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Come dice la Bibbia, Dio guardò la sua opera e vide che era buona,
persino molto buona.
Partendo da questo stato iniziale, contrassegnato dal sigillo della
divinità, il movimento, sotto l’azione di uomini imperfetti, non può che
continuare a svolgersi nel senso della decadenza e della caduta.
Il regresso è fatale.
Le creature finiscono per cadere dall’età dell’oro nell’età del ferro;
escono dal paradiso, dove vivevano felici, per andare a sprofondare nelle acque
del diluvio, da dove non riemergono che per vegetare da questo momento in poi.
D’altra parte, le istituzioni stabili delle monarchie e delle
aristocrazie, tutti i culti ufficiali e chiusi, fondati e come murati dagli
uomini che hanno la pretesa, persino la certezza, di avere realizzato la
perfezione, presupponevano che ogni rivoluzione, ogni cambiamento dovesse
essere una caduta, un ritorno alla barbarie.
Da parte loro, gli antenati e i padri, elogiatori del tempo che fu,
contribuivano con gli Dèi e con i re a denigrare il presente rispetto al
passato e ad inculcare nelle menti il pregiudizio della regressione. I figli
tendono naturalmente a considerare come esseri superiori i genitori, che si
sono comportati nello stesso modo coi loro padri; tutti questi sentimenti,
depositati nelle menti come sedimenti alluvionali sulla riva di un fiume,
finirono per eleggere a vero e proprio dogma l’irrimediabile decadenza degli
uomini. Ancora ai nostri giorni, non è forse un’abitudine generale dissertare
in prosa o in versi sulla corruzione del secolo?
Così, con una mancanza assoluta, anche se inconsapevole di logica, gli
stessi che vantano i progressi irresistibili dell’umanità parlano volentieri
della sua decadenza. Due correnti opposte si incrociano, nel linguaggio come
nel modo di sentire. In effetti, le vecchie concezioni si scontrano con le
nuove, persino in coloro che riflettono e che non parlano con leggerezza.
L’indebolimento delle religioni è interrotto da improvvisi risvegli; ma
esse devono ugualmente cedere sotto la spinta di quelle teorie che spiegano la
formazione dei mondi con una lenta evoluzione, un graduale emergere delle cose
dal caos primitivo.
Ora, che fenomeno è questo, che lo si ammetta implicitamente, come fece
Aristotele, o che lo si riconosca con termini precisi, eloquenti, come fece
Lucrezio, se non, per definizione, il progresso stesso?
L’idea che ci sia stato progresso, nella durata delle brevi generazioni
umane e nell’insieme dell’evoluzione degli uomini, fa presa sulle menti,
soprattutto per il fatto che le ricerche geologiche ci hanno rivelato nella
successione dei fenomeni, se non un piano divino, come si diceva una volta, per
lo meno un’evoluzione naturale che affina sempre più la vita degli organismi
via via più complessi.
Così, le prime forme di vita, di cui si vedono i resti o le tracce
nelle assise più antiche della terra, presentano tratti rudimentali, uniformi,
poco differenziati, che costituiscono come altrettanti abbozzi, sempre meglio
riusciti, di specie che appariranno successivamente nella serie delle epoche.
Le piante fogliose vengono dopo i vegetali privi di foglie; gli animali
vertebrati seguono gli invertebrati; ciclo dopo ciclo, i cervelli si sviluppano;
l’uomo, ultimo arrivato, ad eccezione tuttavia dei suoi parassiti, è il solo
fra tutti gli animali che abbia acquisito con la parola la piena facoltà di
esprimere il proprio pensiero e con il fuoco il potere di trasformare la
natura.
Riportando la riflessione su un campo più ristretto, quello in cui la
storia delle nazioni è circoscritta, il progresso generale non appare con la
stessa evidenza; molte menti pessimiste hanno potuto sostenere che l’umanità
non progredisce affatto, ma si muove soltanto, guadagnando da una parte e
perdendo dall’altra, elevandosi con certi popoli, corrompendosi con altri.
Nell’epoca stessa in cui i sociologi più ottimisti preparavano la Rivoluzione
francese in nome dei progressi indefiniti dell’uomo, altri scrittori, impressionati
dai racconti degli esploratori, sedotti dalla vita semplice di lontane
popolazioni, parlavano di ritornare al genere di esistenza di questi primitivi.
Ritornare alla natura è stato l’appello di Jean-Jacques e, cosa bizzarra,
questo richiamo, pur in contrasto con quello dei Diritti dell’Uomo e della
Repubblica, si ritrova nel linguaggio e nelle idee del tempo. I rivoluzionari
vogliono ritornare sia ai secoli di Roma e di Sparta, sia ai tempi felici e
puri delle tribù preistoriche. Un movimento analogo di ritorno alla natura si
fa sentire ai giorni nostri, persino in modo più intenso che all’epoca di
Rousseau, perché la società attuale, allargata sino ad abbracciare l’intera
umanità, tende ad assimilare in maniera più profonda gli eterogenei elementi etnici
da cui le civiltà progredite erano rimaste a lungo separate. D’altra parte, le
ricerche antropologiche, gli studi sulla psicologia dei nostri fratelli
primitivi, si sono spinti molto avanti e viaggiatori di prim’ordine hanno
portato nella discussione il peso decisivo della loro testimonianza. Non ci si
deve più basare solo su semplici e ingenui racconti, come quelli di un Jean de
Lèry, di un Claude díAbbeville o di un Yves dí d’Evreux, sui Topinambous e su
altri selvaggi brasiliani, racconti che, del resto, meritano di essere
seriamente apprezzati. Si ha anche di meglio delle rapide osservazioni di un
Cook o di un Bougainville: la documentazione si è arricchita di testimonianze
molto scrupolose, ricavate da lunghe esperienze; tra le popolazioni che bisogna
incontestabilmente porre molto in alto, fra gli uomini più vicini all’ideale di
solidarietà e di amore reciproco, si deve annoverare una tribù classificata
come primitiva, quella degli Aeta, che hanno valso il nome di Negros a una
delle isole Filippine. Malgrado tutto il male che i bianchi hanno fatto loro,
questi negritos o negretti sono rimasti gentili e benevoli nei confronti dei
loro persecutori; è comunque soprattutto fra loro che si manifestano le virtù
della razza. Tutti i membri della tribù si sentono fratelli, tanto che, alla
nascita di un bambino, la grande famiglia si riunisce al completo per decidere
su un nome di buon auspicio da dare al neonato. Le unioni coniugali, sempre
monogame, dipendono dalla libera volontà degli sposi. Si curano i malati, i
bambini, gli anziani con dedizione perfetta; nessuno esercita il potere, ma ci
si inchina volentieri davanti all’anziano, per testimoniargli il rispetto
dovuto alla sua esperienza e alla sua età avanzata.
Esiste una nazione in Europa o in America alla quale si possano rendere
simili elogi?
Ma questa umile società dei buoni Aeta esiste ancora?
Ha potuto conservare i suoi nidi di ramaglie intrecciate e le sue
capanne di canne o di palme malgrado i grandi safari di caccia americani?
Prendiamo un altro esempio tra gli uomini che hanno un giro d’orizzonte
più vasto, fra quelle popolazioni che si avvicinano alla razza bianca e che,
per il loro stesso genere di vita, sono costrette a passare una grande parte
della loro esistenza fuori della capanna materna.
Gli Unungun, chiamati dai russi Aleuti, dal nome delle isole dove si
sono stabiliti, abitano una regione di pioggia, di vento e di bufere;
adattandosi all’ambiente, si costruiscono delle capanne per metà sotterranee,
formate principalmente di rami intrecciati, ricoperti da una crosta di fango
indurito, e illuminate in cima da una grossa lastra di ghiaccio. Le necessità
dell’alimentazione hanno fatto degli Aleuti anche un popolo di pescatori, abili
nel manovrare barche di pelle tesa, nelle quali si introducono come in un
tamburo. I temibili mari che percorrono ne hanno fatto degli intrepidi marinai
e dei sapienti divinatori di temporali. Alcuni, soprattutto i pescatori di
balene, diventano veri e propri naturalisti che costituiscono una corporazione
speciale, in cui si può entrare solo dopo un lungo periodo di prove. Gli
Aleuti, come i loro vicini della terra ferma, sono scultori di singolare
abilità; sono stati ritrovati oggetti molto curiosi nei loro ripari funerari,
sotto le volte delle rocce. La complessità della vita aleutina si manifesta
inoltre attraverso un codice di convenienze sociali, regolate con grande rigore
dalla consuetudine, tra parenti, affini e stranieri. Giunti a questo gradino
relativamente alto di civiltà, gli Aleuti sono rimasti fino ad epoca recente,
grazie al loro isolamento, in uno stato di pace e di perfetto equilibrio
sociale. I primi navigatori europei entrati in rapporto con loro ne decantano
all’unanimità le qualità e le virtù.
L’arcivescovo Innokenti, meglio conosciuto con il nome di Veniaminov,
che è stato testimone della loro esistenza per dieci anni, li dipinge come i
più affettuosi degli uomini, come esseri di una modestia e di una discrezione
incomparabili, che non si rendono mai colpevoli della minima violenza nel linguaggio
o nelle azioni: durante i nostri anni di vita in comune, non una parola volgare
è uscita dalle loro bocche. Non sono certo i nostri popoli dell’Occidente
europeo che, sotto questo aspetto, potrebbero paragonarsi al piccolo popolo
degli Aleuti!
Presso questi isolani lo spirito di solidarietà e la dignità della vita
morale sarebbero stati tali da far sì che dei missionari ortodossi greci si
rassegnassero a non tentare la loro conversione: a che pro insegnare loro le
nostre preghiere?
Sono migliori di noi.
A questi esempi scelti nei diversi stadi della civiltà, ognuno può
aggiungerne altri, ugualmente significativi, tratti dai viaggi dei sociologi o
dalle opere specifiche di etnologia. Si può così constatare un gran numero di
casi nei quali la superiorità morale, come pure una valutazione più serena
della vita, si riscontrano nelle società dette selvagge o barbare, di gran
lunga inferiori alla nostra per la comprensione intellettuale delle cose. Nella
spirale indefinita che l’umanità non cessa di percorrere, evolvendo su se
stessa con un movimento continuo vagamente paragonabile alla rotazione della
Terra, spesso è accaduto che certe parti del grande organismo si siano
avvicinate molto più di altre al centro ideale dell’orbita.
La legge di questo andirivieni sarà forse un giorno conosciuta in tutta
la sua precisione: attualmente, è sufficiente constatare i semplici fatti,
senza voler trarre delle conclusioni premature e, soprattutto, senza accettare
i paradossi di sociologi scoraggiati che vedono nei progressi materiali
dell’umanità solo indizi della sua reale decadenza. Grandissime menti sembrano essersi abbandonate qualche volta a questa
impressione. Il memorabile brano del ‘Malay arcipelago’, pubblicato nel 1869 da A.R.
Wallace, non può essere considerato neppure come una sorta di manifesto, una
sfida rivolta a coloro che hanno accettato senza restrizioni l’ipotesi del
progresso indefinito dell’umanità. Questa sfida aspetta ancora la sua risposta.
Non è dunque inutile ricordarne i termini e prenderli come elementi di paragone
negli studi storici: se l’ideale sociale è l’armonia della libertà individuale
con la volontà collettiva, realizzata attraverso lo sviluppo adeguatamente
equilibrato delle nostre forze intellettuali, morali e fisiche, condizione in
cui saremmo tutti e ognuno resi così idonei alla vita sociale, grazie alla
conoscenza di ciò che è giusto e per l’irresistibile propensione a conformare
ad esso la nostra condotta, che le restrizioni e le pene non avrebbero più
alcuna ragione di esistere... non è forse sorprendente che in uno stadio molto...
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