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Il boccone breve l'Arte Infinita ovvero: servi & governanti (49)
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Alla ricerca dell' 'immacolata' (e più certa) ricchezza di vita (51)
Bisogna fare il muso secondo la luna, dice il proverbio, e dice bene. A
furia di rifletterci sopra finii col risolvermi ad essere briccone coi bricconi
e piú degli altri, se potessi.
…Non so se ci riuscissi; però stia sicuro, signor lettore, che feci
tutto il possibile…
Innanzi tutto, a quanti maiali si fossero introdotti in casa o polli
della padrona di casa fossero dalla corte entrati in camera mia, pena la vita.
Avvenne che un giorno entrarono due porci (forse meglio chiamarli nominarli con
il vero loro nome scrofe di corte…) della più bella presenza che avessi mai
veduto.
Ero a giocare cogli altri domestici, quando li sentii grugnire, sì che dissi
a uno:
‘Vada un po’ a vedere chi è che grugnisce in casa nostra’.
Andò e disse che erano due porcelloni. Al sentir questo, io tanto mi
adirai che uscii fuori a dire che era una bella birbonata e una grande
sfacciataggine venire a grugnire in casa degli altri; e in così dire, chiusa la
porta, gl’infilzai con la spada l’uno e l’altro e subito li finimmo a colpi
sulla collottola. E perché non si sentisse lo strepito che facevano, noi tutti
e due insieme gridavamo a squarciagola come se si cantasse, finché ci morirono fra
le mani.
Li sventrammo, ne raccogliemmo il sangue e nella corte li strinammo a
furia di paglia dei sacconi, di modo che, quando vennero i nostri padroni,
tutto era fatto alla men peggio, tranne che delle budella non s’era finito di
farne sanguinacci; né già per poca sveltezza, ma perché, appunto per non
indugiare, ci avevamo lasciato per metà quello che c’era dentro.
Don Diego pertanto e il maggiordomo, saputo come era andata la cosa, si
inquietarono con me sì da costringere i dozzinanti, a nulla valendo il ridere
che facevano, a prendere le mie difese. Mi domandò Don Diego che cosa avrei
risposto se mi si accusava e se la giustizia mi arrestava; gli risposi che me
ne sarei appellato alla fame, riparo degli studenti, e che se ciò non fosse
valso avrei detto: ‘Dal momento che se n’entrarono senza picchiare all’uscio,
come se fosse stata casa loro, io credetti che fossero nostri’.
Tutti risero della scusa.
E Don Diego: ‘Davvero, Paolo’, disse, ‘che voi vi accomodate al bisogno’.
Era proprio degno di nota il
vedere il mio padrone tanto posato e scrupoloso, io invece tanto sbarazzino che
l’uno era l’opposto dell’altro: lui la virtù, io il vizio.
La padrona di casa non capiva in sé dalla gioia perché lei e io s’era,
come al gioco del rovescino, i due contro l’uno e stizzoso, e avevamo fatto
lega insieme contro la spesa delle provviste di casa.
Io ero il dispensiere, il dispensier
Giuda, che d’allora in poi acquistai una certa passione a far l’agresto
in quella mia mansione. In mano alla governante di casa poi la carne non
serbava la progressione voluta dalla retorica, ma andava sempre diminuendo. Quel
giorno che le riusciva di darci della capra o della pecora, non ci dava del
castrato; se poi ci aveva degli ossi non metteva in tavola del magro, e faceva quindi
certe minestre pallide, deboli, certi brodi che, a rapprenderli, se ne potevan
fare fili di vetro. A Natale e a Pasqua, tanto per cambiare, perché nella
pentola ci fosse del grasso, soleva metterci dei mozziconi di candele di sego.
Diceva al mio padrone, in mia presenza:
‘Sicuramente non c’è che Paolino che sappia servirci cosí; il mal è che
è un po’ birichino. Però ne tenga di conto vossignoria, perché ben gli si può
perdonare l’essere birichino, per la sua fedeltà’.
Io, di conseguenza, dicevo lo stesso di lei, e così ingannavamo
tutti.
Quando compravamo olio all’ingrosso, carbone o carne salata di maiale,
se ne sottraeva la metà; e quando poi ci pareva, si diceva lei e io:
‘Ma moderatevi nello spendere, signori, perché, se fanno tanto presto,
davvero che non basta la rendita del re. È già finito l’olio e il carbone,
tanto hanno avuto furia. Don Diego ne farà comprare dell’altro, ma bisogna
cambiar registro; che dia i danari a Paolino’.
I denari mi venivano dati e noi vendevamo loro per metà l’agresto e per
l’altra metà di quello che compravamo: e così per tutto. Se talvolta io
compravo al mercato qualche cosa a quanto realmente valeva, a bella posta si
questionava la padrona di casa ed io.
Lei diceva, fingendosi in collera:
‘Non me lo venite a dire a me, Paolino, che questi sono due soldi
d’insalata’.
Io fingevo di piangere, strepitavo e andavo a lamentarmi dal mio
padrone e lo pressavo perché mandasse a informarsi il maggiordomo; sì che la
padrona, la quale a bella posta insisteva, si chetasse. Il maggiordomo andava,
s’informava e così convincevamo il padrone e lui stesso, i quali ci rimanevano
obbligati, a me per la mia condotta, alla padrona per la premura con cui
mostrava di fare il loro interesse.
E Don Diego, tutto soddisfatto di me, le diceva:
‘Fosse altrettanto virtuoso Paolino quanto è fidato! questa è onestà
bella e buona. Cosa me ne dite voi?’.
In questo modo ce li tenevamo soggetti e li succhiavamo come
mignatte.
Scommetto, signor lettore, che vossignoria troverebbe spaventevole
vedere che somma in capo all’anno!
In verità doveva esser grossa, ma non da obbligare alla restituzione,
perché la nostra governante pur si confessava e comunicava ogni otto giorni, né
mai scorsi in lei un indizio e un’idea di volere restituire alcunché e di farsi
degli scrupoli, essendo, come dico, una santa donna. Portava sempre al collo un
così grosso rosario che sarebbe stato piú agevole caricarsi un fascio di legna.
A mazzi ne pendevano immagini, croci, grossi chicchi con annesse speciali
indulgenze, e lei andava dicendo che su ciascuna di queste cose pregava ogni
notte per i suoi benefattori. I suoi santi avvocati erano più di cento: e
davvero che aveva bisogno di tutti questi soccorsi per riscattarsi dai suoi
peccati. Si coricava in una stanza piú su di quella del mio padrone e recitava piú
orazioni che un cieco. Cominciava con ’orazione Giusto Giudice e finiva col
Conquibules – come diceva lei – e la Salve Regina. Le recitava in latino
apposta per darsi aria di semplicità, sì che noi tutti ci si scompisciava dal
ridere.
Aveva poi mille altre virtù: forniva
pratiche amorose, faceva da gancio fra gli spassi, che è quanto dire era
ruffiana ma si giustificava con me col dirmi che era un’eredità di famiglia,
come per il re di Francia il guarire la scrofola.
Il signor lettore penserà che si stava sempre d’accordo…
…Ma chi non sa che due compari, se cupidi l’uno e l’altro, facendo lega
insieme debbono cercare d’ingannarsi a vicenda?
Avvenne questo: la padrona allevava delle galline nella corte e io avevo
voglia di mangiarmene una.
C’erano un dodici o tredici polli grossicelli; un giorno che stava
dando loro da mangiare cominciò a fare: “pio, pio”, ripetutamente.
Io al mentire quel modo di chiamarle mi misi a gridare dicendo:
‘Perdio, padrona! meglio aveste ucciso uno o rubato danaro al re (cosa
che io avrei potuto tacere) ma non aver fatto quel che avete fatto, che è
impossibile non riferirlo. Poveri me e voi!’.
Vedendomi lei far tante smanie e tanto sul serio, si preoccupò un poco
e disse:
‘Ma, Paolo, cos’ho fatto? Se hai voglia di scherzare non mi seccar
oltre’.
‘Scherzare? Caspita! Io non posso tralasciare di darne parte
all’Inquisizione, altrimenti sarei scomunicato’.
‘L’Inquisizione?’ diss’ella, e cominciò a tremar tutta;
‘ma che forse ho fatto qualche cosa contro la fede?’.
‘Questo è ancora di peggio!’ dicevo io; ‘non scherzate con
gl’Inquisitori; dite che siete stata una scema e che ora vi ricredete, ma non
negate la bestemmia e la profanazione’.
E lei, piena di paura:
‘Ma, Paolo, e se io mi ricredo, mi si punirà?’.
‘No’, risposi, ‘vi assolveranno e basta’.
‘E allora io mi ricredo, disse; ma dimmi tu di che, perché io non lo
so; così possano essere in cielo le anime dei miei morti’.
‘Possibile che non ci abbiate badato? Non so come fare a dirlo:
l’irriverenza è tale che non me ne dà l’animo. Non vi ricordate d’aver detto - Pio
Pio - ai polli? E Pio è nome di papi, dei Vicari di Dio e capi della Chiesa! O
mandatevelo giú quel peccatuccio!’.
Lei rimase mezza morta e disse:
‘Paolo, è vero! ma, che Dio non mi perdoni se l’ho fatto a malizia. Io mi
ricredo: tu guarda se c’è una via da potersi evitare l’accusa, perché se mi
vedessi davanti all’Inquisizione ne morirei’.
‘Purché voi, sopra un altare consacrato, giuriate che non l’avete fatto
a malizia, io, così rassicurato, potrò tralasciare di accusarvi. Sarà però
necessario che questi due polli che hanno mangiato, accorsi al nome santissimo
dei pontefici, me li diate perché io li porti a un ministro dell’Inquisizione a
farli bruciare, essendo maledetti; e inoltre dovete giurare di non ricaderci più
mai’.
Tutta contenta lei disse:
‘E portateli pur via, Paolo, ora: domani poi giurerò’.
Io per convincerla meglio dissi:
‘Il peggio si è, Cipriana (così si chiamava) che il rischio è mio,
perché il ministro dell’Inquisizione mi domanderà se sono stato io, e frattanto
mi potrà dare la tortura. Portateli voi, che io, perdinci, ho paura’.
‘Paolo’, disse ‘al sentir questo, per amor di Dio, abbi pietà di me e
portali tu, ché a te non ti può succeder nulla’.
Lasciai prima che con insistenza mi pregasse, e finalmente (era quel
che volevo) mi risolsi, presi i polli, andai a nasconderli in camera mia,
facendo finta di andar fuori e poi tornai dicendo:
‘È andata meglio di quel che credevo; quel caro ministro voleva venir
dietro a me per vedere chi era la donna, ma io l’ho pulitamente ingannato e
raggirato’.
Cipriana mi dette mille abbracci e un altro pollo per me; ed io, andatomene
col pollo là dove avevo lasciato i suoi compagni, li feci fare in cazzeruola a
casa di un pasticciere che ce li mangiammo con gli altri domestici. Vennero
Cipriana e Don Diego a risapere l’imbroglio, e ne fecero gran festa tutti i
dozzinanti. La padrona se ne accorò tanto che per poco non ne morì, e dalla
rabbia fu a un pelo (non avendo più ragione di tacere) di far sapere le mie
ruberie sulla spesa. Ormai, vedendo che m’ero rotto con la padrona e che non
potevo più fargliela, mi misi in cerca di nuovi piani di spasso. Mi detti
perciò a quello dell’arruffare di sorpresa andando di burina, come si dice fra
la scolaresca.
(F. de Quevedo, L’imbroglione)
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