giuliano

sabato 22 novembre 2025

BREVE PARENTESI CON "EMILIO"

 








Da una scelta di vita 


secondo Natura






Questa influenza durevole della Profession de foi spiega come essa abbia avuto effetti immediati sulla sorte dell’intera opera, di cui un breve paragrafo ritraccerà ora la storia.

 

‘Venti anni di meditazione e tre di lavoro’, ecco il tempo che l’autore dichiara di aver dedicato all’Emilio. Nel 1759, dopo aver lungamente riflettuto, non nelle biblioteche, ma sotto le ombre della foresta di Montmorency, egli è in piena febbre creativa. È in casa del maresciallo di Luxembourg, in una torre solitaria del parco, che egli scrive l’ultima parte, la più delicata, quella che gli ‘sta più a cuore di ogni altra’.

 

La stampa dell’opera fu oggetto di cure non meno premurose di quelle dedicate dal Rousseau alla redazione. In un primo momento egli aveva concesso carta bianca ai due suoi protettori più sinceri; la marescialla di Luxembourg gli aveva trovato un editore, Malesherbes gli facilitava le pratiche ufficiali. Ma la lentezza della composizione preoccupa l’autore, che attraversava, nel novembre e dicembre 1761, un doloroso periodo di allucinazioni.




Gli specialisti di pedagogia sono responsabili di una  ‘lettura’ disciplinare miope e mortificante, che si ferma alla ‘educazione’ del sottotitolo e ignora generalmente il contesto politico. Non è meraviglia che da questo punto di vista l’Emilio, nonostante le molte intuizioni felici e tuttora valide, finisca per apparire un rudere archeologico, e il suo autore degno tutt’al più d’esser catalogato tra i ‘precursori’ di Pestatozzi, di Gentile, o magari di Jean Piaget. Del resto la lettura diretta del libro - così infelicemente vulgata nelle scuole attraverso antologie e compendi venali - non giova al lettore frettoloso e uso a ‘giudicare i libri soltanto dal titolo’; è forse l’opera più disorganica e rapsodica di Rousseau, con le sue prolisse elucubrazioni intercalate in un contesto narrativo improbabile, sempre oscillante tra il tono del sermone e le pretese del trattato filosofico.

 

Tra gli enciclopedisti e i loro avversari si dibattevano ampiamente i pro e i contro dell’educazione di Stato e si criticavano i metodi pedagogici usati nei collèges gesuitici, oratoriani e clericali in genere. Rousseau prese posizione nella voce Economia politica, illustrando eloquentemente i benefizi dell’educazione pubblica, praticata in antico da Cretesi, Spartani, Persiani, e in certo senso anche dai Romani presso i quali ‘ogni casa era una scuola di cittadini’.




In quella prospettiva l’amor di patria e l’interiorizzazione delle virtù sociali non poteva essere affidata alle famiglie, ma doveva esser posta sotto la tutela della volontà generale: ‘L’educazione pubblica sotto le regole prescritte dal governo e sotto magistrati istituiti dal sovrano è una delle massime fondamentali del governo popolare e legittimo. Se i bambini sono allevati in comune nel seno dell’eguaglianza, se sono nutriti delle leggi dello Stato e delle massime della volontà generale [...] impareranno ad amarsi come fratelli, a non voler mai altro che ciò che vuole la volontà generale’.

 

Al contrario, il programma dell’Emilio è tutto orientato in senso ‘domestico’: la cura dell’educando è affidata a un precettore privato, il punto di vista è diverso per un motivo ben preciso. Anche in questo caso, Rousseau adattò i propri princìpi regolativi alla realtà sociale che aveva sott’occhio.

 

La totale sfiducia nei governi e nelle ‘patrie’ esistenti,  soprattutto la Francia, gli fece abbandonare come impraticabile l’ideale supremo dell’educazione pubblica; ma il progetto alternativo doveva esser capace di rovesciare punto per punto la pratica pedagogica corrente.




Il nesso tra pedagogia e politica si pone dunque in termini violentemente polemici.

 

Secondo una testimonianza indiretta, Rousseau notò una volta, prima di scrivere l’Emilio, che per educare bene i giovani ‘bisognerebbe cominciare col rifondere tutta la società’. Tanto più caustica, amara, è la rinunzia all’educazione comunitaria, che ‘non esiste più e non può più esistere; dove non v’è più patria non possono esservi più cittadini. Queste due parole, patria e cittadino, debbono essere cancellate dalle lingue moderne […]. Resta l’educazione domestica o della natura’.

 

La rinunzia e il ripiego coincidono dunque con la diagnosi pessimistica della società civile tracciata nel secondo Discorso e con il programma delle ‘nuove associazioni’ che ha nel Contratto la sua carta teorica. La società di ineguali, fondata sul patto ingiusto, non può educare correttamente i suoi figli perché si è violentemente estraniata dalla natura ed ha mistificato tutti i valori. Soltanto la società giusta e legittima fondata sulla sovranità popolare potrebbe assolvere questo compito.




Ma Rousseau, proprio perché rifiutò l’utopia, non poté non porsi la grave domanda: se è possibile porre rimedio alla degradazione, da che parte rifarsi?

 

Concretamente, ritenne che riforme costituzionali circoscritte fossero possibili soltanto nei piccoli Stati a misura d’uomo, rifiutò sempre con orrore l’idea di rivoluzioni violente. I grandi stati europei a regime monarchico gli apparivano destinati a decadere e a dissolversi. Le sue preoccupazioni pedagogiche vanno ricondotte a questo quadro generale: al proposito, più o meno esplicito, di salvare il salvabile, restaurando la ‘Natura’ e la retta ragione anzitutto nel cuore e nella mente dell’individuo.

 

L’Emilio si propone dunque di delineare un programma minimo, circoscritto, di riforma civile e morale, laddove la grande riforma politica appare impraticabile. È, in questo senso, un trattato di ‘educazione domestica nelle monarchie’. Ecco perché Rousseau ha tanto insistito sulla coerenza dei suoi vari scritti. L’Emilio va letto soprattutto come un’opera a tesi, destinata a completare il ‘sistema’ politico esposto nei Discorsi e nel Contratto.




L’interlocutore dei Dialoghi insiste su questo punto:

 

Seguendo come meglio potevo il filo delle sue meditazioni, scoprii [in tutta l’opera] lo sviluppo del suo grande principio: la natura ha fatto l’uomo felice e buono, ma la società lo deprava e lo rende miserabile. L’Emilio in particolare, libro tanto letto e tanto frainteso, non è che un trattato sulla bontà originale dell’uomo, inteso a mostrare come il vizio e l’errore, estranei alla sua costituzione, s’introducano in lui dall’esterno e l’alterino insensibilmente […].

 

Suo intento non poteva essere quello di ricondurre i popoli numerosi e i grandi Stati alla loro semplicità primeva, ma soltanto di arrestare possibilmente il progresso in quegli Stati che, per le loro dimensioni ridotte e per la loro posizione geografica, sono stati preservati da una rapida corsa al perfezionamento della società ed alla decadenza della specie.




Di qui la coerenza del programma educativo, la perversità delle società degradate impone anzitutto che l’educando sia segregato dalla comunità, e sia formato, per così dire, in laboratorio. Perché nelle condizioni presenti la natura ‘buona’ possa svilupparsi e autorealizzarsi in un individuo sano, integro, moralmente autonomo e libero, è indispensabile che sia lasciata a se stessa, protetta dalla malattia sociale e posta in grado di elevarsi fino ‘all’onore di pensare’.

 

L’assunto che sorregge la trama del trattato va sempre tenuto presente, se si vogliono intendere anche i suoi aspetti più curiosi. L’autore non ebbe alcuno scrupolo ad esprimersi in termini volutamente paradossali e outrés, in antitesi alle idee correnti. Probabilmente il limite più grave consiste non tanto, come spesso si dice, nelle innegabili contraddizioni del suo piano educativo, quanto nell’astratto ed eccessivo rigore consequenziario che lo porta a ‘deformare’ l’indole e lo sviluppo del suo personaggio simbolico secondo le tesi suddette.




L’Emilio va dunque accostato alle Confessioni e ai Dialoghi. In tal senso può esser letto anche come un documento o testamento morale di straordinario interesse. Quali che siano i suoi limiti e i suoi paradossi, resta un libro vivo, discutibile e discusso. Storicamente, la critica delle vedute pedagogiche dei grandi — Platone, Montaigne, Comenio, Fénelon, Locke — la condanna della pratica didattica seguita dai curatori d’anime del suo tempo, la denunzia pungente delle distorsioni educative di cui erano vittima i figli dei grandi signori feudali, conservano tutto il loro valore documentario.

 

Ma la vitalità dell’Emilio non si limita certo a questo, e neppure ai celebri precetti dell’educazione ‘negativa’, ‘attiva’, ‘naturale’, comunque la si voglia definire, che i teorici della pedagogia hanno di volta in volta additato come suoi meriti o come indizi dell’attualità perenne dell’autore.

 

La sua influenza va al di là delle indicazioni teoriche costruttive che si è creduto di poterne trarre.




È sì anche un segno di contraddizione, un’influenza distruttiva, nella misura in cui nega l’esistenza di un problema pedagogico a se stante. Infatti Rousseau ripropone alle coscienze oneste il quesito inquietante:

 

‘come può una società iniqua pretendere di insegnare la virtù e la saggezza ai propri figli?’

 

O, in altri termini, la domanda:

 

‘chi educherà gli educatori?’

 

La pedagogia, per Rousseau, non era davvero un problema di tecnica igienica, didattica, psicologica, era anzitutto un problema politico, poiché ‘tutto dipende radicalmente dalla politica’; e insieme un problema morale, perché ‘chi distinguerà la politica dalla morale, non capirà nulla né dell’una né dell’altra’. 

(J. J. Rousseau)







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