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'Dossier Eremitico' (completo...)
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Legge immutabile della Natura (4)
DAL LIBRO DEL
GIORNALISTA:
Per
due ore sorvolammo la taiga (e ce ne innamorammo subito), levandoci sempre più
in alto nel cielo. A questo ci costringeva l’altezza crescente delle montagne.
Dolci e tranquilli nei dintorni di Abaza, i monti diventavano a poco a poco
severi e inquietanti. Le verdi e ridenti vallate inondate dal sole cominciarono
a restringersi gradualmente e verso la fine del percorso si mutarono in
voragini scoscese, con in fondo i fili argentati di fiumi e ruscelli.
‘Eccoci
arrivati, mi urlò il comandante dell’elicottero’.
Nella
buia valle il fiume riluceva come picchiettato di vetrini al sole, l’elicottero
lo sorvolava sempre più basso… Atterrammo su un ghiaione presso la base dei
geologi. Sapevamo che da lì fino all’abitazione dei Lykov bisognava risalire
quindici chilometri lungo il fiume e poi su per la montagna. Ma avevamo bisogno
di una guida. Trovata la guida rieccoci in aria, sorvoliamo l’Abakan
riproducendo nella stretta gola le volute del fiume.
Atterrare
vicino alla casa dei Lykov è impossibile.
E’
situata sul fianco della montagna. E, a parte il loro orto, nella taiga non c’è
una sola radura. Tuttavia da qualche parte nelle vicinanze c’è un acquitrino di
montagna su cui non si può atterrare, ma su cui si può scendere molto bassi.
Facendo ben attenzione i piloti descrivono un cerchio dopo l’altro per
avvicinarsi alla radura dove, sull’erba, luccica pericolosamente l’acqua.
Durante queste manovre vediamo sotto di noi quello stesso orto così come era
stato scoperto dall’alto.
Orto!
Delle
strisce di solchi di patate lungo il declivio, e più giù ancora delle altre verdure.
Accanto, la catapecchia annerita. Quando
abbiamo descritto il secondo cerchio abbiamo visto due figurine vicino alla
capanna: un uomo e una donna. Osservavano l’elicottero riparandosi con una mano
dal sole. Per loro la comparsa di questa macchina significa l’arrivo di esseri
umani. Sospesi sull’acquitrino gettammo nell’erba il nostro bagaglio, poi
saltammo anche noi sul cuscinetto di muschio bagnato.
Un
minuto dopo, senza bagnare i pattini d’atterraggio nell’acquitrino,
l’elicottero si sollevò elastico per nascondersi subito dietro la cresta
boscosa della montagna.
Silenzio…
Un
silenzio assordante, ben noto a chiunque si sia lanciato da un elicottero. E
proprio qui sull’acquitrino Erofej confermò la triste notizia giuntaci ad
Abaza: della famiglia dei Lykov erano rimasti solo due persone: il vecchio e la
figlia minore Agaf’ja. Dmitrij, Savin e Natal’ja erano morti l’autunno scorso
uno dietro l’altro, praticamente a catena.
‘Karp
Osipovic! Siete vivo?’.
Chiamò
Erofej avvicinandosi alla porta il cui stipite superiore gli arrivava sotto la
spalla.
Qualcuno
si mosse nell’izba. La porta cigolò e vedemmo emergere al sole un vecchietto. Lo
avevamo svegliato. Si stropicciò gli occhi, li strizzò, si passò il palmo lungo
la barba arruffata e infine esclamò:
‘Signore,
Erofej!’…
Era
chiaro che il vecchio era contento dell’incontro, mala mano non la diede a
nessuno. Avvicinandosi incrociò le braccia sul petto e si inchinò a ciascuno
dei presenti.
E
noi aspettavamo, aspettavamo. Abbiamo pensato che fosse un elicottero dei pompieri.
E ci siamo messi tutti tristi a dormire. Il vecchio riconobbe anche Nikolaj
Ustinovic, che era stato da lui l’anno prima.
‘E
questo è un ospite di Mosca. Un mio amico. Si interessa alla vostra vita’,
…disse
Erofej.
Il
vecchio si inchinò con fare circospetto nella mia direzione:
‘Siate
il benvenuto, siate il benvenuto’.
(Vasilij Peskov, Eremiti nella Taiga)
L’APPELLO
DELL’EREMITA (2014)
Quella
dell’eremita è stata da sempre una figura ambigua, vista con un misto di timore
e fascinazione.
Ma esistono eremiti contemporanei?
L’uomo
è un animale sociale, e fin dalla notte dei tempi si è organizzato in forme di
vita comunitaria, dalle tribù di cacciatori-raccoglitori alle metropoli
contemporanee. La mente dell’uomo soffre dell’assenza prolungata di contatti
con i propri simili, e in molte culture ed epoche il bando e l’esilio, cioè
l’essere estromessi dalla comunità e lasciati da soli all’‘esterno’, in quelle
che per gran parte delle storia umana erano terre selvagge e inospitali, erano
considerati punizioni peggiori alla morte.
Eppure,
se la condizione del solitario e del ‘bandito’ dalla comunità è stata associata
ai criminali e agli emarginati, basti pensare alla vicenda biblica di Caino, il
primo assassino, dall’altra la solitudine è stata, in certi casi, prerogativa
di individui superiori, che estraniandosi dal ‘mondo’ (nel senso dell’ambiente
delle relazioni sociali) si sono posti per certi versi al di sopra di esso.
La
solitudine è da sempre considerata una condizione ideale per l’introspezione,
cioè per l’esame del proprio animo, lontano dalle distrazioni e dal ‘rumore di
fondo’ prodotto dalla altre persone. Ma è anche una delle pratiche preferite
dagli asceti e dagli ‘uomini santi’ per elevarsi spiritualmente e per entrare
in contatto con l’‘altro’ mondo, quello della divinità, dei morti e degli Spiriti
della Natura. Pensiamo agli sciamani, che si isolavano per lunghi periodi in
luoghi solitari e inospitali per comunicare con il proprio spirito-guida.
Ma
anche molte figure chiave delle grandi religioni sono passate, secondo le
rispettive tradizioni, attraverso la prova cruciale della meditazione
solitaria, da Gesù, che passò quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, a
Buddha, che visse per anni nella foresta nutrendosi solo di un chicco di riso
al giorno. Il ‘mondo’, cioè l’insieme di coloro che sono rimasti nella
comunità, ha sempre considerato con un misto di timore, fascinazione e rispetto
la figura di chi si isola volontariamente dal resto dei propri simili, tanto
per la sua supposta vicinanza alle forze della natura e della divinità quanto
per la forza d’animo fuori dal comune che sicuramente doveva possedere chi
sceglieva di intraprendere una strada così onerosa.
La
tradizione cristiana è ricca di saggi, santi e monaci che si isolano dal mondo
per cercare un maggiore contatto con il divino, e per loro è stata coniata la
parola ‘eremita’, dal greco ‘erēmitēs’, cioè ‘abitante del deserto’.
La
figura dell’eremita ha giocato un ruolo importante nella cultura europea dei
secoli passati, ispirando innumerevoli storie e opere dell’arte e della
letteratura. Con l’avvento dell’età moderna è nata anche la figura dell’‘eremita
laico’, incarnata dal naufrago Robinson Crusoe, uscito dalla penna dello
scrittore inglese Daniel Defoe. Sebbene Robinson si ritrovi isolato dal mondo
non per motivi religiosi ma per un incidente, nondimeno vive una profonda
trasformazione spirituale nel corso della sua avventura, e ritorna nel ‘mondo’
come un uomo nuovo.
Il caso tornato agli onori della
cronaca negli ultimi giorni in riferimento agli ‘Eremiti’ è quello della russa Agafia Lykova, una donna
nata e vissuta in una capanna nel mezzo della taiga siberiana, a circa 250 km
dalla città più vicina, dove tuttora risiede all’età di 71 anni. I suoi
genitori appartenevano al movimento dei Vecchi credenti, una fazione
tradizionalista della Chiesa ortodossa, e nel 1936 fuggirono in Siberia per
scampare alle persecuzioni staliniste.
Per i primi 35 anni della sua vita Agafia non incontrò persone che non fossero i genitori o i fratelli. Le uniche conoscenze che Agafia aveva del mondo esterno venivano dai racconti di suo padre. La famiglia visse completamente isolata dal mondo per decenni, sopravvivendo grazie alla caccia, fino a quando non fu scoperta per caso da un gruppo di geologi che stavano facendo una ricerca nell’area. Scienziati e viaggiatori visitarono la famiglia negli anni successivi, scoprendo che i suoi membri, a causa del lungo isolamento, parlavano un dialetto russo talmente distorto da risultare quasi incomprensibile agli estranei.
Negli
anni Ottanta il viaggiatore e giornalista Vasiliy Peskov pubblicò alcuni
articoli su Agafia e la sua famiglia, e lei divenne una piccola celebrità. Il
governo sovietico si offrì di farle fare un giro della Russia a sue spese, e
durante il viaggio Agafia vide per la prima volta dei cavalli e delle
automobili, e assistette per la prima volta all’uso del denaro. Dalla morte del
padre nel 1988, Agafia è la sola sopravvissuta della famiglia, e continua a
risiedere nella casa in cui è nata in mezzo alla foresta siberiana,
rifiutandosi di lasciare il suo isolamento nonostante le numerose offerte di
accoglienza che le sono giunte da ogni parte del mondo. A dispetto della
collocazione remota, Agafia riceve numerose visite durante l’anno da parte di
viaggiatori, giornalisti e fotoreporter, che ricambiano la sua ospitalità
aiutandola nei compiti ormai troppo pesanti per lei, data l’età avanzata, come
raccogliere la legna per il fuoco in previsione del lungo inverno siberiano.
Dotata
di un’intelligenza fuori dal comune a detta di coloro che l’anno conosciuta,
Agafia accende ancora il fuoco come le ha insegnato suo padre decenni fa, con
acciarino e pietra focaia. Qualche
settimana fa, Agafia ha dovuto finalmente ammettere il passare degli anni e, in
una lettera a un giornale russo, ha lanciato un appello perché qualcuno vada
con lei nella taiga, aiutandola nei compiti ormai per lei troppo gravosi, in
modo da permetterle di rimanere nella casa dove ha sempre vissuto. Il 20
gennaio il fotografo Vladimir Nad ha risposto all’appello, annunciando che si
trasferirà da Agafia per un anno, aiutandola e girando nel contempo un film
documentario sulla sua vita. Almeno per un po’ di tempo, dunque, Agafia
continuerà a vivere nell’unica casa che ha mai conosciuto…
DAL LIBRO DEL
GIORNALISTA:
Su
queste montagne le notti sono fredde. Non avevamo tende. Agaf’ja e suo padre,
osservandoci mentre ci apprestavamo a stenderci vicino al fuoco ‘con quanto ci
aveva mandato Dio’ ci invitarono a passare la notte nell’izba. E con la
descrizione di questa bisognerà terminare le
impressioni della nostra prima giornata.
Curvateci
sotto lo stipite della porta sbucammo in un’oscurità quasi completa. La luce
azzurra della sera era visibile solo nella finestrella grande quanto due palmi.
Dopo che Agaf’ja ebbe acceso una scheggia di legno e l’ebbe fissata nel
portaschegge in mezzo all’izba ci fu possibile vedere alla meno peggio
l’interno. Persino col lucignolo le pareti erano scure – la fuliggine di molti
anni non rifletteva la luce. Anche il soffitto basso era nero come il carbone.
Orizzontalmente
sotto il soffitto erano appesi dei bastoni per asciugare i panni. Alla stesa
altezza lungo le pareti c’erano degli scaffali per le stoviglie di scorza con
le patate secche e i pinoli. In basso lungo le pareti c’erano delle grandi panche.
Su queste, come si poteva capire da alcuni stracci, dormivano e adesso si
poteva stare seduti. Alla sinistra dell’ingresso lo spazio principale era
occupato dalla stufa di pietra. Il camino della stufa, fatto anche quello di
lastre di pietra tenute insieme con l’argilla e rivestite con scorza di
betulla, non usciva attraverso il tetto, ma dal muro.
‘Allora
abbiamo fabbricato per loro questa stufa a legna. Ancora oggi mi chiedo come
abbiamo fatto a trascinarla fin qui…’, disse Erofej, che aveva già pernottato
lì più di una volta. In mezzo all’abitazione c’era un tavolino lavorato a colpi
d’accetta. Era tutto quello che c’era. Ma si stava stretti. Lo spazio di quella
tana era all’incirca di sei passi per cinque, e non si riusciva a capire come
sei adulti di entrambi i sessi avessero potuto stringersi lì tutti quegli anni.
Era
la miseria…
Il
vecchio e Agaf’ja parlavano senza agitazione e con piacere. Ma spesso la
conversazione era interrotta dal loro bisogno improvviso di pregare. Voltatisi
verso un angolo dove, evidentemente, si trovavano delle icone rese invisibili
dall’oscurità, il vecchio e la figlia intonavano a voce alta le loro preghiere,
gemevano, sospiravano rumorosamente, sgranavano con le dita i grani della loro
lestovka, il rosario usato dai vecchi credenti per tenere il conto delle
prosternazioni. La preghiera finiva all’improvviso così come era iniziata, e la
conversazione riprendeva dal punto dove era stata interrotta…
…All’ora
stabilita il vecchio e la figlia si misero a cena. Mangiarono delle patate che
intingevano nel sale macinato grosso. I chicchi di sale caduti sulle ginocchia
li raccoglievano con cura e li rimettevano nella saliera. Agaf’ja chiese agli
ospiti di portare le loro tazze e vi versò il ‘latte di cembro’. La bevanda,
preparata con acqua fredda, aveva un colore simile a quello del tè al latte e
forse anche più saporita. Agaf’ja lo aveva preparato di fronte ai nostri occhi:
aveva macinato i pinoli in un mortaio di pietra, li aveva mescolati all’acqua
in un recipiente di scorza, poi li aveva filtrati…
Agaf’ja
non aveva nessuna idea della pulizia.
Il
cencio color terra attraverso cui la bevanda era stata filtrata serviva alla
padrona di casa anche per pulirsi le mani. Ma che fare, il ‘latte’ lo bevemmo
e, procurando ad Agaf’ja un evidente piacere, lodammo sinceramente la sua
bevanda.
Avevo acquistato il libro, affascinato dalla storia incredibile dei Likova e in a particolare di Agafia. Purtroppo l'ho lasciato sul treno scendendo a Verona e non ne trovo più una copia. Sono pertanto doppiamente grato a Guiliano Lazzari per quanto ha fatto. Grazie molte
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