giuliano

domenica 19 febbraio 2017

PROGETTI: gli impiegati della Compagnia avversi al Sogno nominato vita (17)



















































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L'Inferno di questa Compagnia (18)














Ci trascinavamo lentamente, ci fermavamo, sbarcavamo soldati; proseguivamo, sbarcavamo funzionari di dogana venuti a riscuotere le gabelle su quella che sembrava una landa selvaggia, dimenticata da Dio, con una baracca di latta e un’asta per la bandiera sperdute là dentro. Sbarcavamo altri soldati che, apparentemente, dovevano vegliare sui doganieri. Alcuni di loro, a quanto ho sentito dire, annegarono nella risacca; che fosse vero o no, nessuno sembrava preoccuparsene. Venivano scaraventati a terra e si ripartiva.
La costa era ogni giorno la stessa, come se non ci fossimo mossi; ma toccammo diversi luoghi – luoghi commerciali - i cui nomi, come Gran Bassam o Piccolo Popo, sembravano appartenere a qualche sordida farsa recitata davanti a un sinistro scenario. La mia inoperosità di passeggero, l’isolamento in mezzo a tutti quegli uomini con cui non avevo niente in comune, il mare languido e oleoso, la tetra uniformità della costa, sembravano tenermi lontano dalla realtà delle cose, irretito da una fantasmagoria lugubre e assurda. La voce della risacca che si percepiva di tanto in tanto dava un piacere reale, come una parola fraterna. Era qualcosa di naturale, che aveva una ragione e un significato.




Di tanto in tanto una barca che si staccava dalla costa creava un momentaneo contatto con la realtà. Era portata da rematori neri. Di lontano si vedeva splendere il bianco dei loro occhi. Urlavano, cantavano; i loro corpi grondavano sudore, avevano volti simili a maschere grottesche, quegli esseri; ma avevano nerbo, muscoli, una vitalità selvaggia, un’intensa energia di movimenti, naturale e autentica come la risacca lungo la loro costa. Loro non avevano bisogno di un pretesto per essere là. Provavo un gran sollievo a guardarli: era come se mi sentissi di appartenere ancora a un mondo lineare e concreto, ma era una sensazione che durava poco. Sopraggiungeva qualcosa che faceva presto a scacciarla.
Un giorno, mi ricordo, ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata al largo della costa. Non si vedeva neanche una capanna, eppure bombardava la boscaglia. Sembra che i Francesi avessero una delle loro guerre in corso da quelle parti. La bandiera nazionale penzolava flaccida come un cencio; le bocche dei lunghi cannoni da centocinquanta, spuntavano da ogni parte dello scafo basso. Il mare lungo, grasso e fangoso sollevava pigramente la nave per lasciarla poi ricadere, facendo oscillare gli alberi affilati. Nella vuota immensità del cielo, del mare e della terra, stava là, incomprensibile, a far fuoco su un continente.




Bum! partiva il colpo di uno dei cannoni da centocinquanta; una piccola fiamma saettava e svaniva; una sottile fumata bianca scompariva subito, un minuscolo proiettile passava fischiando, e non accadeva nulla.
Poteva accadere qualcosa?
C’era un tocco di follia in quell’azione, un’impressione di macabra buffonata nello spettacolo, che non si dissolse neppure quando qualcuno a bordo mi assicurò con grande convinzione che c’era un campo di indigeni - lui li chiamava nemici! nascosto da qualche parte.

Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo.

‘Ecco la stazione della sua Compagnia’, disse lo svedese indicando col dito tre edifici di legno, simili a caserme, sulla salita scoscesa.
‘Le faccio portare su la sua roba’.
Il mio primo colloquio con il direttore fu bizzarro. Malgrado quella mattina avessi trenta chilometri nelle gambe, non mi offrì neanche una sedia.
Era un uomo ordinario nell’aspetto, nei lineamenti, nei modi, anche nella voce. Di statura media e costituzione normale. Gli occhi, di un azzurro comune, erano freddi, forse in maniera singolare, e certamente sapeva far cadere su di voi uno sguardo tagliente e pesante come un’accetta. Ma anche in quei momenti il resto della sua persona sembrava smentirne l’intenzione. Altrimenti c’era solo un'indefinibile, sfuggente espressione nelle sue labbra, qualcosa di furtivo - un sorriso?





No, non un sorriso - me lo ricordo, ma non so spiegarlo.
Era inconscio, quel sorriso, anche se, subito dopo aver detto qualcosa, si accentuava per un momento.
Giungeva alla fine dei suoi discorsi come un sigillo posto sulle parole, per rendere enigmatico il significato della frase più banale. Era un comune commerciante, impiegato in quei paraggi fin dalla giovinezza: niente di più. Si faceva ubbidire, anche se non ispirava né amore né paura, nemmeno rispetto.
Suscitava disagio.
Ecco! Disagio.
Non una diffidenza vera e propria - solo disagio - niente di più. Non avete idea di quanto efficace tale facoltà possa essere.
Non aveva nessuno spirito di iniziativa, nessuna attitudine per l’organizzazione, neanche per la disciplina. Il che risultava evidente, per esempio, dallo stato deplorevole in cui giaceva la stazione.
Non aveva cultura, né intelligenza.
Occupava quella posizione... perché?
Forse perché non si era mai ammalato...




Erano già tre periodi di tre anni che era in servizio laggiù... Perché nella generale disfatta delle costituzioni, una salute trionfante è di per sé una forza. Quando tornava a casa, in licenza, gozzovigliava su grande scala, fastosamente. Il marinaio a terra..., con qualche differenza solo apparente. Lo si indovinava da quello che lasciava cadere nella conversazione.
Da lui non nasceva nulla, sapeva far andare avanti l’ordinaria amministrazione, tutto qui.
Però era grande nella meschina piccolezza.
Era grande per la semplice ragione che era impossibile capire che cosa facesse presa su quell’uomo. Non svelò mai il suo segreto. Forse non c’era niente dentro di lui. Ma un tal sospetto dava da pensare, perché laggiù non esistevano controlli esterni. Una volta, quando quasi tutti gli ‘agenti’ della stazione erano stati colpiti dalle varie malattie tropicali, lo si intese dire: ‘Gli uomini che vengono qui non dovrebbero avere visceri’.
Sigillò la dichiarazione con quel suo sorriso, come se avesse socchiuso la porta della tenebra di cui lui aveva la custodia. Vi sembrava di aver visto qualcosa, ma il sigillo era già stato messo.




Infastidito dalle continue discussioni sorte fra i bianchi per questioni di precedenza durante l’ora dei pasti, un giorno fece costruire un’immensa tavola rotonda, per la quale fu fabbricato un apposito edificio, che poi divenne la mensa della stazione. Dove si sedeva lui, era il posto d’onore, il resto non esisteva. Si capiva che di questo era assolutamente convinto.
Non era né cortese né scortese.
Stava zitto…. Quando non urlava imprecava e intimoriva…
Permetteva che il suo ‘servitore’, un giovane nero della costa, supernutrito, trattasse i bianchi, anche sotto i suoi occhi, con provocante arroganza.
Incominciò a parlare non appena mi vide. Avevo impiegato molto ad arrivare. Non aveva più potuto aspettarmi. Aveva dovuto andarsene senza di me. Doveva soccorrere le stazioni a monte del fiume. C’erano stati già così tanti rinvii che non sapeva chi era vivo e chi era morto, né come se la cavavano, ecc., ecc.
Non prestò alcuna attenzione alle mie spiegazioni e, giocando con un bastoncino di ceralacca, ripeté parecchie volte che la situazione era ‘molto grave, gravissima’.




Mentre mi avvicinavo al bagliore provenendo dall’oscurità, mi trovai alle spalle di due uomini che stavano discorrendo.
Sentii pronunciare il nome di Kurtz, poi le parole, ‘approfittare di questo incidente disgraziato’.
Uno dei due era il direttore.
Gli augurai la buona sera.
‘Ha mai visto una cosa simile, eh? È incredibile’, disse e si allontanò.
L’altro rimase.
Era un agente di prima classe, giovane, distinto, un po’ riservato, con una barbetta a due punte e il naso adunco. Teneva a distanza gli altri agenti che, da parte loro, dicevano che lui era la spia del direttore. Prima di allora non gli avevo quasi mai rivolto la parola. Ci mettemmo a conversare e, poco a poco, ci allontanammo dalle rovine sfrigolanti. Mi invitò allora nella sua stanza, che era nell’edificio principale della stazione. Accese un fiammifero, e notai che quel giovane aristocratico non solo possedeva un necessaire da toeletta con la montatura d’argento, ma anche una candela tutta per sé. A quel tempo era previsto che solo il direttore avesse diritto alle candele. Le pareti di argilla erano coperte da stuoie indigene: vi era appesa, come un trofeo, una collezione di lance, zagaglie, scudi, coltelli.
L’incarico affidato a questo tale, mi era stato detto, era di fabbricare mattoni; ma nella stazione non c’era traccia di mattoni, neanche un frammento, ed era già più di un anno che era lì: ad aspettare. A quanto pare, per fare i mattoni, gli mancava qualcosa, non so cosa esattamente, della paglia, forse. In ogni modo lì non la si poteva trovare, e siccome era improbabile che la spedissero dall’Europa, non mi era chiaro che cosa stesse aspettando….




….C’erano macchie luccicanti sull’acqua nera dell’insenatura. La luna aveva steso su ogni cosa un sottile strato d’argento: sull'erba folta, sul fango, sulla muraglia di vegetazione intricata che si ergeva più alta delle mura di un tempio, sul grande fiume che, attraverso una breccia scura, vedevo scintillare, mentre scorreva nel suo ampio letto senza un mormorio.
Tutto era imponente, vigile, silenzioso, mentre quell’uomo si diffondeva in chiacchiere su di sé. E io mi domandavo se quella quiete sul volto dell’immensità che ci guardava fosse una supplica o una minaccia.
Che cos’eravamo noi che eravamo andati a sperderci laggiù?
Potevamo dominare quella cosa muta o ci avrebbe dominato lei?
Sentivo la grandezza, la smisurata  grandezza di quella cosa che non poteva parlare, e forse nemmeno udire.
Che cosa conteneva?
Vedevo uscirne un po’ di avorio, e avevo sentito dire che lì dentro c’era il signor Kurtz.




Dio sa se me l’ero sentito dire! Eppure non riuscivo a immaginarmelo, non più che se mi avessero detto che lì dentro c’era un angelo o un demonio. Ci credevo come qualcuno di voi potrebbe credere che Marte è abitato. Una volta ho conosciuto un velaio scozzese che era sicuro, anzi sicurissimo, che su Marte ci fossero degli uomini. Se gli si chiedeva che aspetto avessero o come si comportassero, diventava elusivo e mormorava qualcosa tipo ‘camminano a quattro zampe’. Ma se si osava anche solo sorridere, vi proponeva subito, benché fosse un uomo di sessant’anni, di fare a pugni. Non sarei arrivato al punto di fare a pugni per Kurtz, ma per lui sono andato molto vicino alla menzogna.
Voi sapete che io odio, detesto, non tollero la menzogna; non perché io sia più retto degli altri, ma solo perché mi sgomenta. Nella menzogna c’è un odore di morte, di corruzione della carne, che mi ricorda ciò che mi fa più orrore al mondo e che cerco di dimenticare. Mi fa star male, mi dà la nausea come se avessi in bocca qualcosa di marcio. Questione di temperamento, credo.




Beh!, ci andai molto vicino, lasciando credere a quel giovane imbecille quel che più gli piaceva riguardo alle mie amicizie influenti in Europa.
In un attimo divenni anch’io parte della finzione, come il resto dei pellegrini stregati. Lo feci semplicemente perché avevo la vaga sensazione che in questo modo sarei stato d’aiuto a quel Kurtz, che pure non riuscivo a figurarmi, capite.
Era solo una parola per me.
Non vedevo l’uomo dietro a quel nome, non più di quanto lo vediate voi.
Voi lo vedete?
E la storia la vedete?
Vedete qualcosa?
È come se stessi cercando di raccontarvi un sogno, e non ci riuscissi, perché non c’è resoconto di un sogno che possa rendere la sensazione del sogno, quel miscuglio di assurdità, di sorpresa e di sconcerto nello spasimo di un’affannata ribellione, quella sensazione di essere prigionieri dell’incredibile che è l’essenza stessa dei sogni...




Restò un attimo in silenzio.
‘...No, è impossibile. È impossibile comunicare la sensazione della vita di un qualsiasi momento della propria esistenza, ciò che rende la sua verità, il suo significato, la sua essenza sottile e penetrante. È impossibile. Viviamo come sognamo: soli’.
Tacque di nuovo come per riflettere, poi aggiunse: ‘Naturalmente voi, in questa storia, vedete più di quanto io potessi allora. Vedete me, me, che voi conoscete...’.
Si era fatto così buio che noi che ascoltavamo non riuscivamo quasi a vederci l’un l’altro, e già da tempo, lui, che era seduto un po’ in disparte, non era che una voce per noi.
Nessuno parlò.
Può darsi che gli altri si fossero addormentati, ma io ero sveglio e stavo ad ascoltare, ad ascoltare, aspettando vigile e impaziente la frase, la parola che mi desse la chiave del lieve disagio suscitato da quel racconto che sembrava formarsi da solo, senza labbra umane, nell’aria greve della notte sul fiume….
(J. Conrad, Cuore di Tenebra)

















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