Precedenti capitoli:
Se merda son le nostre, a dirlo netto.... (77)
Prosegue in:
L'avanzata continua (79) &
Il Paradiso perduto (80)
La domanda si rivela non meno urgente per il fatto di essere posta in
tono provocatorio da tanti babbei o soddisfatta con risposte apologetiche da
tanti sciocchi.
La funzione della Poesia è l’invocazione religiosa della Musa; la sua
utilità è la sperimentazione di quel misto di esaltazione e di orrore che la
sua presenza eccita.
Ma oggi?
La funzione e l’utilità rimangono le stesse: solo l’applicazione è
mutata. Un tempo la Poesia serviva per ricordare all’uomo che doveva mantenersi
in armonia con la famiglia delle creature viventi tra le quali era nato,
mediante l’obbedienza ai desideri della padrona di casa; oggi ci ricorda che
l’uomo ha ignorato l’avvertimento e ha messo sottosopra la casa con i suoi
capricciosi esperimenti filosofici, scientifici e industriali attirando la
rovina su se stesso e la sua famiglia.
L’oggi è una civiltà in cui gli emblemi primi della Poesia sono
disonorati; in cui il serpente, il leone e l’aquila appartengono al tendone del
circo; il bue, il salmone e il cinghiale all’industria dei cibi in scatola; il
cavallo da corsa e il levriero al botteghino delle scommesse; e il bosco sacro
alla segheria. Una civiltà in cui la Luna è disprezzata come un satellite senza
vita e la donna è personale statale ausiliario. In cui il denaro può comprare
ogni cosa eccetto la verità, e chiunque eccetto il Poeta posseduto dalla
verità.
Privo come sono della coda, ossia del contatto con la civiltà urbana,
tutto ciò che scrivo deve suonare assurdo e irrilevante a quelli tra voi che
sono ancora legati agli ingranaggi della macchina industriale, sia direttamente
come operai, dirigenti, commercianti o pubblicitari, sia indirettamente come
funzionari, editori, giornalisti, insegnanti o dipendenti di una rete
radiofonica.
Se siete Poeti, comprenderete che l’accettazione della mia tesi storica
vi obbliga ad una confessione di tradimento che sarete restii a fare. Avete
scelto il vostro lavoro perché vi prometteva un’entrata costante e il tempo
libero necessario per rendere un prezioso culto a metà tempo alla dèa (o
demone) che adorate.
…Ed
allora il curatore del blog (e non solo di quello ma anche dello Spirito) vi consiglia
da Poeta dalla Poesia nutrito di non leggere Rime a voi avverse di non trovare
accordi laceranti con la dèa materia che soddisfa il vostro istantaneo coito &
godimento diluito nel picciolo schermo a pochi pixle nutrito; di non cercare
misteri arcani infondati o avversi sulla Verità Prima qual Poesia arroccata a
difesa dell’antica Teologia; di cambiare, se non appagati del Principio travasato
qual Poesia o Verso che sia, ad altro panorama abdicando lo Spirito o l’Anima
in altra piacevole e comoda vista… ma quantunque sempre da una stella servita…
Giacché dalla Natura alla Natura sempre si torna… E quel che lessi lo leggo
ancora solo per udire vedere e patire il ritratto della nuova pittrice
dipingere il martirio al bosco del Cristo assiso in umile attesa della sua
eterna strofa…; ed incorniciare, o se preferite, incidere la Spirale infondere
principio della Vita per chi l’avesse smarrito…
E lui
a me….
Mentre
regnava al mondo
La
cortesia, ma poi ch’ell’è partita
E
l’Avaritia in campo compartita,
Ho
sì in odio la vita
Che,
qual novo Timon, bramo lontano
Ritirarmi
in tutto dal commercio humano.
E
però non è vano
Questo
pensier, se dentro il mio palazzo
Non
voglio cosa che porga sollazzo,
Poscia
che’ l mondo pazzo
Hoggi
più apprezza i tristi e vitiosi,
Che
non fa gli huomini saggi e virtuosi.
E
però i curiosi
Non
s’ammirin, se sol di cose meste
Bramo
ornar le mie stanze, e se sol queste
Historie
aspre e moleste
Cerco
d’haver, perché in esse mirando,
E
le sciagure altrui considerando,
Alquanto
consolando,
Anderò
del mio cor la grave pena,
Che
quasi a disperato fin mi mena.
Perché
la mia Camena,
Che
si vede seccar l’acqua del fonte,
Più
non ha, com’havea, le rime pronte,
Ma
sta con mesta fronte
Sola
e pensosa, a un pioppo secco sotto,
Con
la lira stemprata, e’ l plettro rotto.
E
tace e non fa motto,
Tutta
bramosa di veder quel giorno
Ch’a
noi Zethe e Calai faccian ritorno,
E
che scaccian d’intorno
La
mensa di Fieno, lo stuol fetente
De
l’arpie, come fero anticamente,
Quali,
oltre che col dente
Lor
famelico e ingordo, tran de’ vasi
I
cibi, forza è d'atturare i nasi
Al
puzzo lor, che quasi
Il
fiato toglie, tanto è crudo e rio
Intendami
chi può, che m’intend’io.
E
però, mastro mio,
Fate,
prego, il disegno quanto pria,
Fin
che simil pensiero ho in fantasia.
Che
da la parte mia
Anch’io
farò quel tanto che va fatto
E
da me a pien sarete soddisfatto.
Horsù,
venghisi all'atto,
Né
per spesa si stia, che già di quanto
Fa
di mestieri, ho preparato in tanto
E
ridotta in un canto
Ho
tutta la materia che vi vuole,
A
edificar questa superba mole
Ed
io a lui….
L’incontro
un libro scritto
o
forse ancora non del tutto …pregato.
La
preghiera diviene litania,
e
uguale componimento nelle pagine della storia,
la
frase sconnessa
l’oracolo
di tanti e troppi Dèi dimenticati.
E
…mai pagati!
La
moneta ti osserva, il tempo la comanda.
La
ricchezza ti scruta, la potenza l’orienta.
La
volontà la sveglia, il sangue s’appresta,
l’orgoglio
avanza.
Il
tempo, suo compagno, ti inganna,
mentre
contempli il tutto che danza.
Il
tempo ritorna in cima alla vetta,
in
cima alla stanza,
dove
il libro sporge con incuranza
e
evidenzia una verità che parla,
e
non vuol essere contata.
Una
verità che segna il tempo e non vuole tempo,
che
gela le membra, che annebbia la vista,
che
duole fin dentro le ossa,
quelle
dei vivi e quelle dei morti
…e
quelli che moriranno ancora.
Il
tempo in essa spera e comanda,
mentre
la cima con orgoglio ritrovato contempli,
come
un vecchio tomo mai morto,
come
una vecchia stampa che ravviva i ricordi.
Sembra
facile, per taluni, andare e tornare,
sembra
facile, per alcuni, andare e parlare.
Ma
io che non conosco moneta e tempo,
dovrò
patire gli inganni della storia;
ed
io che non conosco e non prego croci,
su
una croce di legno segneranno la mia moneta,
e
il tempo di chi la conia.
La
rabbia ci assale,
nel
ricordo del sentiero cancellato,
nella
certezza di un inganno mai raccontato.
Se
anche lo fosse, ed è,
il
tempo e denaro non permettono l’indugio della verità.
La
verità ammirata, annusata, respirata, contemplata,
pregata
e pianta,
nell’angolo
di un torrente, nell’antro di un caverna,
nel
fitto di un bosco,
al
margine di una vecchia mulattiera,
vicino
ad una lapide,
un
sasso che parla,
una
croce che urla,
un
granaio che brucia,
una
casa che piange,
una
donna che fugge,
uno
sparo che insegue,
una
fila di cadaveri compare invisibile,
una
corda che pende,
il
silenzio di un urlo… e nessuno che ha udito.
Volti
che piangono,
volti
che scompaiono,
anime
che imprecano,
vendette
che esplodono.
…E
L’Architetto che tutto vede e crea…
Croce gentil, ho inteso il tuo pensiero
Intieramente, e la tua fantasia (acciò la delego ancor…),
Né mi dispiace questa bizzarria,
Se come amico t’ho da dire il vero.
E son pronto e parato a far l’intiero
Disegno, e in breve lo porrò a la via,
Pur ch’io non getti l’opra, e’ l tempo via,
Ch’ogn’un per premio al fin fa il suo mestiero.
E per mostrarti ch’io son huom d’ingegno,
E ch’a Vitruvio o ad altri inferiore
Non son, del mio saper ti darò segno,
E, acciò meglio conosci il mio valore,
Eccoti d’un tellurico strato il disegno
non meno della rima v’è ingegno
nel difendere ciò che pensiam disastrato…
...La
Natura a tutti loro….
Pagammo
con la vita,
la
nostra umile conversazione,
pagammo
con l’inganno la vera intuizione,
morimmo
a stento in quell’aula,
in
quella bottega,
nel
mulino della grande visione,
del
sogno che diventa verità,
del
pensiero che diventa realtà,
del
Dio che compone la sua Terra.
Pagammo
con l’offesa e con essa l’umiliazione,
con
il rogo del sacrificio,
con
le risa dell’inganno,
con
il sangue della guerra,
con
la privazione di una casa,
di
una famiglia,
di
una verità.
Non
ci fu concessa in questo mondo che creammo,
non
ci fu permessa in questo Universo che preghiamo,
non
ci fu lasciata possibilità di spiegare,
fra
un’anima e l’altra che incarniamo.
Non
ci fu possibile sognare,
non
ci fu possibile parlare,
piangere
e ascoltare,
il
suono che avevamo composto:
vento
che agita,
acqua
che penetra,
ghiaccio
che parla,
fuoco
che urla.
Non
ci fu possibile ascoltare
il
suono scomposto prima,
ordinato
poi,
di
ciò che è pensiero non ancora parola;
divenimmo
parola poi,
quando
in cima alla montagna,
al
largo di quel mare,
urlavamo
all’idea divenuta creazione,
componevamo
il pensiero divenuto Frammento,
pregavamo
allo Spirito divenuto materia,
celebravamo,
luogo
tempo e verità in oscure caverne,
in
sperduti anfratti,
in
segreti luoghi,
sognavamo
il sogno prima del sogno,
per
questa anima inquieta,
e
per il suo Dio che la canta,
pagammo
con la vita per aver osato la verità.
Siamo
morti tante volte Giulio,
su
quella Croce,
su
quel sentiero,
in
quella strada,
nell’immenso
grande mare,
siamo
rinati altrettante vite,
nella
testimonianza di ciò che lasciammo e scrivemmo,
ricomposto
in Frammenti
che
scriviamo e abbiamo scritto,
secoli
e millenni fa….
(R. Graves; G. Lazzari; G.C. Croce)
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