Da una scelta di vita
Questa
influenza durevole della Profession de
foi spiega come essa abbia avuto effetti immediati sulla sorte dell’intera
opera, di cui un breve paragrafo ritraccerà ora la storia.
‘Venti anni
di meditazione e tre di lavoro’, ecco il tempo che l’autore dichiara di aver
dedicato all’Emilio.
Nel 1759, dopo aver lungamente
riflettuto, non nelle biblioteche, ma sotto le ombre della foresta di
Montmorency, egli è in piena febbre creativa. È in casa del maresciallo di
Luxembourg, in una torre solitaria del parco, che egli scrive l’ultima parte,
la più delicata, quella che gli ‘sta più a cuore di ogni altra’.
La stampa
dell’opera fu oggetto di cure non meno premurose di quelle dedicate dal
Rousseau alla redazione. In un primo momento egli aveva concesso carta bianca
ai due suoi protettori più sinceri; la marescialla di Luxembourg gli aveva
trovato un editore, Malesherbes gli facilitava le pratiche ufficiali. Ma la
lentezza della composizione preoccupa l’autore, che attraversava, nel novembre e dicembre 1761, un
doloroso periodo di allucinazioni.
Gli specialisti di pedagogia sono responsabili di una ‘lettura’ disciplinare miope e mortificante, che si ferma alla ‘educazione’ del sottotitolo e ignora generalmente il contesto politico. Non è meraviglia che da questo punto di vista l’Emilio, nonostante le molte intuizioni felici e tuttora valide, finisca per apparire un rudere archeologico, e il suo autore degno tutt’al più d’esser catalogato tra i ‘precursori’ di Pestatozzi, di Gentile, o magari di Jean Piaget. Del resto la lettura diretta del libro - così infelicemente vulgata nelle scuole attraverso antologie e compendi venali - non giova al lettore frettoloso e uso a ‘giudicare i libri soltanto dal titolo’; è forse l’opera più disorganica e rapsodica di Rousseau, con le sue prolisse elucubrazioni intercalate in un contesto narrativo improbabile, sempre oscillante tra il tono del sermone e le pretese del trattato filosofico.
Tra gli
enciclopedisti e i loro avversari si dibattevano ampiamente i pro e i contro
dell’educazione di Stato e si criticavano i metodi pedagogici usati nei
collèges gesuitici, oratoriani e clericali in genere. Rousseau prese
posizione nella voce Economia politica, illustrando eloquentemente i benefizi
dell’educazione pubblica, praticata in antico da Cretesi, Spartani, Persiani, e
in certo senso anche dai Romani presso i quali ‘ogni casa era una scuola di
cittadini’.
In quella prospettiva l’amor di patria e l’interiorizzazione delle virtù sociali non poteva essere affidata alle famiglie, ma doveva esser posta sotto la tutela della volontà generale: ‘L’educazione pubblica sotto le regole prescritte dal governo e sotto magistrati istituiti dal sovrano è una delle massime fondamentali del governo popolare e legittimo. Se i bambini sono allevati in comune nel seno dell’eguaglianza, se sono nutriti delle leggi dello Stato e delle massime della volontà generale [...] impareranno ad amarsi come fratelli, a non voler mai altro che ciò che vuole la volontà generale’.
Al
contrario, il programma dell’Emilio è tutto orientato in senso ‘domestico’: la
cura dell’educando è affidata a un precettore privato, il punto di vista è
diverso per un motivo ben preciso. Anche in questo caso, Rousseau adattò i
propri princìpi regolativi alla realtà sociale che aveva sott’occhio.
La totale
sfiducia nei governi e nelle ‘patrie’ esistenti, soprattutto la Francia, gli fece abbandonare
come impraticabile l’ideale supremo dell’educazione pubblica; ma il progetto
alternativo doveva esser capace di rovesciare punto per punto la pratica
pedagogica corrente.
Il nesso tra pedagogia e politica si pone dunque in termini violentemente polemici.
Secondo una
testimonianza indiretta, Rousseau notò una volta, prima di scrivere l’Emilio,
che per educare bene i giovani ‘bisognerebbe cominciare col rifondere tutta la
società’. Tanto più caustica, amara, è la rinunzia all’educazione comunitaria,
che ‘non esiste più e non può più esistere; dove non v’è più patria non possono
esservi più cittadini. Queste due parole, patria e cittadino, debbono essere
cancellate dalle lingue moderne […]. Resta l’educazione domestica o della
natura’.
La rinunzia e il ripiego coincidono dunque con la diagnosi
pessimistica della società civile tracciata nel secondo Discorso e con il
programma delle ‘nuove associazioni’ che ha nel Contratto la sua carta teorica.
La società di ineguali, fondata sul patto ingiusto, non può educare
correttamente i suoi figli perché si è violentemente estraniata dalla natura ed
ha mistificato tutti i valori. Soltanto la società giusta e legittima fondata
sulla sovranità popolare potrebbe assolvere questo compito.
Ma Rousseau, proprio perché rifiutò l’utopia, non poté non porsi la grave domanda: se è possibile porre rimedio alla degradazione, da che parte rifarsi?
Concretamente,
ritenne che riforme costituzionali circoscritte fossero possibili soltanto nei
piccoli Stati a misura d’uomo, rifiutò sempre con orrore l’idea di rivoluzioni
violente. I grandi stati europei a regime monarchico gli apparivano destinati a
decadere e a dissolversi. Le sue preoccupazioni pedagogiche vanno ricondotte a
questo quadro generale: al proposito, più o meno esplicito, di salvare il
salvabile, restaurando la ‘Natura’ e la retta ragione anzitutto nel cuore e
nella mente dell’individuo.
L’Emilio si
propone dunque di delineare un programma minimo, circoscritto, di riforma
civile e morale, laddove la grande riforma politica appare impraticabile. È, in
questo senso, un trattato di ‘educazione domestica nelle monarchie’. Ecco
perché Rousseau ha tanto insistito sulla coerenza dei suoi vari scritti.
L’Emilio va letto soprattutto come un’opera a tesi, destinata a completare il ‘sistema’
politico esposto nei Discorsi e nel Contratto.
L’interlocutore dei Dialoghi insiste su questo punto:
Seguendo
come meglio potevo il filo delle sue meditazioni, scoprii [in tutta l’opera] lo
sviluppo del suo grande principio: la natura ha fatto l’uomo felice e buono, ma
la società lo deprava e lo rende miserabile. L’Emilio in particolare, libro
tanto letto e tanto frainteso, non è che un trattato sulla bontà originale
dell’uomo, inteso a mostrare come il vizio e l’errore, estranei alla sua
costituzione, s’introducano in lui dall’esterno e l’alterino insensibilmente
[…].
Suo intento
non poteva essere quello di ricondurre i popoli numerosi e i grandi Stati alla
loro semplicità primeva, ma soltanto di arrestare possibilmente il progresso in
quegli Stati che, per le loro dimensioni ridotte e per la loro posizione
geografica, sono stati preservati da una rapida corsa al perfezionamento della
società ed alla decadenza della specie.
Di qui la coerenza del programma educativo, la perversità delle società degradate impone anzitutto che l’educando sia segregato dalla comunità, e sia formato, per così dire, in laboratorio. Perché nelle condizioni presenti la natura ‘buona’ possa svilupparsi e autorealizzarsi in un individuo sano, integro, moralmente autonomo e libero, è indispensabile che sia lasciata a se stessa, protetta dalla malattia sociale e posta in grado di elevarsi fino ‘all’onore di pensare’.
L’assunto
che sorregge la trama del trattato va sempre tenuto presente, se si vogliono
intendere anche i suoi aspetti più curiosi. L’autore non ebbe alcuno scrupolo
ad esprimersi in termini volutamente paradossali e outrés, in antitesi alle
idee correnti. Probabilmente il limite più grave consiste non tanto, come
spesso si dice, nelle innegabili contraddizioni del suo piano educativo, quanto
nell’astratto ed eccessivo rigore consequenziario che lo porta a ‘deformare’
l’indole e lo sviluppo del suo personaggio simbolico secondo le tesi suddette.
L’Emilio va dunque accostato alle Confessioni e ai Dialoghi. In tal senso può esser letto anche come un documento o testamento morale di straordinario interesse. Quali che siano i suoi limiti e i suoi paradossi, resta un libro vivo, discutibile e discusso. Storicamente, la critica delle vedute pedagogiche dei grandi — Platone, Montaigne, Comenio, Fénelon, Locke — la condanna della pratica didattica seguita dai curatori d’anime del suo tempo, la denunzia pungente delle distorsioni educative di cui erano vittima i figli dei grandi signori feudali, conservano tutto il loro valore documentario.
Ma la
vitalità dell’Emilio non si limita certo a questo, e neppure ai celebri
precetti dell’educazione ‘negativa’, ‘attiva’, ‘naturale’, comunque la si
voglia definire, che i teorici della pedagogia hanno di volta in volta additato
come suoi meriti o come indizi dell’attualità perenne dell’autore.
La sua influenza va al di là delle indicazioni teoriche
costruttive che si è creduto di poterne trarre.
È sì anche un segno di contraddizione, un’influenza distruttiva, nella misura in cui nega l’esistenza di un problema pedagogico a se stante. Infatti Rousseau ripropone alle coscienze oneste il quesito inquietante:
‘come
può una società iniqua pretendere di insegnare la virtù e la saggezza ai propri
figli?’
O, in altri
termini, la domanda:
‘chi
educherà gli educatori?’
La pedagogia, per Rousseau, non era davvero un problema di tecnica igienica, didattica, psicologica, era anzitutto un problema politico, poiché ‘tutto dipende radicalmente dalla politica’; e insieme un problema morale, perché ‘chi distinguerà la politica dalla morale, non capirà nulla né dell’una né dell’altra’.
(J. J.
Rousseau)
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