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Note del Tempio in rovina (1)
....Ed io che
non conosco e non prego croci,
su una
croce di legno segneranno la mia moneta,
e il
tempo di chi la conia.
La rabbia
ci assale,
nel
ricordo del sentiero cancellato,
nella
certezza di un inganno mai raccontato.
Se anche
lo fosse, ed è,
il tempo
e denaro non permettono l’indugio della verità.
La verità
ammirata, annusata, respirata, contemplata, pregata e pianta,
nell’angolo
di un torrente, nell’antro di un caverna, nel fitto di un bosco,
al
margine di una vecchia mulattiera,
vicino ad
una lapide,
un sasso
che parla,
una croce
che urla,
un
granaio che brucia,
una casa
che piange,
una donna
che fugge,
uno sparo
che insegue,
una fila
di cadaveri che compare invisibile,
una corda
che pende,
il
silenzio di un urlo…e nessuno che ha udito.
Volti che
piangono,
volti che
scompaiono,
anime che
imprecano,
vendette
che esplodono.
Ma nel
fragore di tanto silenzio qui o lassù,
tutto il
tempo che è e ci è appartenuto, muove l’anima,
fa
vibrare l’oscuro sentimento dell’oracolo,
dello
sciamano,
del
pazzo.
Pazzi per
secoli, abbiamo contato tempo e denaro,
per il
Dio del sacrificio.
Pazzi per
millenni abbiamo confuso ragione e sentimento,
verità e
preghiera, Dio e Diavolo.
In cima
alla via, in fondo alla valle, hanno chiuso il libro
che per
millenni si è aperto ai nostri occhi,
hanno
eretto croci e segnato vie e sentieri,
cancellato
pietre e montagne,
mari e
civiltà, anime e universi,
di un
mondo e una natura che parla la sua lingua,
la sua
storia,
il verso
del tempo e del luogo,
il
geroglifico stratigrafico della pietra…
…nostra
compagna che impreca, che suda, che scorre e arma.
Il tempo
dell’essere ed appartenere,
la moneta
di un più giusto e probabile Dio. (2)
Così ora,
tra una pagina e l’altra,
che dono
come panorami mai morti della natura umana,
che offro
come acqua preziosa,
come un
fiume dove non ci bagnammo mai due volte,
ma che
tanto sangue ha visto scorrere,
compongo
in frammenti,
sentieri
e strade,
fra
scenari da non dimenticare,
fra
vallate da ricordare,
fra case
da contare,
fra sogni
da numerare,
fra
guerre da fotografare,
fra
promesse fatte e altre…
appena
scordate,
fra
templi e monoliti scolpiti,
fra croci
e cimiteri,
fra
confini e tradizioni,
che si
muovono in cartine nel sentimento di ciò che chiamano geografia,
dove
ammutoliti guardiamo amori e rancori,
gioie e
dolori,
inverni e
sudori,
ghiaccio
e fiori,
bestie e
signori,
servi e
padroni.
Fra una
pagina e l’altra,
compongo
i panorami muti alla vista,
dipingo i
volti morti alla storia,
ricompongo
le anime vive nella coscienza.
Fra una
voce e l’altra,
fra una
chiacchierata e l’altra,
con i
miei illustri ospiti, converso con Pietro,
il mio
amico Pietro,
a lui
faccio tesoro, caro lettore …. se ve ne fosse qualcuno,
dei miei
stati d’animo, e della coscienza che li compone,
del sogno
che li anima,
della
paura che li incita,
del coraggio
che arma,
della
preveggenza che li chiama.
Dell’oracolo
che li implora,
dello
sciamano che li prega,
del
Cristo che li veglia,
dell’eretico
che li implora,
del Budda
che li osserva,
di Giuda
che impreca,
del
sacerdote che conta moneta.
Con lui,
e solo con lui (il mio eretico Pietro),
lettori
ammutoliti,
viandanti
terrorizzati,
preti
ubriachi,
soldati
angosciati;
cerco il
sano conforto della dialettica,
quella a
noi negata.
Quell’oste
allegra che dona sollievo e conforto,
alla
speranza e un po’ di linfa che chiamano vita.
Quella
bevanda sacra,
che
accompagna
il felice
e ingordo pasto del viandante affamato,
su per
queste difficili vie, per questi agitati mari.
Per
quelle lontane cime,
per quei
fari dimenticati.
Quella
sete di ridere e raccontare la vita,
quella
fame di tacitare il ventre del ricordo divenuto rancore,
quel
piacere di immaginare vista ed odori,
con ugual
appetito alla stessa tavola della storia.
Alla
stessa tela del quadro,
cui
vorremmo dipingere un panorama degno della cornice,
di ciò
che chiamano tempo e denaro,
geografia
e storia.
Allo
stesso spettacolo,
dove
molti si saziarono e videro,
altri
piansero e morirono.
Allo
stesso panorama,
dove
componiamo la lenta stratigrafia della roccia,
poggiata
su roccia,
pagina
poggiata su pagina,
montagne
incastonate nella fitta trama della natura,
che
compone una lenta geologia,
tomi
accatastati nel fitto bosco della parola,
e del
pensiero che la precede,
in una
infinita biblioteca che nominano sapere,
a cui ho
dato l’onore e l’offesa di una luce prematura,
al
pensiero ed al gesto dell’uomo (classificato) evoluto.
Dove
conservo pretesa, e con essa l’ambizione,
di
perdermi in questo grande mare,
dove il
navigare non mi è facile.
Dove il
raccontare non è propizio alla natura dei tempi.
Ma spingo
la vela, arranco su per il sentiero.
Spero
così, che ciò che non si concilia con il tempo,
sposerà
serena verità di un passato mai morto,
nell’Universo
nascosto e raccolto dove ogni sogno non è mai morto,
ed ogni
illusione diviene una stella,
ogni
speranza una nuova terra.
Ciò che è
immagine,
combatte
nella difficile crosta di terra,
di ciò
che è spirito.
Non vendo
l’anima,
nel ricco
mercato prima del tempio,
non vendo
Cristo ai nuovi sacerdoti della casta,
non
incido immagini prima della scrittura,
e parole
prive di filosofia,
perché il
Sogno che difendo,
è prima
dell’immagine e della parola,
del
pensiero e la coscienza,
dell’istinto
e dell’azione.
Atemporale
al tempo e al luogo,
eterno
come l’anima e quel Dio che la compone,
imperscrutabile
come quell’onda che avvolge,
come la
particella che penetra.
Come la
vita che avanza.
Immutabile
e perfetto,
come la
simmetria che precede il tutto.
Così caro
Pietro,
siamo
diventati un algoritmo di memoria
in un
circuito prestampato,
in una
connessione super-veloce,
ricomposto
su uno schermo ultrapiatto,
digitato
dall’uno all’altro polo di un nuovo mare,
osservato
dall’uno all’altro occhio di questo oceano.
Deriso o
contemplato su ogni terra,
ed isola
che questa Odissea ci comanda.
Siamo
tornati nel difficile viaggio dell’umanità,
di nuovo
frammenti apparentemente scomposti,
di antico
e immutato sapere,
di
intuizione,
lasciata
scorrere nella nuova geografia che si forma,
ogni
volta e per tutte le volte,
che
l’infinito e perfetto compone nel grande oceano dell’Universo,
nel vasto
mare del sapere,
ogni
volta e per sempre bruciati,
al rogo
di ciò che intuimmo in ‘infiniti mondi’.
Ho
raccontato di te, Pietro,
ed ho
subito i patimenti e conosciuto l’ingiuria,
e con
essa l’ingiustizia,
che pagò
il tuo ed il mio pensiero.
Pagammo
con la vita,
la nostra
umile conversazione,
pagammo
con l’inganno la vera intuizione,
morimmo a
stento in quell’aula,
in quella
bottega,
nel
mulino della grande visione,
del sogno
che diventa verità,
del
pensiero che diventa realtà,
del Dio
che compone la sua Terra.
Pagammo
con l’offesa e con essa l’umiliazione,
con il
rogo del sacrificio,
con le
risa dell’inganno,
con il
sangue della guerra,
con la
privazione di una casa,
di una
famiglia,
di una
verità.
Non ci fu
concessa in questo mondo che creammo,
non ci fu
permessa in questo Universo che preghiamo,
non ci fu
lasciata possibilità di spiegare,
fra
un’anima e l’altra che incarniamo.
Non ci fu
possibile sognare,
non ci fu
possibile parlare,
piangere
e ascoltare,
il suono
che avevamo composto:
vento che
agita,
acqua che
penetra,
ghiaccio
che parla,
fuoco che
urla.
Non ci fu
possibile ascoltare il suono scomposto prima,
ordinato
poi,
di ciò
che è pensiero non ancora parola;
divenimmo
parola poi,
quando in
cima alla montagna,
al largo
di quel mare,
urlavamo
all’idea divenuta creazione,
componevamo
il pensiero divenuto frammento,
pregavamo
allo spirito divenuto materia,
celebravamo,
luogo
tempo e verità in oscure caverne,
in
sperduti anfratti,
in
segreti luoghi,
sognavamo
il sogno prima del sogno,
per
questa anima inquieta,
e per suo
Dio che la canta,
pagammo
con la vita per aver osato la verità.
Siamo
morti tante volte Pietro,
su quel sentiero,
in quella
strada,
nell’immenso
grande mare,
siamo
rinati altrettante vite,
nella
testimonianza di ciò che lasciammo e scrivemmo,
ricomposto
in frammenti che scriviamo e abbiamo scritto,
secoli e
millenni fa.
Così,
fra un
Universo e l’altro di un anima che li ha composti,
scopriamo
un Dio che li ha pensati,
e di una
realtà mai una verità,
che li ha
uccisi e dimenticati.
Hanno
composto così la geografia,
nel
quadrante della storia che non ci appartiene;
hanno
sacrificato così il pensiero
che non
vogliono,
ed il
sogno che non desiderano,
perché
fra desiderio e volontà c’è un baratro non compreso,
fra
spirito e materia, c’è una immensa linea stratigrafica,
fra il
divenire e l’essere,
che muove
la terra,
che segna
la crosta,
che
cambia la vita.
Ciò che
eravamo e non siamo più,
ciò che
è, ma è mutato fra il sé originario e immutato,
e il
lento divenire,
di questa
grande geologia che è fuori e dentro noi.
Ma prima
è dentro noi, poi lentamente creata.
Questo
sogno antico che non riusciamo più a sognare,
questo
pensiero primo che non riusciamo più ad afferrare,
questo
Dio che non riescono ad immaginare.
Quando
sognammo, il sogno comune della vita,
il
geroglifico della creazione,
avevamo
tanti nomi diversi, ma tutti simmetrici fra loro.
Avevamo
volti diversi,
ma
medesime linee sul corpo,
sulla
roccia,
sulla
terra.
Stessi
graffiti, stesse intuizioni, stesse paure, angosce …e visioni.
Uguali
stupori, stessi tremori, e sogni premonitori.
Ci siamo
dati nomi diversi, ma un solo intento ci unisce,
ci siamo
inchinati agli stessi dèi,
celebrato
la stessa fonte di vita,
adorato
il fuoco,
interrogati
sulla pietra,
ascoltato
il vento,
contemplato
per millenni la nostra terra,
in un
luogo e mille altri diversi.
Poi
abbiamo ritrovato le parole,
sconnesse,
divinatorie,
allucinate,
senza
apparente logica e nesso,
suoni
multiformi prima, di stupore poi;
lo
stupore è divenuto oracolo e intuizione del creato.
Stupore
di tutto nel tutto,
dove a
stento ci siamo formati,
stupore
di quel cielo nero riflesso nelle acque,
stupore
di poter uscire da queste,
per un
qualcosa che assomiglia ad un arrancare,
poi ad un
lento camminare,
in fine
una corsa retta,
agile ed
eretti su quelle che sembrano ora due gambe. (3)
Pietro,
abbiamo
ripercorso assieme tutte queste tappe della memoria,
ci siamo
visti e parlati migliaia di volte,
ti ho
riconosciuto negli occhi di tanti esseri animati e non,
la tua
anima ha vagato così a lungo ed è ovunque,
che ogni
volta trovarti mi par cosa così facile,
che gli
altri,
i
savi…dicono,
ci
guardano inorriditi, stupefatti, schifati, preoccupati,
ed in
onor della loro grande ed immensa rettitudine,
che ci
accompagna per milioni di anime più sfortunata della tua,
debbo
ritrovare e scavare nella memoria.
No!
Pietro,
non è un
semplice lavoro di archeologi della terra e della mente,
non è
solo un’opera da eruditi fuori dal tempo, disadattati alla vita,
non è
solo un fuggire a ritroso per non vedere il futuro,
respirare
il presente,
che
puntualmente celebriamo nel tempio che divide Dèi ed uomini.
Perché
troppo spesso,
in questo
sognare ci siamo sentiti esseri di altri universi,
pensieri
di altri mondi,
luce
prima della luce,
né onda
né particella.
Qualcosa
di indefinito e incomprensibile nello stesso tempo e luogo,
quando
tempo e luogo sono ancora nella nostra mente,
e vederli
pian piano comporsi, per poi dissolversi,
lasciandoci
soli in quello che altri,
nel pieno
della loro luce,
chiamano
con nomi innominabili,
con frasi
e gesti ripetuti nella costanza del loro tempo,
con una
precisione meccanica,
che nulla
ha dell’universale che pregano,
cantano e
celebrano.
Medesimi
gesti,
urla,
imprecazioni,
accuse,
umiliazioni,
morti e
resurrezioni,
privazioni,
solitudini,
angosce e
dolori.
Visioni
che ci chiamano a custodire la memoria.
Spiriti
che ci vogliono custodi di un sogno lontano,
e non
ancora del tutto svelato. (4)
(Gao
Xingjian, La montagna dell’Anima &
G. Lazzari, Frammenti in Rima)
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