popolo
fiero, orgoglioso, coraggioso, generoso e pronto a battersi per le sue idee; e
ciò era proprio non solo dell’aristocrazia, ma dell’intera popolazione bianca
del Sud, la quale si considerava, come si è detto, una élite, se pure formata
da gente assai modesta e addirittura nullatenente. Come scrisse anni dopo un
illustre critico militare:
‘Si trattava di un paese e un popolo del tutto
impreparato a una guerra e, in conseguenza, difficile da soggiogare perché il
coraggio che spregia la preparazione è il più atto a sfidare la disfatta’.
Il modello cui essi guardavano era quello dei loro grandi aristocratici: da costoro si aspettavano guida, ispirazione ed esempio; e non, in quei momenti di ebollizione, esitazioni o tentennamenti.
Naturalmente
questa diffusa mentalità aristocratica della gente del Sud aveva, come d’altro
canto tutte le cose umane, il proprio rovescio negativo in una diffusa
proclività alla violenza, non appena si avesse avuto la sensazione di una anche
minima lesione al proprio senso dell’onore. Il fenomeno del duello persistette
a lungo nel Sud, mentre il tasso degli omicidi era più alto negli Stati
meridionali che in quelli settentrionali. Ciò derivava sostanzialmente dal
persistere di valori patriarcali, quali la cortesia, il coraggio e un misto di
pudore e orgoglio; come per altro in tutte le società aristocratiche. I nobili
europei, dal più modesto a quelli al massimo livello, avevano sempre avuto dal
Medio Evo alla Rivoluzione francese il privilegio e il diritto di portare la
spada ed erano pronti a sguainarla alla minima provocazione (o ritenuta tale).
Secondo
un’altra tradizione, tipica anche questa di ogni società aristocratica, i
sudisti avevano una spiccata tendenza ai valori marziali e alla vita militare.
Anche un moderato come il futuro Presidente della Confederazione, Jefferson
Davis, lo disse esplicitamente parlando con l’inviato del Times di Londra: ‘noi siamo un popolo militare’. Sebbene
il totale dei cadetti all’Accademia di West Point prima della guerra civile possa
trarre in inganno, mostrando un 60% di settentrionali contro un 40% di
meridionali, occorre tener conto del fatto che in rapporto alla popolazione
bianca (18 milioni nel Nord, 5 nel Sud) i sudisti rappresentavano in realtà di
gran lunga la maggioranza relativa.
La prova della fiducia che la massa dei sudisti nutriva nel proprio ristretto gruppo dirigente si ebbe quando, compiuto il passo fatale della secessione e fondati gli Stati Confederati d’America, essi chiamarono al vertice gli aristocratici più moderati ed equilibrati e non il gruppetto dei ‘mangiafuoco’ che furono senza tanti complimenti messi da parte. Ciò sebbene alcuni (pochissimi) membri dell’aristocrazia sudista rimanessero tetragoni contro la secessione; valga per tutti l’esempio di un illustre giurista sudcaroliniano, il giudice James Louis Petigru, il quale, mentre l’intero suo Stato si schierava all’avanguardia della secessione, non esitò a condannarne l’azione, dicendo con scherno che la Carolina Meridionale era troppo piccola per essere una repubblica e troppo grande per essere un manicomio. Per tutto il tempo della guerra, fino alla morte nel 1863 egli mai celò il suo unionismo; ciò nonostante la Carolina Meridionale gli tributò solenni funerali con l’intervento di tutte le Autorità confederate mentre analoghe celebrazioni per lui avvenivano nel Nord.80
Giunti a
questo punto si potrebbe, con un po’ di audacia, spingersi verso un campo per
così dire vietato agli storici: quello della psicologia di massa. Si può quindi
azzardare un’ipotesi, che nessun documento può o potrà mai suffragare e che
quindi ha solo il valore di una pura speculazione: si direbbe dunque che il
Sud, la massa intera del popolo bianco sudista dal vertice alla base avesse
intuito, nel proprio inconscio collettivo, che il loro mondo era ormai
inevitabilmente condannato e che quindi al Sud non restava che scegliere fra ‘una
morte lenta e oscura e una breve e gloriosa’ per cui, conformemente ai loro
sentimenti più profondi i sudisti avessero scelto di perire sul palcoscenico
mondiale, in piena luce della ribalta, in modo da sopravvivere nella storia.
Ipotesi e nulla più, ma indubbiamente affascinanti. Quello però che gli studiosi di psicologia sociale hanno proposto con validissimi argomenti è che l’aggressività è la conseguenza pressoché inevitabile di un sentimento di frustrazione: e indubbiamente questo era lo stato d’animo del Sud in quel fatale anno 1860.
Con tutto
questo i sudisti, nel loro tentativo di dar vita a una Confederazione propria,
non si rendevano conto (e, in verità, non si resero mai conto) di quali
inarrestabili forze fossero alla base dell’autentica rivoluzione in sviluppo
nel Nord e contro cui la secessione andava fatalmente a cozzare. L’avvento al
vertice dell’Unione delle nuove, moderne classi sociali, gli imprenditori e
(per il momento di conserva con essi) il proletariato industriale, che avevano
la ferma aspirazione a trasformare gli Stati Uniti in unico, vasto mercato
nazionale da quella congerie di autonomie locali e di Stati con regimi sociali
ed economici diversi che essi erano, significava una ferma azione i cui
obiettivi, sagacemente posti in luce da Eric Foner, erano l’esclusione totale
dell’agricoltura a schiavi dai Territori dell’Ovest, da riservarsi alla nuova
agricoltura largamente meccanizzata del Medio Ovest e all’immigrazione dal Sud;
la libertà di lavoro, del tutto incompatibile con l’esistenza del lavoro
servile nel Sud; infine, come inevitabile corollario a quest’ultima esigenza,
la messa al bando di ogni forma di lavoro non libero.
La trasformazione radicale dell’Unione secondo tali principi trascinava logicamente con sé la concezione degli Stati Uniti come una sola, omogenea nazione; e su ciò Abraham Lincoln, che era il leader, politico e ideologico di tale concezione non transigeva: secondo il suo pensiero, l’Unione preesisteva alla stessa formulazione della Costituzione; essa aveva creato gli Stati e non viceversa. Era questo il mito di una preesistente nazione americana, che in realtà si trattava invece di creare; l’idea poderosa del nazionalismo, generata ovunque dall’avvento delle nuove classi capitaliste e dovunque realizzata mediante un’azione rivoluzionaria. Era chiaro che, di fronte a ciò, il Sud costituiva ben più che una pietra di inciampo: esso era chiaramente un corpo estraneo che si trattava di eliminare per consentire la nascita della nuova nazione americana, Con mezzi pacifici, se possibile; con la forza se necessario.
Ecco dunque la risposta al nostro
quesito iniziale.
La Guerra civile americana fu, in effetti, ciò che potremmo definire la rivoluzione nazionalista americana, la nascita di una moderna, omogenea nazione, analogamente a quanto era appena avvenuto in Italia e stava per avvenire in Germania. E di tale nazione Abraham Lincoln fu il Cavour e il Bismarck e logicamente anch’essa, come le altre due citate, si fece, secondo la definizione bismarckiana ‘con il ferro e col sangue’; né poteva essere differente. Negli Stati Uniti come in Italia e in Germania vi erano potenti gruppi i quali non desideravano affatto venire inseriti nella nuova nazione che essi continuavano a sentire estranea e anche oppressiva e che, ben lungi da dare il proprio consenso, dovettero essere addomesticati con l’uso della forza.
(R. Luraghi)