Precedenti capitoli:
Progetti.... (16/1) &
L'industria anarchica (3/1)
Prosegue in:
L'Inferno di questa Compagnia (18)
Ci trascinavamo lentamente, ci fermavamo, sbarcavamo soldati;
proseguivamo, sbarcavamo funzionari di dogana venuti a riscuotere le gabelle su
quella che sembrava una landa selvaggia, dimenticata da Dio, con una baracca di
latta e un’asta per la bandiera sperdute là dentro. Sbarcavamo altri soldati che,
apparentemente, dovevano vegliare sui doganieri. Alcuni di loro, a quanto ho
sentito dire, annegarono nella risacca; che fosse vero o no, nessuno sembrava
preoccuparsene. Venivano scaraventati a terra e si ripartiva.
La costa era ogni giorno la stessa, come se non ci fossimo mossi; ma
toccammo diversi luoghi – luoghi commerciali - i cui nomi, come Gran Bassam o
Piccolo Popo, sembravano appartenere a qualche sordida farsa recitata davanti a
un sinistro scenario. La mia inoperosità di passeggero, l’isolamento in mezzo a
tutti quegli uomini con cui non avevo niente in comune, il mare languido e
oleoso, la tetra uniformità della costa, sembravano tenermi lontano dalla
realtà delle cose, irretito da una fantasmagoria lugubre e assurda. La voce della
risacca che si percepiva di tanto in tanto dava un piacere reale, come una
parola fraterna. Era qualcosa di naturale, che aveva una ragione e un
significato.
Di tanto in tanto una barca che si staccava dalla costa creava un
momentaneo contatto con la realtà. Era portata da rematori neri. Di lontano si
vedeva splendere il bianco dei loro occhi. Urlavano, cantavano; i loro corpi
grondavano sudore, avevano volti simili a maschere grottesche, quegli esseri;
ma avevano nerbo, muscoli, una vitalità selvaggia, un’intensa energia di movimenti,
naturale e autentica come la risacca lungo la loro costa. Loro non avevano bisogno
di un pretesto per essere là. Provavo un gran sollievo a guardarli: era come se
mi sentissi di appartenere ancora a un mondo lineare e concreto, ma era una
sensazione che durava poco. Sopraggiungeva qualcosa che faceva presto a
scacciarla.
Un giorno, mi ricordo, ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata al
largo della costa. Non si vedeva neanche una capanna, eppure bombardava la
boscaglia. Sembra che i Francesi avessero una delle loro guerre in corso da
quelle parti. La bandiera nazionale penzolava flaccida come un cencio; le
bocche dei lunghi cannoni da centocinquanta, spuntavano da ogni parte dello
scafo basso. Il mare lungo, grasso e fangoso sollevava pigramente la nave per
lasciarla poi ricadere, facendo oscillare gli alberi affilati. Nella vuota immensità del cielo, del mare e della terra, stava là,
incomprensibile, a far fuoco su un continente.
Bum! partiva il colpo di uno dei cannoni da centocinquanta; una piccola
fiamma saettava e svaniva; una sottile fumata bianca scompariva subito, un
minuscolo proiettile passava fischiando, e non accadeva nulla.
Poteva accadere qualcosa?
C’era un tocco di follia in quell’azione, un’impressione di macabra buffonata
nello spettacolo, che non si dissolse neppure quando qualcuno a bordo mi
assicurò con grande convinzione che c’era un campo di indigeni - lui li chiamava
nemici! nascosto da qualche parte.
Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo.
‘Ecco la stazione della sua Compagnia’, disse lo svedese
indicando col dito tre edifici di legno, simili a caserme, sulla salita
scoscesa.
‘Le faccio portare su la sua roba’.
Il mio primo colloquio con il direttore fu bizzarro. Malgrado
quella mattina avessi trenta chilometri nelle gambe, non mi offrì neanche una
sedia.
Era un uomo ordinario nell’aspetto, nei lineamenti, nei modi, anche
nella voce. Di statura media e costituzione normale. Gli occhi, di un azzurro
comune, erano freddi, forse in maniera singolare, e certamente sapeva far
cadere su di voi uno sguardo tagliente e pesante come un’accetta. Ma anche in
quei momenti il resto della sua persona sembrava smentirne l’intenzione. Altrimenti
c’era solo un'indefinibile, sfuggente espressione nelle sue labbra, qualcosa di
furtivo - un sorriso?
No, non un sorriso - me lo ricordo, ma non so spiegarlo.
Era inconscio, quel sorriso, anche se, subito dopo aver detto qualcosa,
si accentuava per un momento.
Giungeva alla fine dei suoi discorsi come un sigillo posto sulle
parole, per rendere enigmatico il significato della frase più banale. Era un
comune commerciante, impiegato in quei paraggi fin dalla giovinezza: niente di
più. Si faceva ubbidire, anche se non ispirava né amore né paura, nemmeno rispetto.
Suscitava disagio.
Ecco! Disagio.
Non una diffidenza vera e propria - solo disagio - niente di più. Non
avete idea di quanto efficace tale facoltà possa essere.
Non aveva nessuno spirito di iniziativa, nessuna attitudine per l’organizzazione,
neanche per la disciplina. Il che risultava evidente, per esempio, dallo stato
deplorevole in cui giaceva la stazione.
Non aveva cultura, né intelligenza.
Occupava quella posizione... perché?
Forse perché non si era mai ammalato...
Erano già tre periodi di tre anni che era in servizio laggiù... Perché
nella generale disfatta delle costituzioni, una salute trionfante è di per sé
una forza. Quando tornava a casa, in licenza, gozzovigliava su grande scala,
fastosamente. Il marinaio a terra..., con qualche differenza solo apparente. Lo
si indovinava da quello che lasciava cadere nella conversazione.
Da lui non nasceva nulla, sapeva far andare avanti l’ordinaria
amministrazione, tutto qui.
Però era grande nella meschina piccolezza.
Era grande per la semplice ragione che era impossibile capire che cosa
facesse presa su quell’uomo. Non svelò mai il suo segreto. Forse non c’era
niente dentro di lui. Ma un tal sospetto dava da pensare, perché laggiù non
esistevano controlli esterni. Una volta, quando quasi tutti gli ‘agenti’ della
stazione erano stati colpiti dalle varie malattie tropicali, lo si intese dire:
‘Gli uomini che vengono qui non dovrebbero avere visceri’.
Sigillò la dichiarazione con quel suo sorriso, come se avesse socchiuso
la porta della tenebra di cui lui aveva la custodia. Vi sembrava di aver visto
qualcosa, ma il sigillo era già stato messo.
Infastidito dalle continue discussioni sorte fra i bianchi per
questioni di precedenza durante l’ora dei pasti, un giorno fece costruire un’immensa
tavola rotonda, per la quale fu fabbricato un apposito edificio, che poi
divenne la mensa della stazione. Dove si sedeva lui, era il posto d’onore, il
resto non esisteva. Si capiva che di questo era assolutamente convinto.
Non era né cortese né scortese.
Stava zitto…. Quando non urlava imprecava e intimoriva…
Permetteva che il suo ‘servitore’, un giovane nero della costa,
supernutrito, trattasse i bianchi, anche sotto i suoi occhi, con provocante
arroganza.
Incominciò a parlare non appena mi vide. Avevo impiegato molto ad
arrivare. Non aveva più potuto aspettarmi. Aveva dovuto andarsene senza di me. Doveva
soccorrere le stazioni a monte del fiume. C’erano stati già così tanti rinvii
che non sapeva chi era vivo e chi era morto, né come se la cavavano, ecc., ecc.
Non prestò alcuna attenzione alle mie spiegazioni e, giocando con un
bastoncino di ceralacca, ripeté parecchie volte che la situazione era ‘molto
grave, gravissima’.
Mentre mi avvicinavo al bagliore provenendo dall’oscurità, mi trovai
alle spalle di due uomini che stavano discorrendo.
Sentii pronunciare il nome di Kurtz, poi le parole, ‘approfittare di
questo incidente disgraziato’.
Uno dei due era il direttore.
Gli augurai la buona sera.
‘Ha mai visto una cosa simile, eh? È incredibile’, disse e si
allontanò.
L’altro rimase.
Era un agente di prima classe, giovane, distinto, un po’ riservato, con
una barbetta a due punte e il naso adunco. Teneva a distanza gli altri agenti
che, da parte loro, dicevano che lui era la spia del direttore. Prima di allora
non gli avevo quasi mai rivolto la parola. Ci mettemmo a conversare e, poco a
poco, ci allontanammo dalle rovine sfrigolanti. Mi invitò allora nella sua
stanza, che era nell’edificio principale della stazione. Accese un fiammifero,
e notai che quel giovane aristocratico non solo possedeva un necessaire da
toeletta con la montatura d’argento, ma anche una candela tutta per sé. A quel
tempo era previsto che solo il direttore avesse diritto alle candele. Le pareti
di argilla erano coperte da stuoie indigene: vi era appesa, come un trofeo, una
collezione di lance, zagaglie, scudi, coltelli.
L’incarico affidato a questo tale, mi era stato detto, era
di fabbricare mattoni; ma nella stazione non c’era traccia di mattoni,
neanche un frammento, ed era già più di un anno che era lì: ad aspettare. A quanto
pare, per fare i mattoni, gli mancava qualcosa, non so cosa esattamente, della paglia,
forse. In ogni modo lì non la si poteva trovare, e siccome era improbabile che
la spedissero dall’Europa, non mi era chiaro che cosa stesse aspettando….
….C’erano macchie luccicanti sull’acqua nera dell’insenatura. La luna
aveva steso su ogni cosa un sottile strato d’argento: sull'erba folta, sul
fango, sulla muraglia di vegetazione intricata che si ergeva più alta delle
mura di un tempio, sul grande fiume che, attraverso una breccia scura, vedevo
scintillare, mentre scorreva nel suo ampio letto senza un mormorio.
Tutto era imponente, vigile, silenzioso, mentre quell’uomo si
diffondeva in chiacchiere su di sé. E io mi domandavo se quella quiete sul
volto dell’immensità che ci guardava fosse una supplica o una minaccia.
Che cos’eravamo noi che eravamo andati a sperderci laggiù?
Potevamo dominare quella cosa muta o ci avrebbe dominato lei?
Sentivo la grandezza, la smisurata grandezza di quella cosa che non poteva
parlare, e forse nemmeno udire.
Che cosa conteneva?
Vedevo uscirne un po’ di avorio, e avevo sentito dire che lì dentro c’era
il signor Kurtz.
Dio sa se me l’ero sentito dire! Eppure non riuscivo a immaginarmelo,
non più che se mi avessero detto che lì dentro c’era un angelo o un demonio. Ci
credevo come qualcuno di voi potrebbe credere che Marte è abitato. Una volta ho
conosciuto un velaio scozzese che era sicuro, anzi sicurissimo, che su Marte ci
fossero degli uomini. Se gli si chiedeva che aspetto avessero o come si
comportassero, diventava elusivo e mormorava qualcosa tipo ‘camminano a quattro
zampe’. Ma se si osava anche solo sorridere, vi proponeva subito, benché fosse
un uomo di sessant’anni, di fare a pugni. Non sarei arrivato al punto di fare a
pugni per Kurtz, ma per lui sono andato molto vicino alla menzogna.
Voi sapete che io odio, detesto, non tollero la menzogna; non perché io
sia più retto degli altri, ma solo perché mi sgomenta. Nella menzogna c’è un odore
di morte, di corruzione della carne, che mi ricorda ciò che mi fa più orrore al
mondo e che cerco di dimenticare. Mi fa star male, mi dà la nausea come se
avessi in bocca qualcosa di marcio. Questione di temperamento, credo.
Beh!, ci andai molto vicino, lasciando credere a quel giovane imbecille
quel che più gli piaceva riguardo alle mie amicizie influenti in Europa.
In un attimo divenni anch’io parte della finzione, come il resto dei
pellegrini stregati. Lo feci semplicemente perché avevo la vaga sensazione che
in questo modo sarei stato d’aiuto a quel Kurtz, che pure non riuscivo a
figurarmi, capite.
Era solo una parola per me.
Non vedevo l’uomo dietro a quel nome, non più di quanto lo vediate voi.
Voi lo vedete?
E la storia la vedete?
Vedete qualcosa?
È come se stessi cercando di raccontarvi un sogno, e non ci riuscissi,
perché non c’è resoconto di un sogno che possa rendere la sensazione del sogno,
quel miscuglio di assurdità, di sorpresa e di sconcerto nello spasimo di un’affannata
ribellione, quella sensazione di essere prigionieri dell’incredibile che è l’essenza
stessa dei sogni...
Restò un attimo in silenzio.
‘...No, è impossibile. È impossibile comunicare la sensazione della
vita di un qualsiasi momento della propria esistenza, ciò che rende la sua verità,
il suo significato, la sua essenza sottile e penetrante. È impossibile. Viviamo
come sognamo: soli’.
Tacque di nuovo come per riflettere, poi aggiunse: ‘Naturalmente voi,
in questa storia, vedete più di quanto io potessi allora. Vedete me, me, che
voi conoscete...’.
Si era fatto così buio che noi che ascoltavamo non riuscivamo quasi a
vederci l’un l’altro, e già da tempo, lui, che era seduto un po’ in disparte,
non era che una voce per noi.
Nessuno parlò.
Può darsi che gli altri si fossero addormentati, ma io ero sveglio e
stavo ad ascoltare, ad ascoltare, aspettando vigile e impaziente la frase, la
parola che mi desse la chiave del lieve disagio suscitato da quel racconto che
sembrava formarsi da solo, senza labbra umane, nell’aria greve della notte sul
fiume….
(J. Conrad, Cuore di Tenebra)
Nessun commento:
Posta un commento