giuliano

domenica 31 dicembre 2017

CERCHI & SPIRALI (67)












































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Martirio Verde (66)

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Martirio Verde (secondo atto) ovvero quando la Terra piatta (68) 














...Erano, cioè, ancora troppo fanciulleschi e troppo giocosi per trovare un qualche valore nello snobismo.

Gli Irlandesi accolsero l’istruzione a modo loro, come qualcosa con cui giocare. L’unico alfabeto che avevano conosciuto sino allora era ogham, un rozzo insieme di linee basate sull’alfabeto romano, con il quale incidevano laboriosamente gli angoli di pietre verticali per trasformarle in monumenti. Queste iscrizioni simili a rune, che continuarono ad apparire durante i primi anni del periodo cristiano, non suggerivano certo ciò che stava per accadere, dal momento che, nel volgere di una generazione, gli Irlandesi avrebbero padroneggiato il latino e il greco e si sarebbero sforzati di acquisire un’infarinatura di ebraico.

Concepirono delle grammatiche irlandesi, e trascrissero per intero la propria letteratura orale indigena. Tutto questo si rivelò abbastanza semplice, anche troppo, una volta che ebbero capito il trucco. Cominciarono ad inventare delle lingue. I membri di una remota setta segreta, formatasi già verso la fine del quinto secolo, erano in grado di scrivere l’un l’altro adoperando una forma di latino inusitato ed ermeticamente erudito chiamato Hisperica Famina, non dissimile dal linguaggio-sogno del Finnegans Wake, o dai linguaggi inventati da J.R.R. Tolkien per i suoi gobbi e folletti.   




Combinarono le nobili lettere degli alfabeti greci e romani con la semplicità talismanica e magica dell’ogham, per produrre maiuscole iniziali e titoli che inchiodavano l’occhio alla pagina, suscitando reverenza nel lettore. 
Per il corpo del testo svilupparono due calligrafie differenti; la prima in un carattere maestoso ma arrotondato chiamato ‘semionciale irlandese’ e la seconda in un carattere facile da scrivere detto ‘maiuscola irlandese’, più leggibile, più scorrevole e – diciamolo pure – molto più allegra di qualsiasi grafia inventata precedentemente.

La cosa degna di nota e interessante dal punto di vista di una Storia di cui abbiamo perso Memoria in questa nuova èra, è che per ornare i testi dei loro libri più preziosi, gli Irlandesi cercarono istintivamente un modello, anziché nelle rozze linee dell’ogham, nella loro matematica preistorica e nelle tracce più antiche dell’esistenza dello spirito umano in Irlanda, ossia le tombe megalitiche della valle del Boyne. Queste tombe furono edificate in Irlanda nel 3000 a.C. circa, la stessa epoca della costruzione di Stonehenge in Britannia.
Misteriose al pari di Stonehenge, sia per quanto riguarda la loro origine sia per la complessità dell’ingegneria, queste grandi tombe a tumolo rappresentano la più antica architettura irlandese, e sono rivestite dalle indecifrabili forme, a zigzag e a losanga caratteristiche dell’arte primitiva irlandese. Questi imponenti tumoli che raccontano una storia il cui senso possiamo solo congetturare, fornirono per lungo tempo ai fabbri irlandesi la loro ispirazione artistica. Nelle ampie linee delle affascinanti incisioni del Boyne possiamo infatti discernere l’origine dei magnifici gioielli e degli altri oggetti in metallo realizzati, all’inizio del periodo patriziano, dai fabbri, i quali detenevano nell’ambito della società irlandese il rango di indovini. Questa intricata profusione di lavori in metallo si presenta come una serie di variazioni sul tema originale…




Di quale tema si trattava?

L’equilibrio nello squilibrio!

Prendiamo ad esempio l’arguto coperchio della scatola bronzea appartenente al tesoro del Somerset proveniente da Galway: fa mostra di una precisione matematica, eppure è deliberatamente decentrato; forgiato da un fabbro abile nell’uso del compasso, e dotato di ironia. Il suo fascino è Infinito poiché, in quanto variazione/ripetizione sul tema della circolarità, non ha fine… Sembra che dica ‘il cerchio non esiste’, esiste soltanto la spirale che si configura senza fine, non esistono linee rette, ma solo curve…
(T. Cahill, Come gli Irlandesi salvarono la civiltà)




Esiste un’espressione presso un antico scrittore cabalistico sull’uomo che cade all’interno della sua stessa circonferenza: ora ad ogni generazione ci troviamo più lontani dalla Vita stessa e l’Anima-Mundi che forma la sua essenza, e cadiamo sempre di più in preda di quell’influenza cui si riferiva Blake quando scrisse:

I Re ed il Parlamento (e tutti i loro cortigiani) mi sembrano cosa diversa dalla vita umana (dalla realtà e verità umana)…

Perdiamo sempre più la libertà man mano che fuggiamo da noi stessi, e non solo perché le nostri menti sono stravolte dalle frasi astratte e dalle generalizzazioni, riflessi su uno specchio che sono un’apparenza della vita, ma perché abbiamo capovolto la scala dei valori e crediamo che la radice della realtà non stia al centro, ma da qualche parte in quella vorticosa circonferenza. E in che modo potremmo creare come gli antichi, se innumerevoli considerazioni di probabilità esterne o di utilità sociale distruggono il potere creativo, solo apparentemente irresponsabile che è la Vita stessa?




…Ogni argomento come abbiamo letto non casualmente circa le valide argomentazioni di Cahill ci riconduce a qualche concezione filosofica-religiosa, e alla fine l’energia creativa degli uomini dipende dalla loro fede di possedere, nel loro intimo, qualcosa di immortale e di incorruttibile (là ove regna sovrana la corruzione sia materiale che spirituale), e che ogni altra cosa non è che un’immagine in uno specchio formare la spirale appena detta…. Sino a che questa fede non sarà soltanto formale, un uomo trarrà le sue creazioni da un’energia piena di gioia, senza cercare tante prove per un impulso che può essere davvero sacro, e senza ricorrere ad alcun fondamento fuori dalla vita stessa…

L’arte, nei suoi momenti più alti, non è una creazione volontaria, ma deriva da un sentimento potente, dalla pura essenza intesa quale Anima-Mundi di vita, ed ogni sentimento è figlio di tutte le età passate (come una Spirale donde la vita) e sarebbe diverso se anche un solo istante fosse stato trascurato. E davvero non è proprio quel piacere della bellezza e dell’armonia che dice all’artista che egli ha immaginato quel che forse non morirà, ed è esso stesso soltanto un piacere delle forme perenni e tuttavia cangianti in spirali di vita, nelle sue stesse membra e nei suoi tratti?




Quando la vita l’ha donato, non ha forse dato nient’altro che se medesima?

Riserva forse mai altra ricompensa, perfino ai santi?

Se uno fugge verso il deserto, non è quella luce chiara che cade sull’Anima quando tutte le cose insignificanti sono state allontanate, altri che la vita che l’ha sempre circondato, ora finalmente goduta in tutta la sua pienezza?

Se un uomo trascorre tutti i suoi giorni in buone opere sinché nel suo cuore non resti emozione alcuna che non sia colma di virtù, la ricompensa che implora non è forse vita eterna?

Allo stesso modo, anche l’artista ha le sue preghiere e il suo monastero, e se non si allontana dalle cose temporali, dallo zelo del riformatore e della passione della rivoluzione, quell’amante gelosa non gli rivolgerà che un’occhiata di scherno…
(W. B. Yates, Anima Mundi)


















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