giuliano

sabato 2 dicembre 2017

IL BOCCONE BREVE L'ARTE INFINITA ovvero servi & governanti (50)









































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Il boccone breve l'Arte Infinita ovvero: servi & governanti (49)

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Alla ricerca dell' 'immacolata' (e più certa) ricchezza di vita (51)














Bisogna fare il muso secondo la luna, dice il proverbio, e dice bene. A furia di rifletterci sopra finii col risolvermi ad essere briccone coi bricconi e piú degli altri, se potessi.

…Non so se ci riuscissi; però stia sicuro, signor lettore, che feci tutto il possibile…

Innanzi tutto, a quanti maiali si fossero introdotti in casa o polli della padrona di casa fossero dalla corte entrati in camera mia, pena la vita. Avvenne che un giorno entrarono due porci (forse meglio chiamarli nominarli con il vero loro nome scrofe di corte…) della più bella presenza che avessi mai veduto.

Ero a giocare cogli altri domestici, quando li sentii grugnire, sì che dissi a uno:

‘Vada un po’ a vedere chi è che grugnisce in casa nostra’.

Andò e disse che erano due porcelloni. Al sentir questo, io tanto mi adirai che uscii fuori a dire che era una bella birbonata e una grande sfacciataggine venire a grugnire in casa degli altri; e in così dire, chiusa la porta, gl’infilzai con la spada l’uno e l’altro e subito li finimmo a colpi sulla collottola. E perché non si sentisse lo strepito che facevano, noi tutti e due insieme gridavamo a squarciagola come se si cantasse, finché ci morirono fra le mani.

Li sventrammo, ne raccogliemmo il sangue e nella corte li strinammo a furia di paglia dei sacconi, di modo che, quando vennero i nostri padroni, tutto era fatto alla men peggio, tranne che delle budella non s’era finito di farne sanguinacci; né già per poca sveltezza, ma perché, appunto per non indugiare, ci avevamo lasciato per metà quello che c’era dentro.

Don Diego pertanto e il maggiordomo, saputo come era andata la cosa, si inquietarono con me sì da costringere i dozzinanti, a nulla valendo il ridere che facevano, a prendere le mie difese. Mi domandò Don Diego che cosa avrei risposto se mi si accusava e se la giustizia mi arrestava; gli risposi che me ne sarei appellato alla fame, riparo degli studenti, e che se ciò non fosse valso avrei detto: ‘Dal momento che se n’entrarono senza picchiare all’uscio, come se fosse stata casa loro, io credetti che fossero nostri’.

Tutti risero della scusa.

E Don Diego: ‘Davvero, Paolo’, disse, ‘che voi vi accomodate al bisogno’.

Era proprio degno di  nota il vedere il mio padrone tanto posato e scrupoloso, io invece tanto sbarazzino che l’uno era l’opposto dell’altro: lui la virtù, io il vizio.
La padrona di casa non capiva in sé dalla gioia perché lei e io s’era, come al gioco del rovescino, i due contro l’uno e stizzoso, e avevamo fatto lega insieme contro la spesa delle provviste di casa.

Io ero il dispensiere, il dispensier

Giuda, che d’allora in poi acquistai una certa passione a far l’agresto in quella mia mansione. In mano alla governante di casa poi la carne non serbava la progressione voluta dalla retorica, ma andava sempre diminuendo. Quel giorno che le riusciva di darci della capra o della pecora, non ci dava del castrato; se poi ci aveva degli ossi non metteva in tavola del magro, e faceva quindi certe minestre pallide, deboli, certi brodi che, a rapprenderli, se ne potevan fare fili di vetro. A Natale e a Pasqua, tanto per cambiare, perché nella pentola ci fosse del grasso, soleva metterci dei mozziconi di candele di sego.

Diceva al mio padrone, in mia presenza:

‘Sicuramente non c’è che Paolino che sappia servirci cosí; il mal è che è un po’ birichino. Però ne tenga di conto vossignoria, perché ben gli si può perdonare l’essere birichino, per la sua fedeltà’.

Io, di conseguenza, dicevo lo stesso di lei, e così ingannavamo tutti.

Quando compravamo olio all’ingrosso, carbone o carne salata di maiale, se ne sottraeva la metà; e quando poi ci pareva, si diceva lei e io:

‘Ma moderatevi nello spendere, signori, perché, se fanno tanto presto, davvero che non basta la rendita del re. È già finito l’olio e il carbone, tanto hanno avuto furia. Don Diego ne farà comprare dell’altro, ma bisogna cambiar registro; che dia i danari a Paolino’.

I denari mi venivano dati e noi vendevamo loro per metà l’agresto e per l’altra metà di quello che compravamo: e così per tutto. Se talvolta io compravo al mercato qualche cosa a quanto realmente valeva, a bella posta si questionava la padrona di casa ed io.

Lei diceva, fingendosi in collera:

‘Non me lo venite a dire a me, Paolino, che questi sono due soldi d’insalata’.

Io fingevo di piangere, strepitavo e andavo a lamentarmi dal mio padrone e lo pressavo perché mandasse a informarsi il maggiordomo; sì che la padrona, la quale a bella posta insisteva, si chetasse. Il maggiordomo andava, s’informava e così convincevamo il padrone e lui stesso, i quali ci rimanevano obbligati, a me per la mia condotta, alla padrona per la premura con cui mostrava di fare il loro interesse.

E Don Diego, tutto soddisfatto di me, le diceva:

‘Fosse altrettanto virtuoso Paolino quanto è fidato! questa è onestà bella e buona. Cosa me ne dite voi?’.

In questo modo ce li tenevamo soggetti e li succhiavamo come mignatte.

Scommetto, signor lettore, che vossignoria troverebbe spaventevole vedere che somma in capo all’anno!

In verità doveva esser grossa, ma non da obbligare alla restituzione, perché la nostra governante pur si confessava e comunicava ogni otto giorni, né mai scorsi in lei un indizio e un’idea di volere restituire alcunché e di farsi degli scrupoli, essendo, come dico, una santa donna. Portava sempre al collo un così grosso rosario che sarebbe stato piú agevole caricarsi un fascio di legna. A mazzi ne pendevano immagini, croci, grossi chicchi con annesse speciali indulgenze, e lei andava dicendo che su ciascuna di queste cose pregava ogni notte per i suoi benefattori. I suoi santi avvocati erano più di cento: e davvero che aveva bisogno di tutti questi soccorsi per riscattarsi dai suoi peccati. Si coricava in una stanza piú su di quella del mio padrone e recitava piú orazioni che un cieco. Cominciava con ’orazione Giusto Giudice e finiva col Conquibules – come diceva lei – e la Salve Regina. Le recitava in latino apposta per darsi aria di semplicità, sì che noi tutti ci si scompisciava dal ridere.

Aveva poi mille altre virtù: forniva  pratiche amorose, faceva da gancio fra gli spassi, che è quanto dire era ruffiana ma si giustificava con me col dirmi che era un’eredità di famiglia, come per il re di Francia il guarire la scrofola.

Il signor lettore penserà che si stava sempre d’accordo…

…Ma chi non sa che due compari, se cupidi l’uno e l’altro, facendo lega insieme debbono cercare d’ingannarsi a vicenda?

Avvenne questo: la padrona allevava delle galline nella corte e io avevo voglia di mangiarmene una.

C’erano un dodici o tredici polli grossicelli; un giorno che stava dando loro da mangiare cominciò a fare: “pio, pio”, ripetutamente.

Io al mentire quel modo di chiamarle mi misi a gridare dicendo:

‘Perdio, padrona! meglio aveste ucciso uno o rubato danaro al re (cosa che io avrei potuto tacere) ma non aver fatto quel che avete fatto, che è impossibile non riferirlo. Poveri me e voi!’.

Vedendomi lei far tante smanie e tanto sul serio, si preoccupò un poco e disse:

‘Ma, Paolo, cos’ho fatto? Se hai voglia di scherzare non mi seccar oltre’.

‘Scherzare? Caspita! Io non posso tralasciare di darne parte all’Inquisizione, altrimenti sarei scomunicato’.

‘L’Inquisizione?’ diss’ella, e cominciò a tremar tutta;
‘ma che forse ho fatto qualche cosa contro la fede?’.

‘Questo è ancora di peggio!’ dicevo io; ‘non scherzate con gl’Inquisitori; dite che siete stata una scema e che ora vi ricredete, ma non negate la bestemmia e la profanazione’.

E lei, piena di paura:

‘Ma, Paolo, e se io mi ricredo, mi si punirà?’.

‘No’, risposi, ‘vi assolveranno e basta’.

‘E allora io mi ricredo, disse; ma dimmi tu di che, perché io non lo so; così possano essere in cielo le anime dei miei morti’.
‘Possibile che non ci abbiate badato? Non so come fare a dirlo: l’irriverenza è tale che non me ne dà l’animo. Non vi ricordate d’aver detto - Pio Pio - ai polli? E Pio è nome di papi, dei Vicari di Dio e capi della Chiesa! O mandatevelo giú quel peccatuccio!’.

Lei rimase mezza morta e disse:

‘Paolo, è vero! ma, che Dio non mi perdoni se l’ho fatto a malizia. Io mi ricredo: tu guarda se c’è una via da potersi evitare l’accusa, perché se mi vedessi davanti all’Inquisizione ne morirei’.

‘Purché voi, sopra un altare consacrato, giuriate che non l’avete fatto a malizia, io, così rassicurato, potrò tralasciare di accusarvi. Sarà però necessario che questi due polli che hanno mangiato, accorsi al nome santissimo dei pontefici, me li diate perché io li porti a un ministro dell’Inquisizione a farli bruciare, essendo maledetti; e inoltre dovete giurare di non ricaderci più mai’.

Tutta contenta lei disse:

‘E portateli pur via, Paolo, ora: domani poi giurerò’.

Io per convincerla meglio dissi:

‘Il peggio si è, Cipriana (così si chiamava) che il rischio è mio, perché il ministro dell’Inquisizione mi domanderà se sono stato io, e frattanto mi potrà dare la tortura. Portateli voi, che io, perdinci, ho paura’.

‘Paolo’, disse ‘al sentir questo, per amor di Dio, abbi pietà di me e portali tu, ché a te non ti può succeder nulla’.

Lasciai prima che con insistenza mi pregasse, e finalmente (era quel che volevo) mi risolsi, presi i polli, andai a nasconderli in camera mia, facendo finta di andar fuori e poi tornai dicendo:

‘È andata meglio di quel che credevo; quel caro ministro voleva venir dietro a me per vedere chi era la donna, ma io l’ho pulitamente ingannato e raggirato’.

Cipriana mi dette mille abbracci e un altro pollo per me; ed io, andatomene col pollo là dove avevo lasciato i suoi compagni, li feci fare in cazzeruola a casa di un pasticciere che ce li mangiammo con gli altri domestici. Vennero Cipriana e Don Diego a risapere l’imbroglio, e ne fecero gran festa tutti i dozzinanti. La padrona se ne accorò tanto che per poco non ne morì, e dalla rabbia fu a un pelo (non avendo più ragione di tacere) di far sapere le mie ruberie sulla spesa. Ormai, vedendo che m’ero rotto con la padrona e che non potevo più fargliela, mi misi in cerca di nuovi piani di spasso. Mi detti perciò a quello dell’arruffare di sorpresa andando di burina, come si dice fra la scolaresca.

(F. de Quevedo, L’imbroglione)

















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