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A Chignolo,
frazione di Oneta, in valle del Riso, i lupi hanno attaccato domenica, in pieno
giorno, gli animali custoditi, a poche centinaia di metri da un’azienda che
alleva ovicaprini e una trentina di vacche da latte. La comunicazione è
arrivata dalle associazioni Pastoralismo Alpino. Tutela Rurale e il Comitato
Valseriana-tutela persone e animali dai lupi. Secondo le tre associazioni i lupi
sono poi tornati nella scorsa nottata, tra lunedì 11 e martedì 12 dicembre: il
risultato è la morte di due capre, il ferimento di un becco, una pecore e due
capre, per le quali non si sa ancora se esista una possibilità di recupero.
“Va
precisato che le reti utilizzate sono quelle “alte”, dichiarate “anti-lupo” dai
servizi regionali. Gli allevatori sostengono da tempo che queste reti che,
secondo gli amici dei lupi (e le istituzioni) dovrebbero difendere
efficacemente gli animali, servono a ben poco perché il lupo le salta in
scioltezza -spiegano le associazioni in una nota-. L’episodio rappresenta
l’ennesima conferma dell’espansione del lupo in Val Seriana. Oltre ai casi
dell’alta valle se ne aggiungono altri che indicano una rapida discesa dei predatori
verso la media valle. Veronica Borlini, la giovane allevatrice vittima della
predazione, riferisce che anche lo zio ha già subito dei danni a Gorno sul
monte Grem. Come Comitato per la tutela delle persone e degli animali dal lupo
non possiamo non stigmatizzare la persistente tendenza a minimizzare il
problema della presenza del lupo da parte delle istituzioni, in primis della
Polizia provinciale che a lungo ha negato che fossero avvistati i lupi. Per
discutere della situazione e delle iniziative da intraprendere in tema di lupi,
si terrà, alla presenza di alcuni esponenti della Regione Lombardia, un
convegno ad Ardesio il 26 gennaio”.
In Val Seriana il 2023 sarà ricordato come quello del ritorno ufficiale del lupo nel territorio. In particolare, l’ultima segnalazione è quella della fine di ottobre, quando furono visti, grazie alle fototrappole della Polizia provinciale, 4 piccoli lupi, figli della coppia avvistata a Gandellino all’incirca un anno fa. Si è trattato così del primo branco accertato dalle forze dell’ordine provinciali.
(Voci locali)
Gli ebrei
avevano l’usanza di portare un capro alla porta del Tabernacolo e il sommo
sacerdote caricava i peccati del popolo sull’animale, mandandolo poi via con il
suo carico nel deserto.
In Tibet un
capro espiatorio umano, vestito di pelle di capra, viene cacciato dalla
comunità non appena la gente ha confessato i propri peccati, e ricchi Mori tengono
un cinghiale nelle loro stalle affinché vi ‘entri’ lo spirito maligno cosicché
i loro cavalli immuni dal suo attacco.
Nel luglio 1603, nel distretto di Douvres e Jeurre cadde
una grande tempesta di grandine che danneggiò tutti gli alberi da frutto e furono
visti tre lupi misteriosi. Non avevano coda e passarono innocui attraverso un
gregge di mucche e capre, senza toccarne nessuna tranne un capretto, che uno
dei lupi portò lontano senza ferirlo in alcun modo. Questa condotta innaturale
rendeva abbastanza evidente che questi non erano veri lupi, ma stregoni che
avevano provocato la tempesta di grandine e desideravano visitare la scena del
disastro. Si diceva che il lupo più grande che guidava il branco doveva essere
lui stesso il potente malvagio.
Nel Poitou
i contadini hanno una curiosa espressione, ‘courir la galipote’, che significa
trasformarsi di notte in un lupo mannaro o in un altro animale umano e
inseguire la preda attraverso i boschi. Il galipote è il famiglio o folletto
che lo stregone ha il potere di inviare.
Nei secoli oscuri gli stregoni capaci di questo compimento venivano trattati secondo la legge, e centinaia venivano processati per aver praticato arti oscure, essendo condannati, nella maggior parte dei casi, ad essere bruciati vivi o squartatai sulla ruota. Uno dei casi storici più noti fu quello di Pierre Bourgot, il diavolo in persona che per due anni fu processato e torturato dall’inquisitore generale Boin.
Una storia
straordinaria su un lupo mannaro viene da Ansbach nel 1685:
Si diceva
che la presunta incarnazione di un borgomastro morto di quella città rapisse
uomini donne ed infanti in un borgo vicino sotto forma di lupo, divorando con
essi il bestiame. Alla fine la bestia feroce fu catturata e sgozzata, e la sua
carcassa fu avvolta in un abito di tela di cera color carne, mentre la sua
testa e il suo viso furono adornati con una parrucca color castagna e una lunga
barba bianca, dopo che il muso dell’animale era stata tagliato e sostituito con
una maschera che ricordava i lineamenti del borgomastro morto.
Questa
effige fu impiccata, la sua pelle imbottita e messa in un museo, dove fu
additata come prova dell’effettiva esistenza dei lupi mannari.
Questo
incidente sembra dimostrare che la credenza nei lupi mannari non è mai stata definitivamente
sradicata, ed è del tutto naturale che un tema che ha avuto un tale credito in
tutto il mondo si ripeta ripetutamente nella mitologia e nella letteratura.
Ciò che rende visibile il lupo mannaro è la sovreccitazione quasi sonnambulistica causata dalla paura di chi lo vede, i colpi inferti al lupo mannaro lo feriscono davvero, e per la corrispondenza dell’immateriale con il corpo materiale possono ricondurre il corpo alla sua materia originaria.
Questa
particolarità della ferita inflitta al lupo mannaro riproducendosi nell’essere
umano è sottolineata da un incidente avvenuto intorno al 1588 in un minuscolo villaggio situato tra le montagne dell’Alvernia:
un signore stava guardando una sera dalle finestre del suo castello quando vide
passare un cacciatore di sua conoscenza diretto alla caccia. Chiamandolo, lo
pregò che al suo ritorno gli riferisse la fortuna che aveva avuto nella caccia.
Il cacciatore dopo aver seguito la sua strada fu attaccato da un grosso lupo. Sparò
con la pistola senza colpire l’animale. Poi lo colpì con il suo coltello da
caccia, recidendo una delle zampe, che raccolse e mise nello zaino. Il lupo
ferito corse rapidamente nella foresta. Quando il cacciatore raggiunse il
castello raccontò all’amico della sua strana lotta con un lupo, e per
sottolineare la sua storia aprì lo zaino.
Il
proprietario riconobbe l’anello come di sua moglie, e affrettandosi in cucina
per interrogarla la trovò con un braccio nascosto sotto le pieghe di uno
scialle. Lo scostò e vide che aveva perso la mano. Poi confessò che era stata
lei che, sotto forma di lupo, aveva attaccato il cacciatore.
Fu
arrestata e bruciata viva poco dopo a Ryon.
Olao Magno dichiara che sebbene gli abitanti della Prussia, della Livonia e della Lituania, soffrano considerevolmente delle depredazioni dei lupi per quanto riguarda il loro bestiame, le loro perdite non sono così gravi in questi stati come quelle che subiscono per mano dei lupi mannari.
Alla
vigilia di Natale moltitudini di lupi mannari si radunano in un certo punto e
si uniscono per attaccare esseri umani e animali. Assediano case isolate,
sfondano le porte e divorano ogni essere vivente. Irrompono nelle cantine dove
viene conservata la birra e lì svuotano le botti, dimostrando così i loro gusti
umani. Un castello in rovina vicino a Curlandia sembra essere stato il loro
luogo d’incontro preferito, dove migliaia di persone si riuniscono per mettere
alla prova la loro agilità. Se qualcuno di loro non riesce a scavalcare le mura
del castello, viene ucciso dagli altri, poiché in tal caso sono considerati
incompetenti per il lavoro da svolgere.
La
paura dell’animale si ricollega a quell’universo di fobie, quasi sempre di
natura irrazionale, riconducibile al tema della diversità e che molto spesso ha
guidato campagne di persecuzione nei confronti non solo delle altre specie, ma
altresì di etnie diverse, di portatori di diversità o semplicemente di persone
che non aderivano ai costumi o alle credenze condivise da una particolare
comunità.
La
diffidenza verso tutto ciò che è diverso – nelle sue articolate accezioni:
paura, insofferenza, superstizione, odio – fa sì che con molta facilità l’animale
diventi una sorta di capro espiatorio ogni qualvolta un gruppo sociale o etnico
si senta minacciato per un qualsivoglia motivo. Il portatore di diversità
diventa infatti un elemento che perturba l’equilibrio e la stabilità dell’insieme,
ovvero il grado di coesione interna, e questa stessa caratteristica guida le pulsioni
a lui rivolte che quasi sempre si presentano improntate su una forte ambiguità.
Il capro espiatorio è esemplificazione dei mali che affliggono una particolare comunità, ma nello stesso tempo è punto di aggregazione dei conflitti e quindi purificatore (salvatore) del gruppo che ne decreta il sacrificio. È evidente il carattere sacrale di questo processo che manifesta un profilo relazionale ambivalente, laddove è presente la pulsione di allontanamento – tramite l’uccisione sacrificale – ma nello stesso tempo di incorporazione, seppur simbolica, del diverso.
Possiamo notare che quanto più chiuso è
il gruppo, e conseguentemente forte il concetto di identità, tanto più
facilmente si realizza questo rituale.
Nel
Medioevo l’animale era il segno che permetteva il complesso di operazioni
purificatorie necessarie per far parte della comunità cristiana; il timore
dell’animalità era fondato sulla paura di uscire dall’umanità, cioè di
contaminarsi ossia di entrare in un territorio ibrido. Sono di questo periodo
le più interessanti trattazioni di metamorfosi in animale, rischio a cui andavano
incontro coloro che volontariamente o accidentalmente si trovavano in una
particolare situazione di isolamento dalla comunità.
Andare a
vivere in un bosco, rimanere per lungo tempo solo con animali, trovarsi nella
foresta in una notte di luna piena... sono alcune delle più consuete
spiegazioni al fenomeno della trasformazione in animale, presente nei miti dei
miti dei lupi mannari, degli uomini silvestri, delle donne orso. Licantropia,
vampirismo ecc. sono altrettante manifestazioni di questa concezione di animale
come inquietante oggetto alla deriva, minaccia in grado di frastornare l’uomo e
di fargli perdere le sue caratteristiche spirituali.
L’animalità
è perciò un continente misterioso in cui è facile perdersi o naufragare.
Ritroviamo peraltro questo luogo comune un po’ in tutta la tradizione occidentale, a partire dall’Odissea di Omero per finire nel racconto La metamorfosi di Kafka. La zooantropia (ossia la paura di trasformarsi in animale) è presente in gran parte della letteratura moderna che ne ha fatto un cliché, dando vita a diverse tradizioni. Oggi col termine ‘zooantropia’ si intende anche una forma di malattia psicogena dove il soggetto non solo teme di trasformarsi in animale – spesso con forme di atteggiamenti ossessivo-compulsivi che lo portano a lavarsi in continuazione – ma talvolta è persino convinto di essersi mutato in animale e pertanto di doversi comportare di conseguenza.
La paura dell’animale
può colpire l’individuo durante il giorno e avere eventi scatenanti nella
realtà contingente (un insetto che entra dalla finestra, un cane incontrato
durante una passeggiata) oppure può manifestarsi durante il sonno. In questi
casi alcune persone arrivano addirittura a non riuscire più a dormire a causa di
incubi popolati da animali minacciosi.
Nei
racconti fantastici rinveniamo l’animale sia sotto forma concreta, ossia come
pieno protagonista della vicenda nei diversi ruoli precedentemente esaminati,
sia sotto forma simbolica – a rappresentare o a richiamare particolari significati
– o ancora come entità capace di facilitare particolari eventi. Il demone
(o, riprendendo il vocabolo greco, daimon) animale è uno spirito che abita le zone di
confine, sfuggevole e tenebroso, e si manifesta a tempo debito per punire
l’arroganza umana o comunque far comprendere all’uomo i suoi limiti.
La presenza di un daimon animale è sempre stata avvertita con timore dall’uomo, che l’ha immaginata come una figura misteriosa e potente, da pacificare ogni qual volta il patto di amicizia tra il mondo degli uomini e quello degli animali veniva turbato da ‘invasioni territoriali’ come per esempio una battuta di caccia. In molte tradizioni culturali l’attività venatoria o sacrificale ancor oggi dev’essere eseguita da un sacerdote e realizzata con opportune liturgie mirate a non turbare la suscettibilità del dio degli animali o comunque a calmare la sua ira.
Alcune fra
le teorie più accreditate, per dare una spiegazione ai graffiti paleolitici che
raffigurano scene di caccia, li considerano veri e propri tributi per
pacificare la divinità degli animali e scongiurare la sua vendetta. Il daimon animale abita le foreste, le vette dei monti,
gli abissi, in altre parole i luoghi più ostili e irraggiungibili; incarnazione
dello spirito primigenio, è il legittimo proprietario dei luoghi lussureggianti
di vegetazione, il signore delle forze primordiali. E a questo proposito è necessaria
una piccola digressione. La forza del daimon animale
è riconducibile alle rigogliose energie della natura in termini di fertilità, vigore,
istintività, piena capacità di reagire agli scacchi dati dal mondo esterno.
La capacità
della natura di riprendere possesso di quanto le è stato tolto dal lavoro
dell’uomo – pensiamo al vigore delle piante selvatiche, alla capacità riproduttiva
degli invertebrati, alle grandi calamità naturali – rafforza nell’uomo questo
senso di religiosità che nasce ovviamente da un sentimento di inferiorità e di
precarietà. Il reato di ‘animalicidio’ non solo scatena il senso di colpa – in
genere stornato attraverso un vasto repertorio di finzioni, tra cui la
cosiddetta ‘commedia dell’innocenza’ –
ma soprattutto può scatenare le ire del dio degli animali, di qui il bisogno di
una liturgia di pacificazione.
Ma il daimon animale è altresì il regno dei grandi istinti, il luogo della perdita della razionalità, della follia, del panico (parola legata a Pan, dio della natura); questo territorio presenta vaste aree di congiunzione con il mondo ultraterreno e magico, cosicché lo spirito animale si trova ad affiancare l’uomo nei riti e nelle pratiche esoteriche. Pertanto possiamo affermare che l’abbondanza di immagini e simbologie animali testimonia il valore di primo piano da sempre attribuito al daimon animale come presenza misterica propiziatoria o comunque da pacificare attraverso tributi e liturgie.
Il daimon animale come entità negativa può riemergere nell’uomo
recuperando o dando voce alle pulsioni più profonde e istintive del suo intimo:
di qui il mito della ‘bestia umana’ rinvenibile in buona parte della narrativa
del XIX e XX secolo. In queste narrazioni le pulsioni di retaggio animale –
quelle sconvenienti – vengono individuate non nel complesso della natura umana
ma nella collezione di sentimenti tenuti a freno dalle norme sociali o
adempiuti in ambito privato: l’aggressività, la pulsione sessuale, le grandi
funzioni fisiologiche.
Nei
racconti in genere il daimon animale riemerge
per una caduta di razionalità o, più genericamente, di umanità; la
trasformazione in animale viene collegata alla vita nei boschi in totale
isolamento, all’esposizione ai raggi lunari in una notte di luna piena, alle
pratiche di zoorastia, alla
morsicatura di una belva feroce, alla follia o a patologie neurologiche quali
l’epilessia. Ma ritornando genericamente al concetto di animale come simbolo
misterico possiamo dire che ha come punto di partenza l’idea, presente tanto
nella tradizione monoteista quanto in quella politeista, che alcune specie
abbiano un rapporto di comunione con la divinità: il figlio di Dio è l’agnello,
lo Spirito Santo la colomba, il Maligno il serpente, solo per citare gli esempi
classici della tradizione cristiana.
Questa comunione nasce e si fonda sul presupposto che il divino, nel bene come nel male, si appalesi prima al mondo animale poi a quello degli uomini. Le qualità misteriche dell’animale, che lo legano indissolubilmente alla sfera del sacro, sono pertanto riconducibili a una sorta di continuità tra ambito divino e animale. In altri termini, l’uomo ritiene che gli animali in genere, e alcune specie in particolare, siano graditi agli dèi: la divinità parla attraverso l’animale, si traveste da animale, elegge l’animale a suo alter ego.
È in questo senso che va letto uno degli utilizzi più frequenti della simbologia misterica dell’animale: il capro espiatorio. Il sacrificio, in genere, è connotato dall’offerta al sovrannaturale di qualcosa di prezioso per l’officiante, ma soprattutto gradito alla divinità. Esistono diverse letture della pratica sacrificale; secondo René Girard, il capro espiatorio ha il compito di prendere su di sé tutte le colpe della comunità – divenendo il colpevole che ha turbato l’ordine naturale e soprannaturale – ma al tempo stesso ha il compito, con la sua morte, di ristabilire tale armonia liberando la comunità dai mali che la affliggono.
GIRARD CI DICE
In numerosi
rituali, il sacrificio si presenta in due opposte maniere, ora come una ‘cosa
molto santa’ da cui non ci si potrebbe astenere senza grave negligenza, ora,
invece, come una specie di delitto che non si potrebbe commettere senza esporsi
a rischi altrettanto gravi.
C’è un
mistero del sacrificio…
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